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Il giardino dei ciliegi. Tiago Rodrigues in fuga dai personaggi cechoviani

Recensione. Il giardino dei ciliegi (La cerisaie) al Théâtre de l’Odéon di Parigi. Con Isabelle Huppert e la regia di Tiago Rodrigues. Lo spettacolo in Italia è stato rappresentato al Pompeii Theatrum Mundi. Prossime date al Théâtre de Liège, Ginevra, Vienna.

Foto di Christophe Raynaud de Lage – Festival d’Avignon

Il regista portoghese Tiago Rodrigues ha realizzato nel luglio 2021 il suo primo adattamento cechoviano: Il giardino dei ciliegi (La cerisaie). Lo spettacolo ha debuttato come inaugurazione del settantacinquesimo Festival di Avignone, di cui Rodrigues stesso è direttore artistico. La carriera di Rodrigues ha preso una svolta proprio in Francia nel 2014 con la sua pièce By heart, realizzata in collaborazione con il Théâtre de la Bastille. Per quanto riguarda La cerisaie, vista al Théâtre de l’Odéon di Parigi, è impossibile non pensare che il grande richiamo di questo spettacolo sia anche dovuto – giustamente – alla presenza di Isabelle Huppert, anche lei per la prima volta nei panni di un personaggio cechoviano, nel ruolo di Liubòv Andriéievna Raniévskaia, la proprietaria.

Foto di Christophe Raynaud de Lage – Festival d’Avignon

Di primo acchito, lo spazio scenico non ha niente che richiami l’atmosfera dell’opera testamentaria di Čechov. Non c’è, insomma, alcun “giardino dei ciliegi”, e nemmeno alcun rinvio al concetto comune di “natura”. Non c’è nemmeno, se vogliamo, una qualsivoglia delimitazione che renda possibile immaginarsi una tenuta, una proprietà. Insomma, è uno spazio aperto, senza qualità, povero, come è spesso di costume della scenografia di Rodrigues. Delle comunissime sedie in plastica sono rivolte verso il pubblico, e il solo ammiccamento ai ciliegi è costituito da dei lampioni a forma arborescente issati su pannelli mobili che permettono il passaggio da un atto all’altro. È proprio uno di questi pannelli che ospita Hélder Gonçalves e Tiago Rodrigues stesso in veste di musicisti, con le loro apparecchiature e i loro strumenti musicali. L’intera pièce è infatti accompagnata dalla musica dal vivo, tant’è che questa diventa protagonista nel momento in cui Lopachin Iermolài Alexiéievic (Adama Diop) acquisirà la proprietà nel penultimo atto della pièce – in un momento di noise rock assordante che non permette di distinguere il monologo del protagonista. Anche in altri momenti i personaggi sono condizionati dalla presenza scenica della musica e dei musicisti che divengono in tal modo un personaggio aggiuntivo. E, in una pièce e in un adattamento che fanno del minimalismo il loro cavallo di battaglia, viene da chiedersi in che modo possa funzionare un elemento così barocco.

La scelta di Rodrigues va nella direzione della farsa; dopotutto, è stato lo stesso regista ad affermare, di “non aver tentato di mettere in scena Il giardino dei ciliegi”. L’intervista rilasciata proprio in occasione del Festival di Avignone dello scorso luglio, rivela gran parte delle intenzioni del regista. Rodrigues vi afferma, tra le altre cose, che Il giardino di Čechov parla di «Un mondo che cambia più velocemente dei corpi dei personaggi mentre gli eventi sfrecciano quasi al di fuori del loro controllo  […] Quindi abbiamo lavorato sull’instabilità legata al movimento perpetuo, da questa idea di un tempo che sfugge, che non ci permette di trovare una soluzione». Che cosa intende Rodrigues per “confusione strutturale”? Rodrigues tenta di superare la staticità del testo, inteso anche come il semplice declamare degli attori, lasciando che le parole echeggino nel vuoto della sala e interrompendo i personaggi attraverso continui rumori: dall’entrata in scena di un altro personaggio alla battuta di qualcuno, alla musica stessa, come se il loro percorso di identificazione fosse fallimentare e vano per principio. Come se Čechov fosse visto tramite uno sguardo ioneschiano. Si evince poi che l’atteggiamento di Rodrigues e dei suoi attori è quello di concedere qualcosa al pubblico – al quale, come già ricordato prima, le sedie sono rivolte. Lo spettacolo inizia, in effetti, con Lopachin, il bifolco elegante che, rivolgendosi a chi è in sala, presenta senza ambagi la pièce di Čechov commettendo peraltro volutamente un lapsus, affermando cioè che essa è stata scritta nel 1704. Uno dei personaggi, Tom Adjibi alias Iepichòdov, sembra concepito anch’egli completamente destinato al divertimento del pubblico, quando per esempio imbraccerà la chitarra per cantare in slang.

Foto di Christophe Raynaud de Lage – Festival d’Avignon

Se il teatro contemporaneo ha un carattere universale, indipendentemente dal contesto geografico e culturale, è quello di aver distrutto completamente il momento del “sipario”; lo spettacolo, cioè, è sempre “già iniziato” dal momento stesso in cui qualcuno mette piede nella sala. In questo senso si comprende questo comportamento istrionico del bravissimo Diop, questo motto di spirito con cui scioglie il ghiaccio – e che perpetrerà, d’altronde, anche alla soglia dell’ultimo atto ancora una volta con una battuta. La domanda che sorge è: fino a che punto questo atteggiamento è in grado di mantenere intatta l’unità del testo? Fino a che punto ci si può spingere in una sovrapposizione di scritture?

