Intervista a Claudia Caldarano, performer e regista che a Pergine Festival 2021 presenterà il 14 luglio Riflessioni, una coreografia per due corpi e una superficie specchiante. Materiali creati in Media Partnership.
Claudia, mi racconteresti del tuo percorso, provando a individuare alcuni nodi focali della tua esperienza sia formativa che artistica?
Mi sono formata in danza classica con Marina Van Hoecke, è stata una donna straordinaria non solo per la trasmissione delle tecniche ma anche a livello umano e artistico. Mi ricordo le traversate in sei stipate in macchina strabordanti di entusiasmo, andavamo da Micha Van Hoecke per seguire le prove della compagnia dentro un grande capannone a Rosignano. Poi dopo varie esperienze di studio anche in danza contemporanea, ho deciso di dedicarmi alla pratica attoriale e sono entrata alla Paolo Grassi, dove, tra le varie esperienze diversificate, in particolare è stato importante studiare il realismo di Michail Checkov con Maurizio Schmidt e incontrare Roy Rechef Maliach che ci ha portati a replicare allo Studioact di Tel Aviv. Decisivo è stato aver avuto compagni di classe stupendi con i quali, dopo l’esperienza in accademia, ho iniziato a lavorare formando la compagnia del Teatro dei Gordi sostenuta dal Teatro Franco Parenti di Milano. Proprio in questi giorni siamo a Torino al Gobetti a fare spettacolo, Pandora, con cui siamo andati l’anno scorso alla Biennale a Venezia.
Dopo gli studi d’attrice sono ritornata anche alla danza avviando il mio percorso artistico e lavorando per esempio con Company Blu e Aldes. Un incontro importante è stato quello con Virgilio Sieni, avvenuto durante la sua prima direzione in Biennale. Lavoro con lui da 7 anni, è stimolante il suo mondo e negli ultimi anni abbiamo approfondito il rapporto artistico sviluppando progetti in solo e in duo anche nell’ambito di varie mostre. Recente è l’esperienza con Claudia Catarzi, artista che stimo e amica: nel 2020 siamo riuscite a realizzare un duetto arrivato anche alla Biennale, Posare il tempo. Si tratta di un progetto che Catarzi mi presentò molti anni fa e che finalmente abbiamo potuto realizzare con una produzione francese, è stata una sorta di rivincita creativa.
Ho bisogno di creare ponti creativi. Così, per non limitare il contenuto al linguaggio, ho scelto l’Arte Incisoria studiando alla Scuola Internazionale d’Arte Grafica “il Bisonte”, e da qui ho iniziato a riconoscere il mio intimo percorso artistico. Negli ultimi quattro anni mi sono posta anche “dall’altra parte” a curare, come consulente di Alessandro Brucioni (direttore artistico), la sezione danza e musica del Deep Festival che organizzo con la mia associazione di Livorno, mowan teatro.
Tu hai oltre che formazione coreografica e attoriale anche grafica. Questa iper e sovrapproduzione di immagini cui siamo soggetti nella nostra epoca quanto influisce sull’agire quotidiano e quanto su quello artistico?
È come un bombardamento che satura la mente, e atrofizza la fantasia. Da una parte chiaramente c’è un apporto continuo di stimoli, puoi vedere che altri stanno lavorando a qualcosa che ti è affine, e può diventare materia di approfondimento. Nella quotidianità tuttavia puoi non riconoscere più il mondo che ti si apre dentro a un’immagine. Questa ipertrofia della comunicazione, in una visione catastrofica, porta a non riconoscersi, a un annullamento del sé nella contingenza. Abituati al chiasso, il silenzio, può essere spaventoso. E nel chiasso puoi solo urlare, sentire urlare, e fare a chi urla più forte e più veloce. E poi ti esprimi solo con le vocali… Non c’è spazio per la delicatezza del gesto intimo che esprime la differenza. Sento come un precipitare in uno smarrimento, una sorta di diffidenza verso il differire, e dunque una catatonia dell’immaginario, ed anche un’indifferenza verso il reale. Il tempo è rilevante: affinché qualcosa ti modifichi c’è bisogno di un tempo che esprima durata, che ti faccia sentire il mondo casa, e non è il tempo dello scroll.
Riflessioni ha un doppio dispositivo, che è sia quello del grande specchio che il vostro duetto. Come interagiscono i due? Come hai costruito lo spettacolo?
