Recensione. La traviata andata in onda su Rai 3 e presente nel catalogo di RaiPlay. Con la regia di Mario Martone e la direzione musicale di Daniele Gatti, coreografie di Michela Lucenti
Prima di iniziare a raccontarvi di questa Traviata sento il bisogno di fare una confessione. Quando mi è stato chiesto dalla redazione di recensire questo titolo, ho avuto la forte tentazione di rifiutare. Perché? Mi sono detta: a che pro continuare a fare il mio lavoro come se nulla fosse? Che senso ha parlare di teatro, quando il teatro non esiste? Quando i teatri sono chiusi da più di 400 giorni? La rabbia, il dolore di mettermi di nuovo con la faccia davanti a uno schermo, di ascoltare le arie di Verdi da un impianto che mai sarà come le corde vocali, per un attimo, mi ha sopraffatta. Eppure, eccomi qui. Di nuovo: perché? Forse proprio per quella rabbia e per quel dolore. Forse per reazione. Forse perché, ancora una volta, il teatro ha dimostrato di saper prendere la sua via, di insinuarsi, di continuare ad essere, in qualche modo, sé stesso. Nonostante tutto, nonostante noi.
Allora accendo la tv (anzi, Raiplay da pc) e mi siedo ancora una volta in poltrona, quella poltrona singola, in ecopelle e non di velluto, da sola, in silenzio a guardare/ascoltare La traviata di Giuseppe Verdi, diretta da Daniele Gatti, con la regia di Mario Martone e le coreografie di Michela Lucenti. Gatti e Martone, li abbiamo già incontrati qualche mese fa con il loro riuscitissimo Barbiere di Siviglia, divertente e particolarmente a fuoco. Questa volta si cimentano con un’opera seria e il primo rischio è quello che l’utilizzo del mezzo che sono costretti ad adottare non si addica al titolo. Il massiccio uso dei mezzi metateatrali, delle macchine sceniche a vista (e persino dei macchinisti) potrebbe nel caso del melodramma finire per risultare pedante e fuori luogo invece che brillante.
Invece Martone sistematizza con gusto e abilità quanto fatto con Il barbiere, consolidando quel genere derivato di cui ormai si può chiamare padre che possiamo definire come opera cine-teatrale. I tre elementi, fusi indissolubilmente non straniano neanche più, come questa nuova aberrante normalità che viviamo oggi ci ha insegnato a fare: a non farci straniare più da niente. E allora Gatti con la mascherina che dirige l’orchestra e poi si volta di spalle per dare l’attacco ai cantanti è normale, così come è normale che al posto delle sedie di velluto ci sia soli il pavimento nero e la poca scenografia, bastevole a identificare La traviata. La mancanza di applausi, il teatro abitato dai cantanti, le esterne, gli stacchi di camera, i campi lunghi, i primi piani, tutto è normale.
È tutto di una sfarzosità essenziale. Un controsenso in termini che si spiega con la ricchezza dei costumi di Anna Biagiotti, accanto a una scenografia perlopiù inesistente (come quella del barbiere) fatta di elementi fluttuanti, mobilia sparsa che configura immediatamente l’ambiente. L’elemento base è il letto al centro del palco. Una scelta registica da anni usata e abusata, tanto che si può considerare ormai quasi tradizionale nella regia contemporanea. Il senso è sempre lo stesso: si tratta della vita privata di Violetta messa in piazza. Spesso però, lo troviamo solo nel primo e nell’ultimo atto, con l’unica interpretazione sessuale (e infine mortifera) che si può dare della vita di Violetta. Martone sorpassa questa linea e su quel letto gigantesco ci costruisce sopra l’intera regia.
Il letto allora diventa di più di un oggetto simbolo del sesso, ma della pura e semplice intimità, violata e abusata da chiunque faccia parte della sua vita. E questo abuso si traduce in un gesto di una quotidianità disarmante che, contestualizzato in questo modo, ne lascia emergere significati inaspettati. Sui letti di Violetta vengono continuamente appoggiati cappotti. Lo abbiamo visto fare e fatto noi stessi decine di volte, a casa dei nostri amici, invitati a una festa. Così fanno gli invitati alla festa a casa di Violetta che inaugura il primo atto: invadono il suo, di letto, il suo spazio privato, segreto, con i loro cappotti sporchi. E se a all’inizio ne abbiamo solo un vago sentore, Martone continua a insistere. Quando Violetta è sola, di nuovo, piovono cappotti sul suo letto, lanciati con disprezzo, con noncuranza. Sempre libera? Non credo proprio. Violetta è prigioniera del suo personaggio, del suo destino festaiolo: tutti la guardano, tutti la sporcano, sempre. Persino Germont quando entra nella casa di campagna del secondo atto getta con gesto quasi di sfregio il suo cappotto sul nuovo letto di Violetta Alfredo, di nuovo in mezzo al palco.