Per di più, il processo di sovrapposizione continua anche per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi stessi. Risulta infatti molto difficile per lo spettatore separare l’attore – e i suoi connotati fisici –  dal ruolo che interpreta: nella messa in scena di Rodrigues, il primo sovrasta totalmente il secondo. Questa direzione anti-stanislavskijana colpisce ancora di più se ricordiamo che la prima rappresentazione de Il giardino fu proprio sotto la mano di Stanislavskij, nel gennaio del 1904. Diop non è “un” attore scelto a caso. Le frontiere tra reale e rappresentazione sono qui volutamente dissolte; quando Lopachin-Diop racconta della travagliata storia della sua famiglia, quando rivendica il suo essere figlio di schiavi, è anche per l’appunto Diop (e solo dopo Lopachin) che parla, che scaraventa addosso al pubblico la sua biografia, il suo passato di figlio della classe media senegalese che grida il diritto di appropriarsi di una cultura-società che lo ha sempre sfruttato. Questa serie di espedienti sembra volerci spingere verso una rivalutazione dell’attualità del teatro cechoviano, come a dire che se Il giardino dei ciliegi  è un classico è proprio per questa facoltà di poterne piegare il testo ad un’epoca e a un contesto radicalmente diversi. Eppure, la sensazione che si prova è quella di una disgiunzione tra le parti. Gli attori sembrano più parlare a se stessi che con i loro compagni – scelta voluta forse anche questa?

Foto di Christophe Raynaud de Lage – Festival d’Avignon

Hugo Mangin è uno dei pochi critici che afferma come lo spettacolo divenga, tramite la musica, troppo saturo e che il regista rischi di distorcere il significato dell’opera non affidandosi ad essa. Ma, in generale, si tratta di uno spettacolo molto acclamato dalla critica oltralpe, attirato – come già detto – sicuramente dalla presenza dell’eroina nazionale Huppert, la cui resa risulta alquanto avulsa dal resto della compagine. Huppert dà l’impressione – come spesso nei suoi ruoli drammatici – di assumere su di sé una quantità di struggimento tale da renderla insensibile: così, si sposta nel palco emettendo versi da bambina (come vuole il personaggio) ma sempre e comunque spossessata, una marionetta in un’altalena di risi e pianti. Questo incedere spersonalizzato sbilancia il baricentro narrativo nella direzione di Diop-Lopachin (senza dimenticare che è proprio lui ad aprire e chiudere la scena), che invece abita interamente le sue affermazioni. Se nella pièce cechoviana nessun personaggio usciva “sano e salvo” dalla rappresentazione, nella versione di Rodrigues si assiste ad un passaggio di consegne proprio alla nuova “classe sociale” impersonata da Lopachin. Gli ultimi saranno i primi?

Artin Bassiri

Febbraio 2022, Théâtre de l’Odéon, Parigi

Il giardino dei ciliegi (La cerisaie)

traduction André Markowicz, Françoise Morvan
collaboration artistique Magda Bizarro
scénographie Fernando Ribeiro
lumière Nuno Meira
costumes José António Tenente
maquillage/coiffure Sylvie Cailler, Jocelyne Milazzo
musique Hélder Gonçalves (composition), Tiago Rodrigues (paroles)
son Pedro Costa
assistant à la mise en scène Ilyas Mettioui

production Festival d’Avignon

coproduction Odéon-Théâtre de l’Europe, Théâtre national Dona Maria II – Lisbonne, Théâtre national Populaire de Villeurbanne, Comédie de Genève, La Coursive – scène nationale de la Rochelle, Wiener Festwochen, Comédie de Clermont-Ferrand, National Taichung Theater – Taïwan, Teatro di Napoli – teatro nazionale, Fondazione Campania dei Festival – Compania Teatro Festival, Théâtre de Liège, Internationaal Theater Amsterdam

avec le soutien de la Fondation Calouste Gulbenkian
avec la participation artistique du Jeune théâtre national

avec le soutien du Cercle de l’Odéon

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Artin Bassiri
Artin Bassiri
Artin Bassiri Tabrizi (1992) ha studiato filosofia all’EHESS di Parigi (Master in Arts et langages). Dal 2021 è iscritto in un Dottorato di ricerca presso l’ACCRA di Strasburgo sotto la tutela di Stefan Kristensen. È al contempo diplomato in pianoforte al Conservatorio di Perugia, e ha svolto un periodo di ricerca tramite il progetto Daedalus: l’artista da giovane a Firenze, sotto la tutela di Alexander Lonquich e Cristina Barbuti. È stato segretario artistico del pianista Roberto Prosseda. Ha tradotto il libro di Boris Berman, Notes from the pianist’s bench per Curci. Collabora con le riviste Quinte Parallele, Gli Spietati, Philosophy Kitchen. I suoi temi di ricerca intrecciano la psicanalisi, l’estetica musicale e visuale e la letteratura. Insegna attualmente filosofia in un liceo parigino.

1 COMMENT

  1. Ho visto lo spettacolo in estate a Pompei e ne ho ricavato sensazioni simili: poco cechoviano, per struttura e sensibilità, con una protagonista palesemente inadatta al ruolo (troppo algida, inespressiva, rigida e “anempatica”), con pose e posture spesso da commedia dell’arte (gli attori che parlano al pubblico o a se stessi). Qualche ruffianata (il menestrello a Pompei canta Volare e dialoga in italiano con il pubblico), qualche buona idea registica , un paio di interpretazioni rilevanti ma il saldo finale non è dei migliori.

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