Recensione. La febbre di Wallace Shawn, nell’adattamento per la regia di Veronica Cruciani e la traduzione di Monica Capuani, con in scena Federica Fracassi. Visto al Teatro India di Roma.
Seppur nella loro ostentata univocità, degna di un incubo galleggiante dai contorni esacerbati e insinceri perché dalla realtà sono stati traslati nel delirio, alcune battute de La febbre di Wallace Shawn, una volta incontrate, continuano ogni tanto ad affiorare nella complessità odierna. Come bollicine nel bicchiere d’acqua appena versata, salgono su, piccole e rapidissime, seguendo una direzione precisa e una volta arrivate quasi in superficie, scoppiano. In un’intervista fatta qualche mese fa, discutendo della necessità del mestiere d’attrice di “stare sul pezzo” e di non esimersi dagli sconvolgimenti di questi mesi, l’attrice Federica Fracassi mi diceva: «Sembrerebbe che questa società, man mano che vede l’avanzare del disastro, forse per paura, peggiori il proprio ego». Pensiero coerente con il personaggio “politicamente coinvolto” che l’attrice ha dovuto studiare e interpretare per l’adattamento firmato da Veronica Cruciani del testo di Shawn visto al Teatro India di Roma, e che speriamo di ritrovare sulla scena anche nel 2022. La traduzione di Monica Capuani sceglie come voce – lasciata indefinita nelle note di Shawn – quella di una donna in quanto, come da Capuani dichiarato, «a me un’attrice sembra l’interprete ideale, per una certa maggiore capacità di identificazione, di empatia, almeno temporanea (nella condizione alterata che le dà la febbre), con le vittime».
Una donna quasi di mezza età, con cappotto avvitato in vita e capelli ordinatamente legati, sale sulla scena e si mostra in luce entrando in sala dalla porta antincendio del teatro, la stessa dalla quale è entrato il pubblico poco prima per sedersi in platea. Sembra anche lei una spettatrice arrivata in ritardo, e lo dichiara nella prima battuta: “Sono andata a teatro con un gruppo di amici”, instaurando subito una relazione con la sala orizzontale e informale e raccontando di un’”attrice leggendaria in un grande ruolo […] la casa della sua infanzia alla fine sarebbe stata venduta, i suoi adorati ciliegi abbattuti […] La donna che interpretava presto sarebbe stata costretta a vivere in un appartamento a Parigi e non nella proprietà che un tempo le era appartenuta”. Nel citare Il giardino dei ciliegi di Čechov (ricordiamo la straordinaria interpretazione di Wallace Shawn nel ruolo di Zio Vanja nel film Vanya sulla 42esima strada diretto da Louis Malle con la sceneggiatura di David Mamet), la donna si e ci domanda perché questa scena non riusciva a commuoverla, non riesce a ricordarlo e, non soddisfatta, brutalmente e senza peli sulla lingua, atteggiamento che forse non appartiene a una donna borghese, insiste chiedendoci se abbiamo mai avuto degli amici poveri. Da qui, e a livello drammaturgico, il personaggio che abbiamo di fronte, inizia gradualmente a trasformarsi nell’abbrutimento di una confessione che febbricitante si stacca dai binari del reale e smargina nella follia, lucida però.
Nel bagno grigio scuro e inclinato (scene di Paola Villani) di un albergo qualsiasi in un luogo qualsiasi dove infuria una rivoluzione, la donna è malata, ha la febbre e non riesce a reggersi in piedi, vaga nel bagno inciampando e aggrappandosi prima al water, in cui vomita e urina, poi al lavandino, strisciando sul piano in discesa. La scrittura si fa allora incalzante, i verbi sono al passato prossimo invece del passato remoto perché, come affermato sempre dalla traduttrice nelle note di regia, si potesse «mantenere l’esperienza in un tempo recente e quindi ancora pressante sul presente». Le invettive rivolte contro il capitalismo si susseguono, il flusso di coscienza della donna è costruito per sovrastrutture, non stupisce che abbia con sé Il Capitale di Marx che prende in mano però solo con due dita, come a distanziarsene, e con il fare snob di colei che si sta ribellando perché malata. Farebbe lo stesso se non fosse in quello stato? Quanto il delirio accresce l’ipocrisia borghese? Cos’è oggi la borghesia? Pensare che il privilegio di pochi si basi sulla miseria di molti, non è piuttosto frutto di un moto compassionevole e irrazionale e non di una reale convinzione politica e militante?
