Ormai da diversi giorni i lavoratori dell’Eti sono in mobilitazione, giustamente stanno riempiendo il web con la propria voce, portando avanti la propria petizione, cercando insomma di far cancellare il nome dell’Ente Teatrale Italiano dalla black list che vede enti e fondazioni chiudere a breve.
Il problema è prima di tutto sociale, perché da quello che si apprende il Mibac dovrebbe riassorbire solo la parte dei dipendenti statali (28) dell’ Eti, come si legge in parecchi articoli usciti in questi giorni sull’argomento, i lavoratori dello spettacolo (AGIS) sarebbero “difficilmente ricollocabili” al Ministero dei Beni Culturali. Poi successivamente il problema è di politica culturale, dopo aver chiarito che vi è innanzitutto una responsabilità morale, da parte di chi quella legge l’ha firmata, nei confronti dei lavoratori, va chiarita anche la responsabilità politica di una classe dirigente (e dentro ci metto tutti: dai sindaci che fanno chiudere centri culturali fino agli attuali tagli) che pian piano sta banchettando sul corpo già morente della cultura e dell’arte e lo fa senza pietà, strappando a piccoli morsi un brandello di carne alla volta.
Vorrei dunque partire proprio da un interrogativo: cosa rappresenta l’Eti in questo momento?
Parto da qui perché sul post di Anna Bandettini su Repubblica.it è emerso un silente plauso alla decisione del governo di abolire l’Eti. Sono riemersi veleni interni a un ambiente vario ed eterogeneo per approcci artistici e produttivi, giudizi duri contro l’Ente Teatrale visto come un padre cattivo che raramente ha svolto il proprio lavoro, un padre con figli e figliastri, e allora meglio ammazzarlo il padre, o comunque voltare la testa, verrà qualcun altro ad aiutarlo.
Ma se questa morte diventasse un simbolo? Se la morte di questo nostro odiato padre, nato nel ‘42, sotto l’infausta stella della seconda guerra mondiale, rappresentasse solo l’inizio della tragica caduta di una stirpe? A quel punto che fine farebbero figli e figliastri? La risposta è immediata: toglierebbero loro quel poco che hanno.
Perché bisogna iniziare a pensare che qui non si tratta solo di conti, di matematica, ma di un sistematico attacco a un sistema culturale, a un modello che non non vuole allinearsi con l’ottusità “artistica” propinata dal medium televisivo, un modello che si muove fuori dalle consuete dinamiche commerciali. Inoltre la direzione che l’Ente ha preso in questi ultimi anni difficilmente poteva essere maggiormente virtuosa. Dopo il commissariamento del 2000 l’organismo ha lentamente mutato pelle, si è riorganizzato fino ad arrivare alla struttura attuale nella quale conta 173 dipendenti e usufruisce di un finanziamento pubblico di 12 milioni di euro. Secondo i dati forniti dall’Eti meno del 40% delle entrate vengono utilizzate per il personale, il 6% per il funzionamento, più del 40% è invece investito nelle attività e nell’ultima stagione i tre teatri hanno incassato 3.770 000 euro. Questi i conti, ma proviamo a mettere in evidenza proprio quello che nasce grazie al 40% investito: i progetti internazionali che favoriscono la circolazione degli artisti italiani nel mondo e viceversa, le reti create a livello europeo con gli enti degli altri paesi, tra queste troviamo ad esempio Space, la piattaforma europea che unisce istituzioni culturali di dieci diverse nazioni nell’intento di stimolare la circolazione delle arti performative in Europa; i progetti sulla danza (come Spazi per la danza contemporanea), quelli sul nuovo teatro (Teatri del Tempo Presente). L’Eti insomma è diventato un centro propulsivo determinante, un nodo nevralgico per tutta una rete di meccanismi nazionali e internazionali imprescindibili per il quotidiano svolgimento dell’attività artistica in un paese come il nostro. Che fine faranno tutti gli artisti inseriti in questi progetti? Che fine faranno coloro che in trepidazione aspettano i risultati di bandi e concorsi? Ma c’è anche da chiedersi che fine faranno gli spettatori delle tre sale gestite dall’Eti, se prendiamo il Valle (punta di diamante per gestione e programmazione) il lavoro svolto a seguito dell’affidamento del Quirino ai privati (purtroppo sprofondato in una progettualità risibile per qualità e ricerca, se escludiamo la sezione off gestita da Lorenzo Gleijeses, totalmente piegata a meccaniche commerciali) è quasi rivoluzionario per scelte e modalità di attuazione, basta scorrere la programmazione della stagione appena terminata e poi spostarsi sulla prossima. Nei progetti monografici del prossimo anno l’Eti ha avuto ancora più coraggio dedicando interi percorsi alla contemporaneità nazionale ed internazionale (Peter Stein, Bob Wilson, Il Teatro delle Albe, Walter Malosti, Bruni e De Capitani, solo per citarne alcuni), il pubblico avrà la possibilità di assistere a spettacoli non più in programmazione o di avere finalmente a Roma lavori che hanno segnato le ultime stagioni teatrali nel resto d’Italia, ma non hanno mai attraversato la capitale. Il ruolo del Valle nella geografia culturale romana è primario anche alla luce dei futuri sviluppi attorno del teatro di Roma, che tra l’altro ancora non ha presentato la prossima stagione della sua sala d’avanguardia, l’India.
