Recensione. Solaris, capolavoro della fantascienza di Stanislaw Lem, arriva in teatro per il testo di David Grieg e la regia di Andrea De Rosa. Lo abbiamo visto durante le repliche al Teatro Mercadante di Napoli.
Nella contemporanea sequenza di contingenze storiche non è un gesto sterile formulare domande che all’apparenza hanno l’odore stantio del superfluo. Chiedersi ora, ancora, “perché esistiamo?” non è superfluo; è fastidiosamente doloroso. Nel ’61 lo scrittore polacco Stanisław Lem con Solaris osservò le ragioni incomprensibili della Creazione, e Andrea De Rosa, nel testo del drammaturgo David Grieg, ripropone quello stesso osservare, in scena sul palco del Teatro Mercadante a Napoli.
Sarebbe stato ovviamente impensabile non confrontarsi, oltre che col romanzo, con le due riproposizioni cinematografiche: quella del ’71 di Andrej Tarkovskij e quella del 2002 di Steven Soderbergh (con le dovute distanze di merito). Entrambe le pellicole non convinsero Lem, e la regia di De Rosa si muove nella criticità della ricerca di una forma nuova e fedele allo stesso tempo.
La lettura del romanzo da parte di Pasquale Mari, (premiato agli Ubu proprio per il disegno luci), è stata più che minuziosa nell’ottica di un tentativo di superamento delle estetiche cinematografiche a favore di una maggiore coerenza nei confronti dell’immaginario dello scrittore: “Se tutta questa attività ha un fine … Queste le parole che tornano in mente ripensando all’enorme sforzo descrittivo che Lem intraprende delle condizioni esistenziali di questo pianeta, dello spettacolo che offre […] descrizioni che accompagnano la lettura dalla prima all’ultima pagina e di cui non c’è traccia nelle creazioni cinematografiche di Soderbergh e Tarkovskij. Sento che le ragioni di questa omissione, entreranno con forza a far parte del modo in cui racconteremo questa storia […]”.
Effettivamente tutto lo spazio è manomesso affinché Solaris, il pianeta pensante ricoperto quasi interamente dall’oceano, possa essere costantemente presente. Un’enorme e ripida pedana nera, progettata da Simone Mannino, diventa una pista d’atterraggio, un’astronave e una cupa via verso il nulla; all’estrema sommità si apre una botola circolare coperta da un disco che ha la doppia funzione di sportello e oblò-schermo.
Da quell’oblò è possibile osservare Solaris compiere i suoi giri intorno ai due soli, quello rosso e quello blu. La sua massa terribile è restituita con un’accurata selezione di materiale video dell’ISS, reperito dall’archivio di pubblico dominio della ESA/NASA: le immagini sono del nostro pianeta, e la corrispondenza tramortisce. Intanto l’eterno e immutabile movimento orbitale è reso da quelli circolari ed ellittici della luce.
Prima ancora che tutti prendano posto, sono in scena gli astronauti Snow (Snaut nel romanzo) e Sartorius (diventato donna), interpretati da Werner Waas e Sandra Toffolatti. Non badano a nulla, lontani e succubi dei loro visitatori: esseri umanoidi prodotti dall’intelligenza del pianeta per stabilire il contatto; per Snow il visitatore è la vecchia madre sorda e cieca, seduta davanti a un televisore con le spalle rivolte al pubblico e col capo coperto; a Sartorius tocca la presenza di una neonata, sicuramente la figlia morta in un incidente.
Dalla botola emerge Kris Kelvin (anche lui diventato donna), interpretato da Federica Rosellini (miglior interprete under 35 ai premi Ubu): lei è la psicologa inviata dalla Terra per verificare le condizioni di vita degli abitanti della stazione spaziale di Solaris. Lì scopre che il suo amico e maestro Gibarian, che appare in video nel volto commovente di Umberto Orsini, è morto in circostanze non chiare. Poco dopo anche Kelvin dovrà confrontarsi con suo visitatore: Ray (Harey nel romanzo di Lem, diventata uomo nel testo di Grieg, riadattata nuovamente al femminile per De Rosa), portata in scena da Giulia Mazzarino, è l’umanoide della donna amata e morta suicida pochi anni prima.
Federica Rosellini a stento riesce a trattenere l’esuberanza dei gesti nervosi che la agitano costantemente, non riuscendo a darsi il tempo di appoggiarsi all’emotività umbratile del suo originario maschile. Quel Kris si modulava con la stessa variabilità delle sfumature di luce dello spazio circostante; l’ironia feroce, la rabbia strozzata e ogni moto di un cuore terrorizzato e rassegnato, in questa Kris hanno il monotòno alterato e tagliente di una sofferenza instancabile che sfinisce chi osserva.
