Recensione. IstanbulBeat di e con Deniz Özdoğan visto allo Spazio Tre Navate dei Cantieri Culturali alla Zisa durante la terza edizione del Mercurio Festival, a Palermo fino al 3 ottobre.
Uscendo a piedi scalzi dalla quinta, accompagnato dal soffondersi di una luce ambrata, un sorriso accogliente e complice rivolge la parola agli spettatori: cerca di ognuno gli occhi, li ringrazia della presenza, sembra volerli conoscere, chiarendo da subito la voluta inesistenza della tradizionale quarta parete. Una condizione certamente non inedita, eppure sempre inizialmente un po’ straniante. Chi dal palcoscenico ci rivolge la parola, sottraendoci all’anonimato rassicurante della poltrona, ci costringe a una presenza ancor più vigile e partecipe: sembra volerci ricordare che ciò che accade lì riguarda anche noi. « IstanbulBeat è un atto di guarigione», spiega la voce bruna e luminosa di Deniz Özdoğan, suo il sorriso, suoi i piedi scalzi, sua la storia. Non vuole ammonire, piuttosto accogliere, invitare al viaggio.
Su un piccolo tavolo posto al lato della scena c’è una bottiglia colma di un liquido trasparente. È raki, la bevanda nazionale turca, pur non riconosciuta dall’attuale presidente, che le preferisce la più innocua ayran a base di yogurt. Il raki è invece un distillato all’aroma di anice che allungato con l’acqua assume la tipica colorazione lattiginosa, a nascondere la sua alta gradazione alcolica. Özdoğan se ne versa un bicchiere, ne porge uno al suo musicista (Tommaso Rolando, che abbraccia una chitarra sul lato opposto del palco), prepara del ghiaccio per difendere la bevanda dal calore che già riempie la sala. Questo momento di conviviale normalità, quasi a continuazione dell’aperitivo consumato in attesa di entrare in teatro, è in realtà l’aggancio più utile per uno spettacolo che vuole essere rito collettivo: avvicina gli animi, raccoglie le menti e le dispone allo scambio più che al mero ascolto.
Un’atmosfera che rispecchia lo spirito del Mercurio Festival: alla sua terza edizione e con il riconoscimento del Ministero della Cultura e di Scena Unita, la rassegna palermitana ribadisce la volontà di fondarsi sullo scambio, umano oltre che artistico, non tra direttori e addetti alla cultura, ma tra artisti, solo qui «soggetti e non oggetti del festival», come spiega Giuseppe Provinzano, curatore. In un ciclico passaggio di testimone, attori, registi, artisti visivi e musicisti accorrono nel cuore del quartiere della Zisa a Palermo su invito di chi li ha preceduti, l’anno prima, negli stessi spazi multiformi e vivaci dei Cantieri Culturali alla Zisa. L’effetto è quello di catalizzare energie, indurre gli artisti a un reciproco riconoscimento e produrre una circuitazione della proposta artistica lontana dalle logiche della distribuzione, fedele alla pura espressione multidisciplinare senza barriere tra i linguaggi. La curatela di Provinzano (con Associazione Babel e tante altre realtà che orbitano attorno allo Spazio Franco dei Cantieri, come Associazione Altro, Palermo Suona, LATITUDINI e Fat Sounds) si propone di incoraggiare questi scambi, lavorando poi con gli artisti sulla scelta della performance da proporre. Questo assetto apre alle possibilità più variegate, offrendo al pubblico palermitano spettacoli che hanno già un percorso consolidato (nel cartellone di quest’anno Amleto Take Away della compagnia Berardi Casolari), ma anche debutti assoluti, come la performance itinerante Oggi è il mio giorno più bello, della giovanissima Alessandra Tudisco, artista visiva che invitata a Mercurio si è confrontata per la prima volta con l’ideazione e produzione di un’azione performativa poi convertita in video istallazione.
