Fuori Programma – International Dance Festival: dall’8 giugno al 15 luglio presenta a Roma spettacoli, incontri, residenze, laboratori, progetti speciali, in una visione che quest’anno si raccoglie attorno all’evocativo sottotitolo Geografia delle relazioni. Intervista alla direttrice Valentina Marini. Articolo in media partnership.
Alle soglie dell’estate, per il sesto anno Roma diventa meta della danza contemporanea internazionale grazie a Fuori Programma. Il Festival, che quest’anno sceglie di evidenziare come la danza sia una Geografia delle relazioni, si caratterizza per una natura aperta ai processi, alle collaborazioni tra discipline, tra artisti, altri festival, alla vicinanza con gli spettatori, presentando la propria azione nei territori del V Municipio (tra il Quarticciolo e il Parco di Tor Tre Teste), e gli spazi del Teatro India. In questa intervista a Valentina Marini, anche alla luce della rete di conversazioni avvenute negli anni, le chiediamo di raccontarci della composizione del Festival, dei rapporti che lo caratterizzano.
Come si è declinata quest’anno l’alternanza tra ritrovare artisti già presentati nelle diverse edizioni e la conduzione del pubblico verso la scoperta di nomi nuovi al pubblico di Fuori Programma?
Il nostro festival è costellato da picchi di novità assoluta, ma nello stesso tempo vede la presenza di artisti o, in alcuni casi, di spettacoli già passasti da Fuori Programma; ciò corrisponde a una precisa scelta politica, che vuole contrastare l’idea che un progetto artistico sia usa e getta, una tacca da aggiungere sul foglio, della relazione one-shot.
Si tratta, inoltre, di una mia esigenza di fare gruppo, famiglia; mi piacerebbe che il pubblico possa ritrovare i percorsi degli artisti, notandone le evoluzioni, come il caso di Sita Ostheimer che abbiamo coinvolto in più edizioni e che quest’anno presenterà in prima assoluta Everything that’s left (qui una nostra intervista su un’altra produzione, ndr); o ancora il caso di La Veronal, di Spellbound… Ma è stato importante per me, anche tornare a ospitare MAD-Museo Antropologico del Danzatore di Michela Lucenti, approdato già l’anno scorso in un clima che, sebbene più disteso, portava su di sé davvero il peso del lockdown, ma nello stesso tempo arrivava al cuore del pubblico (ne parlavamo qui, in una intervista dello scorso anno, ndr).
In questa maniera artisti e percorsi nuovi possono trarre reciprocamente linfa dalle esperienze e le autorialità già note: il pubblico inizia a arricchire ogni anno che passa il proprio background, le proprie consapevolezze che si poggiano su una base solida perché più volte attraversata.
Dal punto di vista dello sforzo produttivo cosa e se è cambiato rispetto all’anno scorso, a un anno e mezzo di pandemia?
Sicuramente la pandemia ci ha permesso di trovare sempre di più forme non convenzionali e, avvantaggiati dalla stagione estiva, abbiamo potuto spogliare della necessità di un consistente supporto tecnico il fatto artistico. Anzi, proprio in questo sforzo ha incentivato una rinnovata riflessione sulle modalità di creazione e di fruizione.
Dal punto di vista produttivo siamo in crescita; non è scontato per una realtà nata in questo momento storico nella capitale; del resto, proprio le difficoltà intrinseche al sistema mi hanno sempre spinto a stratificare la progettazione, che sempre più si avvale di una condivisione circolare di sguardi, di punti di vista e anche di economie; come già accaduto precedentemente, la rete di collaborazione con gli altri festival, che ci permette di condividere le produzioni e debutti, è per me un valore aggiunto e non un demerito.
In merito al programma, che è fortemente caratterizzato da uno spirito fortemente collaborativo, prendiamo per esempio l’apertura con la combo Roberto Castello-Andrea Cosentino, tappa di un progetto di chapliniana memoria: in questo caso la danza di Enrica Bravini dialoga con un colosso come Dante, mediato dallo sguardo comico dell’attore-autore romano e poi, provocatoriamente, innesca pratiche legate alla microeconomia del dono. Come hai accolto come festival questa scelta?
Lo spettacolo firmato da Roberto Castello è parte di un progetto più ampio, “Tempi moderni – La commedia rivista”, nato l’anno scorso grazie al sostegno e il patrocinio del Comune di Capannori con l’idea di portare spettacoli in spazi comunitari condominiali e che ogni volta vede il coinvolgimento di diverse autorialità e diversi generi – anche in questo caso ritorna il discorso sulla reinvenzione di altre pratiche, verso una idea che spinga alla condivisione invece che alla reclusione. Nella proposta romana, la danza si riversa e si rispecchia nella scrittura comico-critica di Andrea Cosentino (con un suo testo originale Un Dante corretto bravo grazie, accompagnato dalla danzatrice Enrica Bravini), devo dire che rappresenta la sintesi estrema del mio ideale di festival, con una grande vicinanza umana.
La provocazione a cui facevi riferimento riguarda la scelta di sostituire il pagamento del biglietto con una donazione libera, ci sembrava ancora più straordinario rivendicare questa logica mutuale comunitaria non solo nella pratica artistica ma anche, dovendo immaginare uno sbocco concreto, nel reinvestimento del suo “compenso”. Per una parte ricadrà proprio sul quartiere, finalizzato all’accrescimento della sua vita socio- culturale, mentre la restante verrà devoluta alla Onlus Asinitas, che intreccia interculturalismo e sostegno ai migranti.