Le motivazioni economiche che sono alla base della fatidica decisione non convincono, l’ultimo comunicato dei lavoratori Eti (pubblicato dopo la serata al Valle- 9 giugno – dove c’erano un migliaio di persone) infatti termina con questa domanda:
a fronte di una manovra complessiva di 25 miliardi e di un risparmio di soli 164.671 euro ottenuto con la soppressione dell’ETI (come scritto nella relazione tecnica della Ragioneria dello Stato), che senso ha azzerare tutte queste attività (quelle che anche noi abbiamo esposto, ndr.), perdendo funzioni, competenze e relazioni, strutturate e consolidate in anni di lavoro?
Ci troviamo insomma difronte a dei governanti che hanno un’idea di Stato totalmente contraria a quella che meccanismi artistici e culturali come l’Eti cercano invece di sostenere. In questa idea di Stato dove la persona è prima di tutto consumatore e poi cittadino il teatro è un’arte vecchia, uno scantinato da ripulire, al massimo può essere lo svago o l’ultima spiaggia del divo televisivo, un ingombrante spesa capace solo di creare coscienza, di formare menti e riscaldare anime. Immaginate d’altronde se penetrasse nella società tutta. Immaginate se al pari di un scia avvelenata si infilasse nelle case del popolo, passando sotto ai divani, aggirando telecomandi e maxischermi entrando su per le narici del buon consumatore e poi immaginate il terrore negli occhi degli investitori di fronte ai dati dell’auditel, immaginate se le case si svuotassero, immaginate il terrore degli imprenditori in giacca e cravatta che dal quinto piano dei propri outlet sgomenti registrano il calo delle vendite…
Nell’Italia che stanno creando ogni forma d’arte che si oppone ai modelli precostituiti è un atto di resistenza, un tentativo di sottrarre territorio all’oblio, l’Eti è uno dei simboli di questa resistenza.
Andrea Pocosgnich
Tanto…ci mancava la Legge Bavaglio…quando verrà inaugurata ufficialmente questa dittatura?
Sono d’accordo, difendiamo l’ETI da questo atto di barbarie. Detto questo però, non si può fare a meno di chiedersi: qual’è il compito dell’ETI? Cosa fa di preciso? E’ innegabile che l’ETI non svolga appieno il compito che un Ente teatrale dovrebbe svolgere: per esempio produrre. E la linea di mettere in dismissione i teatri gestiti (vedi Quirino) per fungere solo da circuito non convince affatto. Inoltre, 173 dipendenti non vi sembrano un po’ troppi? Quando nacque erano mooolti di meno. Poi, sulle cifre dichiarate dall’ETI sono dubbioso. Il problema è più profondo e coinvolge trasversalmente sia destra che sinistra e i potenti che nell’ombra gestiscono tutta la baracca. E dentro ci metto anche la scandalosa gestione del Teatro di Roma, in cui il direttore artistico di turno viene nominato per non decidere nulla, ma per ratificare decisioni e scelte già prese da altri (e sappiamo bene chi). Scommettiamo che se qualcuno chiedesse l’aperturta dei libri contabili, sparirebbero tutte le polemiche?