Recensione di Questa splendida non belligeranza. Una storia così, poi così, infine così scritto e diretto da Marco Ceccotti, visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo (in collaborazione con Fortezza Est). Lo spettacolo è nato nell’ambito del progetto “Scritture – sei nuove voci della drammaturgia italiana”, ideato da Lucia Calamaro e sostenuto dal Teatro di Roma insieme a Fivizzano 27 e Carrozzerie N.o.t.
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Credendo di assistere ad un quadro ironico e paradossale sull’inesauribile tema della famiglia, nucleo di dinamiche complesse e rapporti fatali fin dall’antica Grecia, ci si ritrova davanti tre personaggi. Tre coni di luce, pur non nettamente definiti, bagnano e delimitano gli spazi assegnati a ognuno. Esistenze ripiegate su loro stesse, ognuna intenta alla sua svogliata lettura, magari solo casualmente nella stessa stanza. Eppure la stanza è una casa e quella è in effetti una famiglia: padre, madre, figlio. È quest’ultimo a svelarlo rivolgendosi al padre in cerca di consiglio. Come funziona? Come si fa? Che cos’è? La risposta è sempre la stessa, gentile ma asettica. Si fa così, poi così e infine così. E se non lo sai fare lo faccio io, nessun dramma, nessun intoppo. La formula di una non belligeranza parossistica e splendidamente apatica è il modus vivendi e (non)operandi dei genitori: il tempo scorre con il volgersi di un cartello, ma con la solita pacatezza i due guardano il figlio agitarsi nell’inutile tentativo di sovvertire quella serenità, quell’inaccettabile assenza di problemi famigliari. Luigi (Luca di Capua, tredicenne e quarantenne insieme) ne vuole almeno uno: gli serve per sentirsi a posto, per definirsi. Non esiste una famiglia senza problemi! Sono indispensabili, funzionali alla crescita e a quella omologazione, quel reciproco riconoscimento necessario ad ogni adolescente. Nel paradosso dell’estrema libertà concessa dai genitori, Luigi cerca dei limiti, dei divieti, ricevendo solo pallide raccomandazioni, mentre tutto intorno a lui scorre al ritmo tiepido di estenuanti formule di cortesia. « Posso? Prego! ». Al riparo dal rischio di trovare davvero un conflitto, provoca, si ribella, rimbalza da un genitore all’altro, minaccia di compiere azioni che non compirà.
Quella che a primo impatto sembrerebbe solo una trovata comica che ribalta la consuetudine della commedia all’italiana, presto assume contorni più ampi. Marco Ceccotti, autore e regista, si allontana dai cardini delle precedenti esperienze con il collettivo Il Nano Egidio per affrontare una scrittura più personale, « moderata », senza tradire la sua verve parodistica e paradossale. L’impianto scenico è essenziale, una macchina triangolare che affida alla compagine attoriale lo scioglimento dei nodi drammaturgici.
Tutto è statico, ripetitivo, come le letture della madre (Simona Oppedisano, misurata e compita, postura che efficacemente tradisce un sottile ribollire interiore), come i regali che riceve, copie su copie di romanzi di Stephen King che si accatastano, le trame mescolate, il fascino smarrito. Questa immobilità è vitale, funzionale al movimento del figlio; perché fuori da lì il mondo è davvero problematico, pieno di insidie e ostacoli, e lui lo affronta nel migliore dei casi lasciandosi cadere a terra, sopraffatto, vittima. Da questa coltre di serenità impercettibilmente soffocante, emergono le inquietudini profonde che abitano anche i genitori. L’intreccio drammaturgico gradualmente mette a fuoco la realtà, servendosi di dialoghi ai limiti del nosense, situazioni umoristiche che però non conducono mai ad un riso aperto e spensierato. Qualche spettatore si lascia andare, commenta cercandone il pretesto, ma la maggioranza rimane attenta, lasciando che la battuta, il dettaglio, la situazione comica sveli l’ombra amara che nasconde. Gli adulti di questa storia, pur artefici di quella non belligeranza, la subiscono. Lei, madre e moglie, sogna anche la più piccola sovversione della routine, una cena al ristorante cinese, tingendo di un malcelato, sottile cinismo ogni gesto. Lui, Giordano Domenico Agrusta, gioca abilmente il contrasto tra la sua figura ruvida e una pacatezza ostinata: padre e marito, sembra assumere questi ruoli suo malgrado, fa e dice quello che un padre e un marito devono fare, ma solo perché è da sempre così, e un cambiamento non rientra nei suoi programmi né nelle sue forze. Nell’insalata vuole il solito filo di aceto, i suoi gesti sono lenti, ripetitivi, piccoli. La relazione tra i personaggi è formale, distaccata: persino quando il figlio Luigi cerca lo scontro lo fa con cortesia, chiedendo il permesso, mantenendo una distanza di sicurezza.
