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Fuck me. I limiti del corpo di Marina Otero

Fuck me di Marina Otero indaga il corpo come estremità dell’esperienza umana e artistica. Al debutto nazionale per il Campania Teatro Festival 2021 al Teatro Politeama di Napoli.

Ph Salvatore Pastore

C’è una luce tenue e diffusa per tutta la sala, dal palco alla platea. È una luce a cui il fondale dipinto dona i toni del rosso, sfumato nella nebbia che i fari producono dall’alto. Una musica melodica in lingua spagnola si espande in ogni angolo, dalla platea si svestono cinque performer e, ora nudi, privati degli abiti, entrano in scena. Si esibiscono in una posa olimpica, esprimono attraverso il corpo l’individualità della loro massa muscolare, delle loro qualità singolari, poi quando il loro movimento si fa coreografia d’insieme, muta anche l’espressione che si fa armonica, collettiva. Da un ingresso laterale, la regista raggiunge i performer, si siede e si presenta al microfono: è Marina Otero, coreografa e danzatrice argentina; dichiara al pubblico che parlerà di sé, della propria storia, in questo spettacolo che ha nel titolo un pronome, accanto a un verbo: Fuck me, debutto nazionale per il Campania Teatro Festival 2021 al Teatro Politeama di Napoli.

È un’informazione importante, quella che apparentemente sembrerebbe un particolare marginale: parlare di sé impone, per un danzatore, che a parlare sia il corpo, posto al centro di un discorso individuale e collettivo, appunto, le cui ferite misurano il tempo, scandito dai diversi limiti che il corpo stesso è chiamato ad affrontare. Dirà presto una frase chiave, decisiva: “Quale corpo potrà raccontare la mia vita fino alla morte? Il mio soltanto”; e solo il suo corpo, pur senza essere in scena, non può non essere in scena.

Ph Salvatore Pastore

È attraverso il dolore che quel corpo si racconta, anno per anno, spettacolo dopo spettacolo; ha via via perduto le sue qualità, si è misurato con quel limite e ha perso alcune battaglie, fino alle tre ernie del disco che rendono Otero, reduce da più di un intervento chirurgico, incapace di esibirsi ancora. Ma quel corpo, l’unico che potrà raccontare, può scegliere di farlo spostando su altri le proprie intenzioni, attraverso un meccanismo relazionale che solo l’arte riesce a esplicitare in una forma credibile. Ed è allora sui cinque performer, cinque Pablo, che si riversa la necessità di quel corpo di farsi narrazione: Augusto Chiappe, Cristian Vega, Fred Raposo, Juan Francisco Lopez Bubica, Miguel Valdivieso, ognuno ne esibisce un frammento fino a completarsi proprio in lei, la performer che non può danzare, ma solo camminare, attraversare il palco che altri attorno abitano senza porsi il limite, mostrando continuamente, dello stesso limite, la conseguenza.

Ph Salvatore Pastore

Alle spalle dei performer è un proiettore che ricerca nel passato, fruga come avesse mani a indagarne l’anatomia: quali sono i momenti che del passato aiutano a ricostruire il presente? Ad accettare gli effetti della vita sull’arte e dell’arte sulla vita? Torna indietro Marina Otero, torna alle esibizioni familiari dell’adolescenza, ai primi pezzi danzati in gioventù, alle coreografie più significative fino all’ultima straziante volta, in una sala prove chissà dove, insieme agli stessi performer che la blandiscono; lei ride dolcemente, poi il suo volto contorce smorfie di sofferenza e godimento mentre gli altri la assediano in una forma di violento coinvolgimento, lo stesso che in contemporanea si ripete in scena e il più giovane dei Pablo, con la parrucca nera, interpreta il suo ruolo. Tra queste scene c’è una danza che forse – dice al microfono – è responsabile della sua condizione di impossibilità: la danzatrice è al centro dell’immagine, cade rovinosamente come sbattuta sulle assi del palco, di continuo, senza pausa, finendo ogni volta a battere la schiena; i performer la replicheranno per lei, anche questa, la faranno per noi che seduti non sudiamo, non siamo in movimento, eppure dello stesso dolore ci preme la pelle.

Ph Salvatore Pastore

Non nega nulla di sé, Otero, scandendo gli elementi della vita con una scelta di immagini incisive e compiute: i segreti militari morti assieme ai morti di famiglia che lei cerca di espiare, senza conoscerli, cadenzando con un metronomo a voce il passo degli uomini in divisa; i dannati privi di intenzione, appressati da una musica che li condanna, in lenta marcia assistono all’elenco urlato di un’anatomia distrutta, deresponsabilizzata della vita che c’è dentro; il percorso ospedaliero dal ricovero all’anestesia è descritto attraverso l’apnea dei performer, chiusi dentro i sacchi di plastica nera per i bidoni. Ogni immagine condensa di sé stessa l’impronta emotiva, impressa nel tempo che l’ha condotta fino a ora.

Otero attraversa il palco come in assenza, come se fosse in visita della sé stessa cristallizzata nel passato o, meglio, nel proprio corpo che quel passato ora lo rappresenta totalmente, senza più mutarlo, sovvertirlo al presente. “Non so più come trasformare il dolore in bellezza”, dirà al microfono; e l’arte qui interviene a dire un confine non ancora espresso, quello che dal dolore connaturato alla vita sa, sapeva, produrre altra vita. Eppure non si estingue la sua necessità, perché “la morte è morte solo se è irreversibile” e con essa, un corpo che la sperimenta di continuo, non può che danzare. Escono i performer, inchiodati uno all’altro da una catena che li dirige, Marina Otero non può abbandonare il palco, condannata a restare, sola, perché il corpo che racconta è il suo. E di nessun altro.

Simone Nebbia

Napoli, Campania Teatro Festival, settembre 2021

FUCK ME
drammaturgia e regia Marina Otero / con Augusto Chiappe, Cristian Vega, Fred Raposo, Juan Francisco Lopez Bubica, Matias Rebossio / Miguel Valdivieso e Marina Otero / assistente alla regia Lucrecia Pierpaoli / assistente alla coreografia Lucía Giannoni / consulente alla drammaturgia Martin Flores Cárdenas / scenografia e luci Adrián Grimozzi / luci e spazio in tournée David Seldes, Facundo David / edizione digitale e musica originale Julián Rodríguez Rona / costume styling Chu Riperto / montaggio audiovisivo tecnico Florencia Labat / costume e design Uriel Cistaro / visual artist Lucio Bazzalo / fotografia Matías Kedak / assistente tecnico Carolina Garcia Ugrin

produzione esecutiva Mariano de Mendonça & Marina D́’Lucca / produttore Mariano de Mendonça / produzione delegata in Europa Nicolas Roux, Lucila Pfiffer – Otto Productions

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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