È quasi il contrario di quello che dovrebbe fare un festival della capitale! Ne abbiamo parlato tante volte, il fatto di essere legati al quartiere del Quarticciolo ci caratterizza: sposiamo il grande attivismo locale e il senso di comunità assoluta estraneità alle istituzioni ma in grado di ottenere risultati notevoli (certo, con tutti gli imprevisti del caso). L’area che abbiamo individuato è un crocevia del quartiere, punto nevralgico per la comunità, per i tanti bambini e le associazioni sportive che lo frequentano
La performance site-specific congiunta tra La Veronal e Spellbound, Simulacro, ha un forte carattere partecipativo, basato su una concezione spettacolare dove visione e azione sono prospettive non solo di un unico atto, ma anche fluide e interscambiabili. Che tipo di impatto e partecipazione prevedete e cosa si potranno aspettare i partecipanti?
Anche questa è un’idea che si poggia su un territorio di relazione, un collettivo di figure artistiche che collaborano assieme, difatti questo spettacolo è stato creato per due danzatrici di La Veronal e tre di Spellbound. L’anno scorso Macos Morau era a Roma per un altro progetto negli stessi giorni della presentazione di MAD che lo invitai a vedere anche perché ero e sono molto curiosa di scoprire che tipo di progettazione avrebbe potuto scrivere proprio per quel luogo, immaginando lo sguardo del pubblico potenziale.
L’altro piano di indagine è quello del confronto con il pubblico. Ho grande fiducia nella capacità di Morau, la sfida sarà la possibilità di avere un pubblico guidato in un mondo di suggestioni visive in un luogo come il parco di Tor Tre Teste che già di per se è in grado di creare immaginario. È un ambiente naturale molto incline a ospitare la costruzione artistica, mi piace costruire ogni anno qualcosa per questo luogo.
In merito alla variegata “geografia delle relazioni” che è la linea di questa edizione in termini tematici e pratici, quali declinazioni avete privilegiato?
In realtà cerco sempre di non farmi imbrigliare dalla tematica assoluta, si tratta sempre di un iter che può e deve trovare anche delle deviazioni. Tuttavia questo è un tema intrinseco proprio al fare danza, il corpo per forza si mette in relazione con un altro – che sia un altro danzatore o che questa pratica empatica si riversi sullo spettatore – soprattutto nel contemporaneo. È chiaro in molti casi gli spettacoli sono nati a partire da relazioni stratificate con altri artisti, è evidente che tutto il festival si appoggia su questa impalcatura, a volte stare insieme permette di sfruttare anche un’economia di scala, che di questi tempi può rappresentare un grande punto di forza (è il caso, tra gli altri, di Evolve, di Shahar Binyamini, in collaborazione con Bolzano Danza, ndr). Ma in ogni caso, alla base bisogna sempre trovare un pensiero e uno scambio comune, non è solo la condivisione di un budget.
Oltre agli spettacoli, sempre di più si conferma un approccio poliedrico tramite workshop, residenze artistiche, incontri, istallazioni. In quali relazioni si porranno con la comunità artistica e con quella del col territorio?
Mi interessa molto entrare in relazione con il pubblico, in una dimensione di osservazione circolare, tra pubblici-artisti (al plurale entrambi) e viceversa. Io immagino una impalcatura fondata su diverse diagonali, diversi progetti che accompagnano le due comunità dei territori che il festival attraversa. Inoltre ormai il pubblico è abituato a vedere anche le restituzioni dalle residenze (la prima è di Davide Valrosso; seguiranno poi anche quelle di Crangon/Daria Greco e Alessandra Cristiani), che diventano, come per i laboratori (con Michela Lucenti, Marco Cantalupo, Tom Winberger, Sita Ostheimer, Shahar Binyamini), che diventano occasione per gli artisti in crescita di inserirsi in un contesto in cui ci sono operatori o altri artisti più maturi. Anche l’idea di ospitare il Premio Prospettiva Danza (il 3 luglio) va in questa direzione: occasione che rientra sempre all’interno di quelle linee guida legate alla condivisione delle pratiche e della visione, nell’incontro poi tra la giuria tecnica del premio e alcuni studenti universitari.
All’interno della presentazione del festival parli di “Geografie da riscrivere collettivamente in ascolto di un tempo che chiama in causa la responsabilità senza rinunciare alla bellezza”: in quali termini credi che la nostra società rischi di cadere nell’opposto, ovvero di ritrovarsi in una dimensione solipsistica, in cui la scelta determina la perdita o dell’etica o dell’estetica?
Presupposto che in tutti i mestieri le componenti di responsabilità e rischio nel momento in cui si confrontano con dei progetti in divenire corrispondono a un atto di fiducia verso l’altro, dunque nel nostro caso nei confronti sia degli artisti che del pubblico. Ma la fiducia stessa è un atto di bellezza, io mi fido di qualcuno che stimo. Detto ciò, credo che per evitare di cadere nella trappola di cui parli sia fondamentale mantenere e incentivare un tipo di partecipazione e discussione critica.
Abbiamo rischiato di perdere l’idea e la pratica dell’essere comunità, in maniera sostanziale e carnale durante la pandemia. La vibrazione che si crea durante un qualsiasi spettacolo è amplificata nel momento in cui partecipi collettivamente e ne porti a casa degli effetti di una suggestione di immagini di cui fare memoria collettiva. Anche la sfida di progetti nuovi o di quelli che ritorno a vedere generano sempre un’adrenalina sana. Torno a ribadire un altro aspetto che sempre più caratterizza Fuori Programma: la fruizione all’aperto e al tramonto con una luce che rende visibile gli spettatori acuiscono la condivisione, l’applauso acquista un volto ed è più umanizzato.
Redazione
FUORI PROGRAMMA 2021, Roma