Le immagini più forti sono quelle che incontrano una tua storia: Riflessioni difatti nasce dal vivido ricordo della mia stanza dei giochi della mia infanzia, all’interno c’erano due specchi, uno piccolo e realistico e un altro grande deformante, davanti a cui giocavo “palleggiandomi” tra la verità e la verosimiglianza della mia immagine. Un aspetto curioso è che in realtà non so più se sia un ricordo reale o un ricordo indotto da una foto. E questo è nodale.
Oltre a questa immagine germinativa è stato fondamentale il progetto che ho realizzato al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato. Nel 2017 ho realizzato una performance su di una lastra di zinco 2×2 m ed ho inciso e stampato le tracce che la mia pelle ci ha lasciato sopra. Il set di Riflessioni nasce da queste matrici, di zinco, indispensabili per la creazione e la stampa delle prime tavole anatomiche, un materiale che, come lo specchio e la lente, sono stati strumenti di conoscenza del corpo e del nostro rapporto con la percezione della realtà. Grazie alla cascata di specchio presente posso osservare il corpo concreto e contemporaneamente posso giocare con la sua immagine sullo specchio, vederla deformarsi o trasformarsi in macchia e astrazione in base al punto di osservazione che scelgo.
Originariamente il desiderio era di lasciare liberi gli spettatori di muoversi tutto intorno, affinché ciascuno potesse influenzare la propria fruibilità della performance e “intrappolare il mondo” nello specchio. Il movimento amplifica la visione e la partecipazione. Tuttavia, la situazione di contingentamento attuale non ce lo permette, e dovremo aspettare di sviluppare questa parte interattiva. L’utilizzo di dispositivi che stimolano la compartecipazione degli spettatori è un po’ un fil rouge: Il mio progetto precedente che si chiama a fuoco – sulla distanza, è una raccolta di performance in cui utilizzo una grande lente di ingrandimento che tanto più costringe il pubblico a spostarsi per cercare la distorsione più singolare. Tutto questo per stimolare a ridefinire i significati dell’opera che a un certo punto non appartiene più all’artista, cosi come la propria presenza non ci appartiene del tutto, è un’insieme di proiezioni lette da angolature particolari, quelle di chi osserva; Interrogando la realtà la stiamo anche creando. Mi interessa il lavoro con questi elementi perché ci fanno riflettere sulla nozione di realtà, sulla sua inafferrabilità: dipende dalla superficie, dagli occhi, dai nostri strumenti percettivi, da come e dove siamo, e ciò cambia completamente la visione di quello che noi reputiamo “realtà”.
Questa ricerca mi ha portata a sentirmi attratta dal fotografo André Kertész che ha utilizzato gli specchi del Luna Park per creare la serie Distorsion e da Leonardo Erlich che crea opere interattive come Dalston House, uno specchio inclinato 45° verso il pavimento che riproduce la facciata di un edificio e in cui le persone sedute appaiono sospese sui cornicioni delle finestre, l’effetto è straniante. Entrambi sovvertono gli stereotipi creando aberrazioni prospettiche e nuove forme del reale.
Assieme a te c’è in scena il danzatore Maurizio Giunti, i vostri due corpi in scena si presentano come segni ben distinti, uno dei due sembra più “essere mosso” anziché agire con volontà propria; da cosa sei partita rispetto alla vostra danza e quali questioni vuoi muovere nella percezione dello spettatore?
Il corpo vivo è la materia prima che noi indaghiamo quando danziamo, e l’assenza della distanza che abbiamo da noi stessi ci impedisce di poterci comprendere del tutto. Per far sì che questo concetto potesse essere afferrato, il corpo di Maurizio è materia fisica inerte. È come se ci trovassimo in una sala autoptica, un luogo in cui vedere coi nostri occhi come siamo fatti, e per scoprire come ci sentiamo internamente nel tentativo di mettere in moto questo nostro corpo, di porlo in azione per riconquistare la vitalità. Indagare l’atto, e in particolare quello creativo, mi permetteva di affrontare questo paradosso esistenziale: Foucault dice che lo specchio è uno spazio che si trova in un “altrove” inaccessibile, in cui “siamo” dove non possiamo trovarci. Facendo agire direttamente i nostri limiti, i limiti dei nostri caratteri, che vengono dallo schianto con quell’altrove, con l’idea di fine, abbiamo schizzato fuori le nostre difese, il narcisismo, le manie; sono convinta che Riflessioni parli anche di questo: di una certa presunzione di realtà, il proprio sentire vuole affermarsi nella costruzione del proprio mondo, e per farlo ha bisogno anche degli altri i quali hanno a loro volta altri immaginari. Così i limiti invadono i nostri sensi e insieme nascondono e custodiscono il seme del riso e della fantasia.
Redazione
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