Deniz Özdoğan, attrice turca naturalizzata italiana e da anni attiva sulle nostre scene, ringrazia sorridendo chi le ha «passato la torcia» e l’ha condotta qui: Aleph Viola, tra i protagonisti della passata edizione del festival e oggi regista di Istanbulbeat. Con il raki e la celebrazione delle sue virtù, quel chiacchierare iniziale progressivamente si colora, mutandosi in scorci, suoni, personaggi; Özdoğan mescola l’italiano alla lingua turca, gode del semplice gioco teatrale, lo esplora e se ne serve, senza mai nascondervisi. Tra canto e parola, la sua voce vibra ripercorrendo un’infanzia già segnata da un regime militare da poco instauratosi in Turchia (quello conseguente al colpo di stato del 1980): la piccola Deniz, figlia di dissidenti comunisti, si è vista mettere in carcere il padre con l’accusa di terrorismo, eppure è affascinata, nell’innocenza dell’età, da quelle figure austere ed eleganti che ovunque vede, i militari che presidiano la città. Nella sua casa colma di libri e vinili tenuti nascosti, Deniz si veste da uomo, balla, canta, cresce curiosa, libera. Sua nonna la accompagna ogni giorno alla scuola di teatro, affrontando un viaggio rocambolesco per raggiungere l’altra riva del Bosforo, un altro continente a mezz’ora di traghetto da casa: l’Europa. Il beat di Istanbul è questo palpitare tra due sponde più che di una città, dell’anima di un popolo antico e moderno.
Ma è soprattutto il battito vitale di Deniz. «Non si diventa adulti finché qualcuno non vede il bambino che siamo stati». Così Özdoğan ci presenta quella bambina innocente ed entusiasta, costretta a scoprire il proprio essere donna per mano dell’uomo che l’ha stuprata quando aveva solo undici anni. Al culmine di una danza gitana, femminile, che non ha bisogno di rivendicare nulla, Deniz incontra lo stupratore, quasi il suo fantasma riemerso dalle nebbie della rimozione fosse seduto in platea: lo affronta, lo accusa, ma infine riesce a perdonarlo.
Il racconto scanzonato e aneddotico diventa così una confessione intima, dolorosa, eppure sempre leggera, priva di autocommiserazione, proiettata nel futuro. Come si fa con il raki, Özdoğan distilla il proprio dolore, lo prende tra le mani e lo sublima nel vibrato del proprio canto, per poi restituirlo in spirito nuovo, sul volto i segni neri di un gioco divenuto battaglia, negli occhi la fierezza di chi l’ha vinta. Non per denuncia, non per ostentazione del dolore né per celebrazione di sé. Il viaggio di Deniz Özdoğan è solo in parte personale. Contiene le lotte, le ingiustizie, le vittorie di molte e molti, declina in azione scenica un passato sempre attuale riverberato dalle fotografie di famiglia proiettate sullo sfondo, porta al centro di un palcoscenico vuoto quel grumo di rabbia condivisa e la trasforma in bellezza.
Giuseppe Didonna, corrispondente da Istanbul, ha scritto su Huffington Post che la «meyhane, osteria tradizionale turca […] è il posto in cui il raki e la musica (tristissima) creano l’atmosfera in cui si piangono gli amori perduti e si condividono le pene del cuore. Si accetta l’infelicità abbracciando la serenità, si sorride pur essendo tristi, nella consapevolezza che la felicità è un intralcio alla serenità, perché quando si è felici si teme sempre il momento in cui non lo si sarà più». Mentre nella Turchia di oggi Erdoğan pone il suo veto integralista persino sulle osterie, lo Spazio Tre Navate dei Cantieri Culturali alla Zisa per una sera non è un teatro, o forse lo è nel senso più necessario oggi: è una meyhane, il luogo di un ritrovato rito collettivo. L’indizio è nascosto nel nome stesso del festival Mercurio: pianeta, messaggero, ma anche «metallo liquido le cui particelle se troppo vicine si fondono». La verità, e non la sincerità, del dolore e del vissuto di Özdoğan si propaga in sala sorretta da un canto antico, colma gli spazi vuoti tra uno spettatore e l’altro, fino a dare corpo a quell’auspicio iniziale, quella guarigione promessa: un fiore bianco tra le mani di ogni spettatore.
Sabrina Fasanella
Spazio Tre Navate, Cantieri Culturali alla Zisa, Palermo, 25 Settembre 2021.
ISTANBULBEAT
di e con Deniz Özdoğan
regia di Aleph Viola
con Tommaso Rolando
Produzione Teatro della Tosse
(invited to Mercurio by Aleph Viola)