Violetta è un personaggio che, notoriamente, combatte contro la realtà: quella della società in cui vive, ma soprattutto quella della morte incombente. Germont padre è il rappresentante fisico della realtà, suo figlio Alfredo il campione dell’autoillusione. In questa nuova casa di campagna del secondo atto è emblematico Alfredo che, da un palchetto, la sta dipingendo. Sulla tela vediamo quel letto sfatto, al centro, immerso nel verde di un romantico bosco, avvolto di foglie e alberi. Questo paesaggio bucolico incredibilmente irrealistico, è solo lui a vederlo, con la sua immaginazione. Quando la camera si gira vediamo come il fondale, in realtà, è di cartapesta, posticcio, di quelli della più compassata tradizione teatrale e questo non certo per mancanza di cura o budget, ma proprio per sottolineare il distacco tra Alfredo e la realtà. Basterà uno strattone a Germont per buttare giù l’intera scenografia, scoprendo le funi, il trucco teatrale, la falsità scenica che le teneva su.
Gli espedienti cinematografici sono pochi rispetto a quanto abbiamo visto nel barbiere e la cosa non ci disturba affatto. C’è un’esterna a Caracalla, che però non fa altro che presentarci qualcosa che nell’opera viene solo raccontata, il duello tra Duphol e Alfredo, reso da Martone realisticamente, senza caricarlo di eccessivo pathos. Ci sono invece due interventi registici più interessanti lasciati proprio per il finale. In Parigi oh cara, il duetto del ricongiungimento tra Violetta e Alfredo, Martone compie una vera e propria trascrizione cinematografica di ciò che provano i personaggi. Violetta sta morendo e lo sa perfettamente. Alfredo finge di non sapere, ma ne è ugualmente consapevole. Eppure, è probabilmente l’ultima volta che si vedranno nella vita e non hanno nessunissima intenzione di smettere di credere in un futuro insieme. Allora si abbracciano, si sorreggono, lei è emaciata, mal vestita, distrutta. Ma quando la steady gli gira attorno, noi li vediamo bellissimi, elegantemente vestiti, lei indossa un gioiello costoso e si abbandona sorridente sulla spalla di lui: è un sogno.
Di nuovo sul suo letto, ovviamente, muore Violetta, che inizia lentamente ad abbandonare la realtà, non vedendo più intorno a sé. La soggettiva di lei, inizia a diventare sfuocata, sentiamo solo il canto di Germont, Alfredo, Annina e il dottore. Sul finale ultimo, è effettivamente sola sul palco, come lo si è (almeno, ci immaginiamo che sia così) durante la morte. Il sipario si apre su un teatro vuoto, senza poltrone, solo pavimento nero e palchetti. È sparita anche l’orchestra. La musica e il canto sono solo nella testa di Violetta, che convinta di tornare a vivere, si accascia sul proscenio, finendo quasi nella buca vuota. I titoli scorrono in silenzio, senza staccare la telecamera dal cadavere di Violetta, spenta come il teatro intorno a sé.
Musicalmente si è invece trattata di una prova leggermente meno riuscita di quella del barbiere. L’orchestra del Costanzi si rivela sempre all’altezza del compito e segue il maestro Gatti dovunque egli voglia portarla. In questo caso, su una strada non del tutto convincente in alcuni punti, con un primo numero fin troppo rallentato e un’aria di Violetta, al contrario, fin troppo veloce e in generale una volontà di scarnificare la parte melodrammatica da un’opera che è regina del melodramma. Buona la performance di Lisette Oropesa, che riesce perfettamente a rendere la Violetta frivola del primo atto, anche se un po’ meno la drammatica del secondo e terzo. Un po’ legato l’Alfredo Saimir Pirgu, sia a livello vocale che attoriale: impossibile sfuggire alla tagliola cinematografica. Un Germont azzeccato per Roberto Frontali, anche lui un po’ rigido, ma vocalmente sempre corretto.
Flavia Forestieri
L’opera è presente nel catalogo di RaiPlay
LA TRAVIATA
DIRETTORE Daniele Gatti
REGIA E SCENE Mario Martone
MAESTRO DEL CORO Roberto Gabbiani
COREOGRAFIA Michela Lucenti
COSTUMI Anna Biagiotti
FOTOGRAFIA Pasquale Mari
PRINCIPALI INTERPRETI
VIOLETTA VALERY Lisette Oropesa
FLORA Anastasia Boldyreva
ANNINA Angela Schisano*
ALFREDO GERMONT Saimir Pirgu
GIORGIO GERMONT Roberto Frontali
GASTONE Rodrigo Ortiz*
BARONE DOUPHOL Roberto Accurso
MARCHESE D’OBIGNY Arturo Espinosa*
DOTTOR GRENVIL Andrii Ganchuk**
UN COMMISSIONARIO Francesco Luccioni
DOMESTICO DI FLORA Leo Paul Chiarot
GIUSEPPE Michael Alfonsi
*Dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
** Diplomato “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma
Performers Balletto Civile
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma