Recensione. Ai Cantieri Teatrali Koreja, César Brie è andato inscena con La riparazione. Raccontare la famiglia tra le storie dei minimi e le Storie del mondo.
Andare a teatro stavolta è stato come cadere, o arrancare. Per sua stessa natura, il Sud è una voragine. Un ventre molle ed elastico che si estende, anzi si distende, su ogni marginalità perché è di quello che si nutre. A Lecce, nei Cantieri Teatrali Koreja storicamente si comunica con quelle marginalità: Sud è anche il dirimpettaio Est. Anche da lì, da quelle realtà definite e percepite provinciali, riecheggiano voci e storie che sono voragini. A Koreja, con La riparazione si precipita in un’altra voragine, la famiglia. Parlarne è mettersi in una posizione molto scomoda. Un desiderio, una gabbia, un obiettivo, un fallimento, una salvezza; la sua è una naturale tendenza a una schizofrenia poiché nasce da tentativi di incastri. In un solo aspetto le famiglie si mantengono coerenti: il dolore. Tolstoj aveva torto, forse per eccesso di fiducia, perché in famiglia si soffre sempre allo stesso modo. E per gli stessi motivi. Solo la Storia (in questo caso, il disastro nell’ex Jugoslavia o la crisi pandemica) può acuire un dolore così specifico.
César Brie, di un altro Sud ancora, con una tradizione narrativa nel realismo magico, ha da infilare le braccia fino ai gomiti nelle vite dei dolenti; ha dovuto rivangare in una terra scura concimata dalla saliva di lingue gonfie di una koinè di suoni sofferenti che trascendono la comprensione degli idiomi. Dei sette attori in scena, quattro sono italiane (Giorgia Cocozza, Elisa Morciano, Barbara Petti e Maria Rosaria Ponzetta), uno è montenegrino (Bashkim Alaj), una è abanese (Ilire Vinca) e un’altra ancora è serba (Anđelka Vulić), e dalle loro bocche è stato estratto il magma dei ricordi privati. Brie lavora su di un teatro che è senso reale e quotidianità, che è una costruzione collettiva; sette sconosciuti di sette famiglie diverse raccontandosi riescono a produrre un unico nucleo, che a sua volta si adatta quasi perfettamente al racconto drammatizzato: farebbe quasi impressione se si fosse tanto ingenui da credere che le lacrime cadano diversamente da occhio a occhio. Si parte dall’idea di destrutturare un ordinato e ordinario ritratto fotografico dietro la cui cornice la famiglia è in posa con imbarazzo e disagio.
La prima disarmonia è maschile, e di quel maschio per pochi minuti si indossano gli abiti volgari. È fuori questione che nella distribuzione delle sofferenze, sulle spalle delle donne si abbatte un peso talmente grave, ma scegliere una narrazione che si focalizzi specialmente sul femminile è una prerogativa delle produzioni di Koreja, dove si è compreso il portato politico della sperimentazione. Nel caso specifico, permettere a sei donne in camicia da notte di vestirsi come uomini imbruttiti da una sessualità rapace è sovversivo: questo è giusto l’incipit. In scena avviene che una realtà personale nell’essere interscambiabile e condivisibile diventa esemplare; l’aspetto esemplare di quella realtà facilita la creazione dei personaggi. Ognuna delle persone in scena deve poi districarsi tra chi è e chi deve interpretare, avendo sempre presente che il personaggio può essere un proprio ricordo o un ricordo altrui, nella visione lievemente caotica delle contingenze che si forzano insieme. Bashkim Alaj, l’unico uomo, è un padre assente col vizio del bere e un marito fedifrago; Ilire Vinca è una madre che cresce le figlie da sola e ha una relazione extraconiugale prima di separarsi dal marito; Maria Rosaria Pozzetta è una splendida nonna che pensa all’amato marito morto ma la demenza di cui soffre, e il conseguente allentamento del pudore, svela una serie di ricordi poco piacevoli. Poi ci sono loro, le giovanissime ancora solo figlie, dipendenti, anche da adulte, da tutto quello che hanno visto e subito; tra loro, il compito più gravoso spetta a Barbara Petti: deve ricordare, interpretare e infine farsi spettatrice passiva di quello che racconta.
È tutto talmente crudele, anche la generosità sincera delle attrici e dell’attore, anche i canti popolari che sono sangue per chi li ascolta. C’è troppo del vissuto di chiunque, e il dolore collettivo si esaspera in strazio. Chissà a quale parossismo si sarebbe giunti se si fosse tralasciato l’espediente della drammatizzazione, se fosse stato tutto un pedante resoconto, se l’albanese e il serbo non fossero mai stati tradotti in italiano. Forse però la presenza che più riesce a martoriare l’emotività dello spettatore è quella degli oggetti, che siano reali come il divano o una bicicletta, o simbolici come una robusta corda (“Dietro gli oggetti e non dietro la scenografia devono celarsi concetti, simboli, idee, e quanto più i simboli sono ambigui, maggiore sarà la loro forza di suggestione. E lo spettatore smette di osservare soltanto, e pensa, si commuove e intuisce, perché si commuove e pensa.” sono le parole del regista); su quegli oggetti vivi perché vissuti, ingombrati di gesti e parole, che sono anche casa, la luce si modula caldissima e da lì le ombre si diramano nere. L’ho scritto, voragini.
Valentina V. Mancini
Teatro Koreja, Lecce – Febbraio 2022
regia e testo Cesar Brie