The Voice This Time, prosegue il racconto dell’edizione 2021 di Short Theatre, segnata dal passaggio alla nuova direzione artistica e da un affondo ulteriore sulle pratiche performative.
La luce dei neon cola sui sampietrini tra i padiglioni della Pelanda, nelle ore piccole oltre la fine delle ultime performance in cartellone. C’è in quei bagliori una tenacia identitaria che attraversa la mutazione di Short Theatre negli anni. La storia del festival romano è quella di un cammino aperto all’imprevisto dell’erranza, ma pur sempre indirizzato a una meta. Quale sia sarebbe esercizio limitativo nominare, ma si tratta di un mondo sottile, un limes dove oggetti e soggetti si scambiano privilegi e debolezze, dove anche l’orizzonte è obliquo e nulla può poggiarvisi senza performare una propria caracollante messa in crisi. The Voice This Time è un passaggio di consegne fra due direttrici che hanno restituito, nel rito dello scambio e del congedo, la gioia feconda di uno sguardo affine: da Francesca Corona a Piersandra Di Matteo il festival è rimasto luogo d’impegno, spazio rigato da segni di lotta, coro di scritture aperte ai riverberi della compresenza. In questo spazio-mappa nessun segno appare arbitrario, nemmeno le pennellate d’oro che personalizzano ogni copia del programma: oro sul bianco e nero caliginoso di pagine densissime, un pre-festival da sfogliare serata per serata, sul font slanciato e declamatorio che mette in grafica l’assertività poetica di una curatela che ha il coraggio di enunciare.
Oro che ammanta la tettoia e le pareti del punto ristoro, fulcro consolidato della vita interstiziale del festival, nell’installazione di Cheap, collettivo femminile bolognese dedito a scalfire lo spazio pubblico con iconiche campagne grafiche. Un effimero involucro dal sapore bizantino, che alle tessere musive sostituisce la superficie butterata delle coperte termiche. La eco di rimandi atmosferici e simbolici fra il sottostante convivio e i salvataggi dei migranti nel mare nostrum-monstrum chiama in gioco il “regime di visibilità” che regala a noi, spettatori, il privilegio di essere sotto il cielo aureo della città occidentale, relegando altri corpi ad annaspare nel tentativo di oltrepassare un confine. Spore coloniali fluttuano nell’aria come una polvere sottile in controluce. Sotto quel cielo effimero piovono i poster della fortunata campagna Reclaim Your Future, quasi che il luogo sia trattato come una micro-città ove la voce declinata in grido dei caratteri cubitali è sonorità politica, in quanto reclama il corpo, la città, il tempo. Prendere parola come pratica corporea nello spazio urbano, in questi specifici e non sostituibili termini ha preso vita il festival, la cui fisionomia curatelare è netta, ma frastagliata poi nei riflessi metodologici delle singole sensibilità chiamate in causa.
Certo prendere la parola con questa voce e in questo tempo espone al pericolo autoindotto di mettere certo pubblico in allarme. Il nutrito retroterra di riferimenti teorico-politici produce una sequenza di figure sonorissime che intona, appunto, un canto della salita, un festoso camminare-verso: intorno a questo tracciato, uno steccato di saperi e di azione pensante che impone lo slancio di un assenso per essere valicato. Si articola un contraddittorio meccanismo di consenso, sia pure, come molte performance e momenti dialogici mostrano, per mettere in critica i meccanismi di consenso del sistema economico-politico. La performance, d’altro canto, come ricorda Ilenia Caleo (presenza tutelare al festival, quest’anno impegnata in una delle talk) nel recente volume Performance, materia, affetti (Bulzoni Editore) è un impegnato e impegnativo orizzonte transdisciplinare di pensiero agente, è strumento teorico – come già nella tradizione di studi femminista e queer. Al pubblico che accorre si offre dunque un terreno per deporre la spettatorialità, a patto di imbracciare un vocabolario militante, rinegoziando il rapporto con il prodotto artistico che, dunque, si dà come processo, movimento aperto. Si partecipa come a una festa, a un pellegrinaggio. Il pubblico di Short continua a essere un unicum nel panorama teatrale romano, in riverbero costante con realtà come Santarcangelo e Dro, una comunità che reifica col suo stesso riunirsi il proprio formulario di affetti, intenzioni, pensieri.