“Portavo i vestiti che erano stati strappati ai corpi delle vittime quando venivano stuprate e uccise. Ma io amo ancora il violino. Io amo la musica, i ballerini, tutto quello che tocco, tutto quello che vedo”. Questa denuncia monologante possiede un andamento narrativo che procede per contrapposte immagini, fugaci illuminazioni razionali e dense e vischiose visioni truculente, riempite da Fracassi con magniloquente sapienza attoriale: dall’apertura verso il pubblico dell’inizio, scandita da una camminata risoluta e una voce altrettanto decisa e versatile nei cambi di tono, si passa a una progressiva chiusura e circospezione tanto nell’interpretazione del testo che nella gestualità. L’attrice è una fiera, indifesa, nuda nella vasca in preda alle sue visioni riflesse sui video (di Lorenzo Letizia) proiettati sulla vetrata del bagno. Di Cruciani, si ritrova l’attenzione al lavoro scrupoloso con attrici capaci di dare corpo al testo, alla centralità totalizzante tanto della cifra attoriale quanto di quella registica che si complementano vicendevolmente, e della quale si evince una mutualità di rapporto in entrambi i ruoli, di prossimità e guida. Convince poco la deriva pulp che ricopre di sangue il corpo pallido dell’attrice, forse una virata scenica esagerata e non necessaria, quasi quanto la t-shirt con la scritta “Cuba”.
“Ogni persona è una persona, ogni persona è convinta di certe cose”, è la battuta più epidermica e al contempo relativista. È la difesa ingenua ma onesta, aderente alla realtà, che prescinde dal vagheggiamento. È la dichiarazione contemporanea per coloro che sono stanchi di accusare il capitalismo dei mali della società quando il punto è comprendere come conviverci e metterlo in crisi nelle azioni quotidiane, nei pensieri uniformati e uniformanti che poggiano proprio sulla strenua convinzione per “certe cose” ovvero stereotipi, abitudini, comodità, vizi; per coloro i quali la rivolta non è a priori ma strutturale, e “emergenza” diventa sinonimo di “occasione”. Il delirio è passato, la febbre è scesa, non serve più piangere.
Lucia Medri
Teatro India, Roma – dicembre 2021
LA FEBBRE
di Wallace Shawn
Traduzione Monica Capuani
Regia Veronica Cruciani
con Federica Fracassi
scene Paola Villani
video Lorenzo Letizia
luci Omar Scala
Produzione Teatro e Società e Teatro di Roma – Teatro Nazionale
con la collaborazione di Amat e Comune di Pesaro
drammaturgia sonora John Cascone
collaborazione luci Gianni Staropoli
foto Laila Pozzo
assistente alla regia Virginia Landi
Lo spettacolo mi è piaciuto, Federica Fracassi è brava e intensa, la regia è molto attenta e anche la scena funziona. Più che una lettura marxista, indubbiamente credo presente nel testo, avvalorata dalla presenza de Il Capitale in scena oltre che dal contesto cui si allude, mi pare che dalla traduzione, alla regia, all’interpretazione sia fortemente accentuato il sesso femminile del personaggio, la presenza del suo corpo e il delirio che lo domina in una situazione di malattia e pericolo sociale, di perdita di controllo. Mi è sembrata questa una scelta drammaturgica e registica precisa che incide sul linguaggio corporeo fino a trasformare il lavacro nella vasca al centro della scena in un bagno mestruale. Questo diventa a mio giudizio un tratto forte dello spettacolo più che “una deriva pulp”. Per questo e solo per questo non concordo con la bella lettura critica di Lucia Medri
Gentile Silvia,
trovo il suo commento molto puntuale e il suo punto di vista, un ulteriore strumento di analisi e approfondimento che non avevo preso in considerazione. Grazie per il confronto arricchente, Lucia.