Giulia Mazzarino, dal canto suo, interpreta con maggiore disinvoltura la doppia natura di essere autonomo e oggetto del desiderio (chissà, forse da uomo sarebbe stato più complesso); mette in scena un’affascinante diciannovenne, violenta e sconvolgente sia che svolazzi seducente e capricciosa sia che si dibatta in preda a una convulsa depressione.
Nel romanzo Lem descrive pedissequamente la natura dei visitatori, dalla meccanica biochimica che li regola all’evoluzione della loro coscienza. È come guardare da una prospettiva mostruosa la vita in sé e per sé. Nella traduzione teatrale (come in quella cinematografica, in realtà) questa prospettiva vira in alcuni momenti nella dinamica poco interessante delle relazioni amorose. Solaris stabilisce il contatto con i suoi ospiti inviando loro simulacri di ricordi d’amore (i visitatori) probabilmente perché in questo modo è più facile ottenere una qualunque reazione. L’amore scuote ciò che è già definito in noi, per cui, in un senso assoluto, non c’è davvero spazio per altro nell’individuale rapporto con l’esistenza. Questo succede, in maniera iperbolica, in Ray: come la sua versione umana, raggiunge un tale livello di consapevolezza di sé e d’insofferenza da trovare nel suicidio l’unica soluzione; a questo punto il problema non è l’essere o no umana, e in qualche modo legata a Kris, ma l’essere viva. Avrebbe avuto maggiore senso mostrare questo percorso senza disperdersi nei retroscena affettivi (retroscena appesantiti da un’interpretazione talmente concitata da togliere respiro alla disperazione) che per la loro violenza inevitabilmente distraggono dal processo libero di autodeterminarsi.
Gli stessi visitatori di Snow e Sartorius non sono presenti nel romanzo, ma sono funzionali a un ulteriore approfondimento emotivo dei personaggi, anche in un’ottica di disperata sgradevolezza (Sartorius guarda con disgusto la culla, e fissando il visitatore di sua figlia senza esitazione lo definisce un mostro). Forse è la presenza della madre di Snow ad aver moderato il sarcasmo e l’aggressività del suo primitivo Snaut, col sostegno di un Waas placido e sereno, a tratti paternalista, nella comprensione e accettazione degli eventi. Sartorius, da donna, mantiene invece intatta la sua diffidenza e la dolente cattiveria (con la rilevante aggravante della vicinanza indesiderata della bambina), e la furia femminile della Toffolatti regge meravigliosamente il confronto con quella arrogante del suo omonimo (anzi, è anche più affascinante di quest’ultimo).
La narrazione diventa più coerente quando la concentrazione ritorna su Solaris, di cui gli uomini sono “l’agente inquinante”. Questo reagisce alla presenza degli astronauti studiandoli e testandoli: si arriva a pensare se “il pianeta chiede amore”.
Ci si domanda quale relazione intercorra inevitabilmente tra Solaris e Dio; allora fragoroso si solleva lo squarcio di voce di Sartorius nell’affermare che “Dio è imperfetto, limitato, autore di fenomeni terrificanti. Dio è minorato. Ha creato l’eternità che lo rende inesatto, si è infilato nella divinità come in un vicolo cieco”. Impossibile non sollevare gli occhi con un senso di terrore verso l’oblò, e fissare Solaris che muto mostra l’incomprensibilità dell’essere vivi e la solitudine che ne deriva.
Morta ancora una volta Ray, a Kelvin non resta altro che rifiutare la solitudine (e la vita stessa) e attendere, in uno stato di dormiveglia che il pianeta gli riservi un altro gesto d’amore. Sarà Gibarian a mostrare, in un ultimo struggente e atroce messaggio, fin dove Solaris si è spinto nella ricerca del “contatto”. Spariti tutti, permane ancora un’impronta della presenza di Solaris: la madre di Snow resta seduta immobile, forse ignara di essere diventata il nostro visitatore.
Valentina V. Mancini
Novembre 2021, Teatro Mercadante, Napoli
SOLARIS
di David Greig
traduzione Monica Capuani
tratto dall’omonimo romanzo di Stanislaw Lem
regia Andrea De Rosa
con Federica Rosellini, Giulia Mazzarino, Sandra Toffolatti, Werner Waas
Umberto Orsini in video
progetto sonoro G.U.P. Alcaro
scena e costumi Simone Mannino
disegno luci Pasquale Mari
video D-Wok
foto di scena Federico Pitto
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova
Filmati gentilmente concessi da ESA/NASA
Si ringrazia l’European Space Agency per il materiale d’archivio