Nelle ritualità di una kermesse nottambula è stato problematico l’accoglimento delle limitazioni sanitarie. Laddove i tempi e gli spazi fra le performance propiziavano scambi ravvicinati, riverberi danzerecci che espandevano e radicavano i discorsi performativi, quest’anno (come quello passato) sono subentrate pratiche a tratti curiose, come dj set da fruire seduti. Pochi ma immancabili tentativi di inaugurare la dancefloor, prontamente fermati dallo staff. Lo spazio tra i corpi, campo d’indagine in fieri che Piersandra Di Matteo rivendica nella nostra recente intervista, si è diradato. Chi ha attraversato Short in passato lo sa. Ma si è trattato pur sempre di un vuoto denso di riverberi, di nostalgie, di dialoghi ai tavoli in gruppi sempre poliglotti. A tal proposito, è da riportare non solo la provenienza spiccatamente internazionale dei perfomer e delle perfomer, ma soprattutto la matrice meticcia e transnazionale di molte biografie.
L’identità come costruzione biopolitica, ma anche come distruzione e ristrutturazione in un mondo globalizzato e post-coloniale è un metro di lettura che ha accompagnato costantemente lo spettatore. L’identità è quesito tormentato in The history of Corean Western Theatre di Jaha Koo; è scandaglio intimo e minuzioso in Curva cieca dell’artista bolognese di origine eritrea Muna Mussie. Qui l’abecedario in primo piano della lingua tigrina è sfogliato e commentato, in videoproiezione sul fondale scenico, da Filmon Yemane, ragazzo eritreo non vedente. Fra lo schermo e la platea, Mussie, con maschera bifronte come bifronte è il volto di chi è eradicato, percorre un sentiero ieratico di gesti. Una corda verde fluo separa la danza dal fondale, il corpo dal racconto, il tronco dalle radici. Non c’è comunicazione logica fra le due partiture: lo iato, quasi un fastidio, il senso di vedere due performance diverse in contemporanea, si fa largo nello spettatore. Le parole tigrine hanno etimologie emozionanti nella voce esitante di Yemane, a tratti le particelle semitiche suonano riconoscibili, a tratti sono remota eco subequatoriale. Ci si aggrappa a quella corda per risalirla, il confine che separa può diventare nostalgia, paradossale speranza. Ma la curva è cieca, non è dato sapere l’origine. L’identità non è dunque un luogo sicuro, né certamente un a-priori. È una rivendicazione desiderante, che riporta al processo esperienziale del viaggio per essere performata.
Il cammino, la processione, è un metodo, un ritmo, una figura che ricorre in altri momenti del festival. Frontera / Procesión – Un ritual del agua di Amanda Piña è un mash-up di questi assi d’indagine e strumenti di mise en place. La coreografa e performer messicano-cilena-austriaca ha messo in opera un clamoroso corteo per le vie del quartiere Testaccio, una coreografia invasata sulle cadenze di una danza de la conquista coloniale, trasfigurata nella storia da inversioni simboliche, reimpossessamenti popolari, ibridazioni hip hop. La restituzione ha fatto seguito a un duplice processo partecipativo rivolto a donne delle associazioni del territorio: un workshop di sartoria per realizzarne i variopinti costumi, d’ispirazione preispanica ma rivisitati con wax, paillettes e corolle di fiori; momenti di trasmissione coreutica fra la compagnia e la compagine locale impegnata nella performance. Significativo registrare come l’attraversamento urbano abbia suscitato alcuni timori nello staff del festival, a causa di sgradevoli invettive rivolte da alcuni passanti al gruppo di perfomer durante le prove per le strade testaccine.
Riprova del potere detonante di un dispositivo che nasce appunto per sovvertire narrazioni violente e colonialiste (le danze di conquista erano messe in scena dai colonizzatori come re-enactment della vittoria cristiana sui Mori). Il pericolo del confronto con i segni viventi della performance è anche il meccanismo d’innesco di Quartiers Libres di Nadia Beugré, performance di repertorio (2012) ove la performer ivoriana minaccia, irride, assalta il pubblico erodendone lo spazio di sicurezza tra i corpi in piedi, producendo una tumultuosa coreografia collettiva. Accompagnata da un ensemble di giovani danzatori e danzatrici, incontrati a Roma nel workshop partecipato che ha fecondato anche questa mise en espace, Beugré termina il suo magmatico scavo nelle nostre re-pulsioni con un minaccioso esodo oltre le vetrate della Galleria. I corpi incapsulati in crisalidi di bottiglie, uno scroscio di plastica verde smeraldo, la luce liquefatta dei neon sui sampietrini della Pelanda.
Andrea Zangari