Quella raccontata da Ceccotti, più che una famiglia, è un’epoca. La drammaturgia scavalca i confini del legame parentale per tratteggiare una più ampia coesistenza tra generazioni. Quella dei genitori, nata nel benessere, è diventata adulta nello sfacelo, nel crollo delle ideologie. Senza chiari punti di riferimento, si dichiara pacifista ma paga le bollette vendendo sanitari di lusso a dittatori sanguinari. Con gli occhi addormentati da questa splendida assenza di conflitto, ha costruito una routine rassicurante e posticcia, al riparo da tutto ciò che intorno invece si consuma. Le voci che arrivano dall’esterno della casa portano tutte notizie di morte, di vite che si spengono lentamente, senza eccessi, senza tragedia. Luigi, il figlio che non riesce a crescere, ha scelto come lavoro di raccontare finali di libri e film a chi, in fin di vita, non avrà il tempo di conoscerli. Quella che potrebbe essere la sua ragazza, se solo lui sapesse esternare i propri sentimenti, è malata terminale. È il perfetto millennial: non ha conosciuto l’ottimismo dei boomer, ma è nato in questo devastante quieto vivere, inaccettabile per chi vede attorno il mondo crollare. Vorrebbe cambiare, ma in fondo sa che non saprebbe mutare in azione quell’inquietudine. Vorrebbe amore, ma ottiene solo cortesi attenzioni. Vorrebbe un consiglio e riceve una lezione, sorda e scoraggiante.
Il meccanismo della commedia e la sottile sensibilità di Ceccotti restituiscono un orizzonte luminoso a questa fotografia desolante: una crisi, l’uscita forzata dall’ordinario, rimescola le carte. Accade quando il padre vede crollare le proprie certezze lavorative, unica chiave identitaria. La sua reazione è la fuga, la sparizione, la necessaria assunzione di un’altra identità: proprio quella del dittatore Saddam Houssein. Il contrasto interpretativo di Agrusta qui si ribalta: la divisa e la postura militare stridono con quella tenerezza che finalmente troverà espressione. Solo nei panni del dittatore – gioco ironico ma dolorosissimo per chi guarda – riesce finalmente a liberarsi dal torpore, a prendere posizione, persino ad abbracciare suo figlio, il quale, in fondo, ha solo una colpa, « quella che hanno tutti i figli: essere nato ». Assecondare il travestimento serissimo del padre offre una sana perdita di equilibrio anche alla madre e al figlio: crollano le distanze, si dichiarano le emozioni, Luigi può finalmente crescere. Il colore dominante della messa in scena emerge: un verde tenue, pallido, non invadente, che avvolge dall’inizio scene e costumi, ma sul finale si riempie di senso. Una speranza, pur piccola, che senza prepotenza tinge ogni cosa.
Sabrina Fasanella
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Ottobre 2021, Teatro Quarticciolo, Roma
QUESTA SPLENDIDA NON BELLIGERANZA.
Una Storia così, poi così e infine così.
scritto e diretto da Marco Ceccotti
con Giordano Domenico Agrusta, Luca Di Capua, Simona Oppedisano
supervisione di Lucia Calamaro e Graziano Graziani
disegno luci Camila Chiozza
costumi Stefania Pisano
Foto di scena Claudia Pajewski
prodotto da Teatro di Roma con il rassicurante aiuto di Carrozzerie n.o.t | Teatro San Carlino | Fortezza Est