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Tennessee Williams e quel senso eterno della solitudine

Recensione. Una bellissima domenica a Creve Coeur di Tennessee Williams, visto alla Sala Fassbinder del Teatro Elfo Puccini. Un tentativo di un superamento dei confini non soltanto identitari ma anche di genere.

Foto Manuela Giusto

Tre porte. Un cucinino. Un telefono. Un letto. Due sedie circondano un tavolino da tè. E poi c’è una gabbia, appesa al soffitto, abitata da un uccellino dalla vita imbalsamata proprio come le sue piume. Un brivido ci percorre improvvisamente la schiena perché quella sensazione la conosciamo bene ormai, e forse una riflessione diviene necessaria di fronte ad una tale accuratezza scenografica. Così lo sguardo si muove, da destra a sinistra, da sinistra a destra, e come una macchina da presa indaga i dettagli della scena alla ricerca di un corpo, di una figura, di un personaggio, soltanto per poterlo interrogare. Luci spente, inizia lo spettacolo.
Si apre così il reenactment di una delle ultime opere di Tennessee Williams, Una bellissima domenica a Creve Coeur, in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano con la regia di Tommaso Capodanno. Allievo del corso attori dell’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma, Capodanno ha voluto riportare alla luce una commedia sentimentale che maschera, attraverso una sottile e a tratti spiccata ironia, una condizione esistenziale che tutti accomuna: il senso eterno della solitudine.

Foto Manuela Giusto

E all’interno di questa solitudine logora ma indelebile, fa sguazzare inermi quattro personaggi, estremamente diversi ma intimamente vicini. Siamo in una provincia americana degli anni Trenta, e a St. Louis è domenica mattina. Dorothea, un’insegnante di educazione civica, non fa in tempo ad alzarsi dal letto che già comincia imperterrita la sua routine quotidiana di esercizi per lo sfinimento fisico (più che rifinimento). Condivide l’appartamento con l’apprensiva Bodey, una tedesca che riesce a sprigionare un compassionevole affetto anche nell’accecante scelta cromatica degli interni di casa. Al vivido viola della moquette, la dolce Bodey può solo abbinare il rosa e blu delle porte, accostamenti forzati che vogliono portare in risalto un evidente disaccordo. O piuttosto un’insondabile insoddisfazione, quella che sentivano di dover vivere le donne “zitelle” e senza figli all’interno di una società conservatrice e tradizionalista, senza la reale possibilità di un riscatto. Un’imposizione che le porta alla ricerca di qualcosa o qualcuno che possa finalmente farle sentire al loro posto, spingendole a frugare al di fuori di sé ciò che invece manca dentro.

Foto Manuela Giusto

La scena si tinge di tonalità calde quando, dalla porta d’ingresso, preannunciati dall’intensità di una luce che in tutti i modi cerca di penetrare nell’appartamento, entrano ed escono due ospiti; da una parte l’altezzosa Helene, occhiali cat-eye e boa di piume rosa, collega di Dorothea e insegnante di storia dell’arte, dall’altra la Signorina Gluck, donna isolata dalla sola lingua che parla, il tedesco, e la cui schiena ricurva sembra dover portare il peso di un lutto insostenibile. Nello spazio dilaga, così, un senso di attesa che ha tutto il sapore della disillusione dei primi amori infranti e dei sogni svaniti. Solo proiettandosi altrove le donne tentano di acuire quel tedio cardiaco, ma di fronte al tormento, ogni aspetto della propria vita diventa incolore, insapore, inodore. E ad insidiarsi negli spifferi dei dialoghi sono parole taciute e segreti nascosti; un’aposiopesi che ci fa intuire come neanche tra loro possa esserci la cruda verità perché implicherebbe una presa di coscienza che sembra arrivare solo alla fine dello spettacolo.

Foto Manuela Giusto

Allein! Allein! Allein! Urla improvvisamente la Signorina Gluck, riportandoci a quella reiterazione schiacciante del verso di Leopardi: E il vegliardo, al crocchiar, balza / nella rotta oscurità. / Gira lento gli occhi. Solo! / Solo! Solo! E la solitudine profonda, in una sala buia ghermita di spettatori, è tutto quello che riusciamo a sentire, perché sì, spesso ci si sente vuoti anche in mezzo al caos della gente. Poi, un colpo di scena e la regia trasforma un sentimento così ineluttabile nel riso beffardo della canzone di un’icona pop. Ridiamo, ma amareggiati, perché la realtà sa essere particolarmente tagliente quando mostrata con l’ironia di una situazione. Un’acuta scelta di regia, questa, in grado di arricchire il copione originale ma rientrando pur sempre nei limiti dell’uniformità e della coerenza dell’adattamento teatrale.

Foto Manuela Giusto

Quattro donne, quattro storie, quattro insicure fragilità che Capodanno fa interpretare a quattro uomini, per sottolineare come non ci siano distinzioni nel dolore di un sentire comune. Ogni personaggio assume così due volti e molteplici sfumature perché nell’epoca attuale non possiamo più ridurci ad uno stereotipo di genere. «Oggi che le etichette stanno sparendo, che i ruoli (anche di genere) non sono più così distinti – precisa il regista – il senso di solitudine, che accomuna le protagoniste della storia, e le difficoltà nell’aderire a un modello culturale riguardano tutte e tutti. Per questo abbiamo deciso di raccontare la solitudine di queste quattro donne attraverso quattro interpreti maschili».
E alla fine capiamo, noi come loro, che non è la fuga (da sé nel rincorrere qualcos’altro) a rappresentare la possibilità di un riscatto. I personaggi di Williams, solitari e marginali come quelli di tutta la sua produzione artistica, rimangono così esposti e imbalsamati nella propria condizione sociale senza sapere se dover arrendersi o poter lottare. Una condizione mantenuta dal mordace riadattamento (ad opera dello stesso regista) anche nel superamento dei confini di genere. E così, i personaggi, rimangono sospesi nel vuoto e, all’interno della propria gabbia, chiedono urgentemente di uscire; sono soli come noi tutti, anche se a teatro.

Andrea Gardenghi

Teatro Elfo Puccini, Milano – Gennaio 2022

UNA BELLISSIMA DOMENICA A CREVE COEUR
regia Tommaso Capodanno
supervisione Arturo Cirillo
con Matteo Berardinelli, Giovanni Prosperi, Dario Caccuri, Tommaso Paolucci
scenografia Dario Gessati
luci Luigi Biondi
supervisione suono Hubert Westkemper
coreografie Francesco Manetti
produzione Teatro dell’Elfo, Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico

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Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi, nata in Veneto nel 1999, è laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in Conservazione e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali. Prosegue i suoi studi a Milano specializzandosi al biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali dell’Accademia di Brera. Dopo aver seguito nel 2020 il corso di giornalismo culturale tenuto dalla Giulio Perrone Editore, inizia il suo percorso nella critica teatrale. Collabora con la rivista online Teatro e Critica da gennaio 2021.

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