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Intervista a Pier Lorenzo Pisano, autore e regista di Senet, in scena il 22 e 23 giugno al Campania Teatro Festival
Aggiornamento 3 -10-2021: Pier Lorenzo Pisano ha vinto il Premio Riccione per la drammaturgia con il testo Carbonio, qui la motivazione della giuria.
Se gli faccio notare i traguardi raggiunti si imbarazza, non tanto per scaramanzia; in Italia se hai meno di trent’anni e sei già sulla linea di quelli che contano iniziano a guardarti male. Pier Lorenzo Pisano, classe 1991, napoletano, è schivo e silenzioso: scrittore, regista, in pochi anni si è imposto come una delle nuove voci della drammaturgia nazionale, è autore in residenza presso il New York Theatre Workshop e il Royal Court Theatre di Londra. Fa parte dei progetti Fabulamundi Playwriting Europe, Playstorm (Teatro Stabile di Torino), Between Lands (Emilia Romagna Teatro Fondazione). I suoi testi sono tradotti in dodici lingue ed il suo lavoro è stato presentato in programma al 72° Festival d’Avignon nel Forum des Nouvelles Écritures Dramatiques Européennes. Ha ricevuto i maggiori premi italiani per la nuova sceneggiatura e drammaturgia, tra cui il Premio Solinas, il Premio Riccione – Tondelli, il Premio Hystrio. In questi giorni sta presentando il suo romanzo di esordio Il buio non fa paura e il 22 giugno al Campania Teatro Festival debutterà Senet, spettacolo di cui è autore e regista, opera nata all’interno del progetto Zona Rossa del Teatro Bellini di Napoli. Insomma un carriera già avviata e con una velocità indirettamente proporzionale a quella della media italiana, ho raggiunto telefonicamente Pier Lorenzo nei giorni successivi alla chiusura del progetto Zona Rossa per parlare di drammaturgia e tirare le somme dell’esperimento del Bellini.
Zona Rossa, è stato un esperimento unico. Una compagnia chiusa in un teatro, nel secondo lockdown, senza poter uscire (all’inizio si era detto fino alla riapertura dei teatri) e con il compito di creare uno spettacolo di fronte al pubblico collegato in streaming. Siete stati 76 giorni nella Zona Rossa del Teatro Bellini. Perché siete usciti?
È una decisione che abbiamo preso tutti insieme, abbiamo rilasciato anche un comunicato: il senso era che la data del 27 marzo (la prima data pensata dal Governo per le riaperture, che ha preceduto quella reale del 26 aprile ndr.) non era una risposta alle complessità e criticità del settore. Abbiamo deciso di uscire il 5 marzo, data che segnava un anno di chiusura del Teatro Bellini, che invece aveva per noi un senso simbolico. Inoltre eravamo arrivati al termine del processo creativo, perciò abbiamo deciso di mettere noi un punto invece di aspettare l’infinita sequela di decreti.
Mediaticamente, quando siete entrati, la comunicazione ha puntato però anche sulla questione politica, cioè la possibilità che Zona Rossa potesse accendere una luce sulla chiusura dei teatri. C’è una sconfitta da parte vostra da questo punto di vista o quantomeno avete riflettuto ulteriormente sulla portata (o mancata portata) politica dell’azione?
Secondo me il progetto ha detto e fatto tutto quello che doveva. Aspettavamo una riapertura e invece è arrivata una data che non ha risolto nessuna questione, ed ecco la nostra volontà di impugnarla uscendo. Ed è importante segnalare la volontà di non mostrare uno spettacolo compiuto in streaming: abbiamo mostrato esclusivamente il processo creativo e le prove.
Cosa si prova a lavorare a qualcosa di così intimo come la creazione teatrale sapendo di essere spiati in diretta? A un certo punto ve ne siete dimenticati?
Credo sia stata una presenza molto forte. Come dicevi tu è un momento privato, molto intimo, ha bisogno di protezione. Durante la prima settimana facevo domande ed esercizi per capire come gruppo, come intelligenza collettiva, su quali temi potessimo indirizzarci. E ho anche fatto una serie di esperimenti, veri e propri test allo streaming: ad esempio ponevo le sessioni di domande alla compagnia prima e durante la diretta per capire cosa cambiasse nelle loro risposte. È stato interessante scoprire che, anche se lo streaming è certamente invasivo, gli attori erano spesso galvanizzati da questo meccanismo; per loro era come avere la percezione di un pubblico. Ho provato anche a far recitare un dialogo alle due attrici (Federica Carruba Toscano e Matilde Vigna) direttamente davanti alla camera, una per camera, in primo piano. Il risultato era che in streaming si vedeva uno split screen dei due volti, mentre in realtà loro erano alle parti opposte del palco e si davano le spalle. Ma la tensione emotiva era fortissima. Il risultato era qualcosa di affine al cinema, con una regia in diretta.
Sì, forse è una situazione simile a quella delle prove aperte, quando un osservatore esterno assiste a una prova. Mi viene in mente anche il discorso più ampio relativo alla nostra privacy, al fatto che siamo disposti a rinunciarci pur di usufruire di una serie di servizi. Questi temi poi sono rientrati negli spettacoli che avete creato?
Alla fine è rientrato tutto negli spettacoli. Come autori non è possibile essere impermeabili al resto del mondo o a quello che ci circonda. Fin dall’inizio sono stato convinto che il nostro stare lì dentro non potesse non condizionarci nella forma della restituzione. Se inizi a produrre, come è successo a noi, in una sorta di “cattività artistica”, poi va da sé che non potrai che raccontare anche quella cattività, trasfigurata in varie forme. Abbiamo creato due spettacoli compiuti, uno scritto e diretto a quattro mani (con Licia Lanera, qui l’intervista, ndr), si chiama 76 (appunto, il numero di giorni che siamo stati chiusi nel teatro), ed è una sorta di cronaca e diario di questa esperienza che poi si aggancia ai temi universali con cui ci siamo scontrati durante la residenza: la solitudine, il senso del teatro… qualcosa che poteva nascere solo in quel contesto. Il secondo spettacolo, scritto e diretto da me, si chiama SENET – il titolo viene da un antico gioco da tavolo egiziano – e parte dalla domanda che si fanno due donne una sera in casa, in una situazione apparentemente normale: “Cosa c’è fuori?”. Il fuori è un qualcosa di multiforme, in constante definizione. Lo spettacolo è basato su una percezione dell’esterno distorta, e sull’idea che una parola, detta su un palco col buio attorno, possa creare un mondo. Questo dà vita ad una sorta di duello tra buio e luce, e tra le parole delle due donne, in grado di creare e condizionare concretamente il mondo esterno.
Tu sei un giovane drammaturgo e regista, hai meno di 30 anni e già cominci ad essere prodotto da importanti teatri. Qual è la situazione del teatro in Italia per le nuove generazioni?
In Italia c’è molta diffidenza nei confronti dei giovani; ho avuto la fortuna di lavorare all’estero e di incontrare tante persone della mia età e confrontarmi con loro. In molti paesi essere giovani è percepito come un grande vantaggio. C’è una questione pratica, loro dicono: “Questa è una persona che posso fare crescere”, questo accade anche nelle istituzioni pubbliche, quei giovani poi crescono e diventano dei nomi. Ho chiesto agli autori tedeschi perché nel loro paese ci fosse tanta nuova drammaturgia, e una cosa molto semplice che mi hanno risposto è che lì ci sono tantissimi premi dedicati alla scrittura teatrale (oltre a un sistema di editori-agenzie molto forte).
Quando istituisci un premio, in automatico tu crei terreno fertile per la scrittura di nuovi testi, e se questi premi sono poi collegati ai teatri e alle produzioni ecco che stai dando vita ad una nuova generazione di autori. In Italia ci sono pochi premi, meritevoli, ma pochi. In Inghilterra esiste il Royal Court Theatre, una fucina di autori, che proprio perché si proclama “teatro degli autori” ha nel suo statuto l’obbligo di leggere e valutare tutti i testi dei autori inglesi che gli arrivano. Stesso discorso per la Sala Beckett (a Barcellona ndr.); questi sono teatri che con la loro azione nel tempo contribuiscono al cambiamento. E anche riguardo alla regia, in molti paesi i teatri stimolano i giovani a produrre nuove visioni del mondo; ho parlato con artisti della mia età a New York che mi raccontavano quanto poco venissero pagati, però gli vengono affidate anche quattro produzioni all’anno. Non voglio essere troppo esterofilo, perché poi anche all’estero ci sono cose che non funzionano. E sarebbe giusto prevedere anche dei bandi “over”, dedicati ai cinquantenni, per non relegare la creatività e la scoperta di nuove voci solo ai famosi under 35.
Anche come spettatore sei giovane, avrai però uno spettacolo che per te è stato importantissimo, che in qualche modo ti ha cambiato, quale?
Ho visto tanti anni fa un Riccardo III con Mark Rylance al Globe di Londra. Era fantastico perché c’era tutto: un attore clamoroso che si divertiva, la forza del luogo (per quanto ricostruito), una semplicità e un’efficacia meravigliose, c’era un rapporto col pubblico nel quale ritrovavi l’utopia per la quale gli spettatori possono andare via cambiati dopo uno spettacolo. In un momento come questo bisogna riflettere su cosa salvare del teatro e io salverei l’incontro. Questo lo dico anche rispetto a certe derive viste recentemente. Anche sperimentazioni interessanti: la Royal Shakespeare Company ad esempio ha realizzato un Sogno di una notte di mezza estate che grazie ai mezzi digitali era in effetti un’opera interattiva. Ibridazione affascinante, ma lo spettacolo dal vivo non può essere semplificato in spettacolo interattivo. Mi sembra sia qualcosa che può magari accompagnare l’incontro di cui parlavamo, ma non sostituirlo.
Andrea Pocosgnich