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Nell’Atene di Licurgo: la sacra alleanza fra teatro e politica per salvare lo Stato

Teatrosofia #115. Uno sguardo su Licurgo promotore di importanti interventi istituzionali sulla scena teatrale ateniese. 

IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. Questo articolo è scritto con il sostegno della Fondazione Bogliasco (Genova)

 

Teatro di Dioniso ad Atene, completato da Licurgo

Isocrate ebbe molti discepoli che continuarono la sua riflessione estetica e politica. Uno di questi è il retore e legislatore Licurgo di Atene Atene, (390 a.C. circa – Atene, 323 a.C.), che stando alla biografia conservata nelle Vite dei dieci oratori dello pseudo-Plutarco fu il promotore di importanti interventi istituzionali sulla scena teatrale. Egli edificò anzitutto il teatro del santuario di Dioniso e introdusse due leggi. Con la prima, Licurgo restaurò la tradizione di organizzare un agone comico nel terzo giorno della festività delle Antesterie (la cosiddetta «festa delle pentole»), il cui vincitore sarebbe stato subito registrato per la partecipazione alle Dionisiache. Attraverso la seconda, egli invece ordinò di erigere statue di bronzo in onore di Eschilo, Sofocle, Euripide, nonché di trascriverne le opere e di conservarle negli archivi pubblici. Era inoltre prescritto che, ogni volta che si preparava l’allestimento di un testo dei tre tragediografi, un segretario doveva leggere il testo ad alta voce di fronte agli attori che lo avrebbero recitato e intimare loro di non discostarsi dalle parole originali con la recitazione.

Questa preziosa testimonianza non ci spiega perché Licurgo decise di istituire le due leggi. Di certo la seconda implica, da un lato, una scarsa considerazione verso la categoria professionale degli attori e la loro incapacità di agire bene senza divieti normative. Il giudizio negativo ricorre del resto anche nell’unico frammento superstite dell’Autodifesa contro Demade, dove Licurgo paragonava gli avversari a tragici trasformisti e vanagloriosi. Dall’altro lato, la seconda legge presuppone che, tra il V e il IV secolo a.C., gli attori fossero soliti deturpare i testi dei tre tragediografi. In effetti, tre indicazioni ellittiche in tal senso sono date:

  1. da Aristotele, che riferisce che l’attore Teodoro alterava le tragedie originali per entrare sempre per primo in scena e attirare così immediatamente l’attenzione del pubblico;

     

  2. da Dione Crisostomo, secondo cui a un certo punto si cominciò a tagliare dalle tragedie le parti liriche per lasciare solamente quelle di maggior impatto;

     

  3. da Quintiliano, che riferisce che gli Ateniesi permisero ai poeti più recenti di portare sulla scena delle versioni modificate delle tragedie di Eschilo, e ciò non sarebbe avvenuto se in passato tali modifiche non fossero vietate.

     

Perché però Licurgo avrebbe addirittura istituito una legge per stroncare sul nascere questa estrema libertà artistica degli attori? E come mai egli volle considerare le tragedie di Eschilo, Sofocle, Euripide dei documenti da conservare a spese della città? L’importanza di queste domande spicca ancor di più se teniamo conto che Licurgo riconosceva alle leggi una funzione politica decisiva: salvaguardare la democrazia e la conservazione dello Stato, incutendo terrore nei malvagi che intendono sovvertirle. Ne segue che, vietando agli attori di modificare il testo dei tre tragediografi, egli intendeva evitare un potenziale pericolo per l’assetto democratico.

Forse una risposta – o almeno un’ipotesi plausibile – può essere ricavata dai contenuti dell’unica orazione di Licurgo giunta per intero: il Contro Leocrate. Qui il retore intende convincere i giudici a condannare a morte l’omonimo commerciante che, otto anni prima, aveva violato il divieto di abbandonare la città di Atene, a seguito della sconfitta subita nella battaglia di Cheronea contro i Macedoni. La sezione che ci interessa è la lunga digressione poetica e mitografica dell’orazione, impiegata da Licurgo per dare alcuni exempla antichi di uomini e donne che anteposero gli interessi dello Stato ai propri, arrivando a sacrificare la loro vita. Ci troviamo nel pieno quadro concettuale del maestro Isocrate, che come abbiamo visto in un intervento precedente riteneva a sua volta che la poesia ha il merito di fornire agli esseri umani dei personaggi dalla condotta esemplare. Ora, tra i poeti che vengono citati da Licurgo, troviamo Omero ed Euripide. Uno sguardo rapido al giudizio su entrambi chiarirà in parte come il retore interpreti il nesso tra teatro e legge/politica.

Licurgo cita Euripide per primo e lo ritiene un «buon poeta» che, nella perduta tragedia Eretteo, dà un grande exemplum di abnegazione familiare per la salvezza dello Stato, dunque spiega al pubblico che la patria va anteposta a tutto. La scelta non è forse casuale e potrebbe di nuovo dipendere dall’orientamento isocrateo dell’autore. Isocrate aveva infatti già usato il mito di Eretteo a fini di edificazione morale-politica, senza però citare – come il discepolo – un esempio poetico. Euripide narra che Eumolpo volle invadere Atene quando Eretteo la governava. L’uomo consultò l’oracolo per sapere come avrebbe potuto vincere la guerra e sentì rispondere che la vittoria sarebbe arrivata a condizione del sacrificio di sua figlia. Eretteo ne discusse con la moglie Prassitea se procedere o no. Entrambi i genitori concordarono di immolare la figlia e salvarono così Atene dalla minaccia di Eumolpo. Per rinforzare il suo discorso, inoltre, Licurgo cita un lungo estratto dal monologo in cui Prassitea spiega perché ritenga doveroso il suo gesto, aggiungendo un commento moralistico che mira a colpire di nuovo Leocrate. Se una donna è riuscita ad andare contro il suo innato amore filiale e ad amare di più la patria, a maggior ragione gli uomini devono sacrificare i loro interessi. È allora evidente che, fuggendo da Atene, Leocrate ha dato prova di una condotta pessima.

Segue il richiamo a Omero. Licurgo cita più precisamente i vv. 44-49 del libro XV dell’Iliade, che rappresentano Ettore che incita gli Achei a non fuggire dai Troiani che sono arrivati molto vicino alle navi e, se necessario, a morire in battaglia. Il loro sacrificio gioverà infatti alla patria, salverà le moglie e i figli rimasti a casa da un’eventuale rivalsa troiana contro le terre greche. Prima di fare questa citazione, però, Licurgo accenna alla tradizione degli avi, che istituirono «per legge» e «giustamente» di recitare i poemi omerici. La ragione è che essi si accorsero che in almeno un punto la poesia è superiore alla legislazione: «Le leggi… per la loro concisione non ammaestrano ma prescrivono quel che si deve fare, mentre i poeti rappresentano la vita umana e trascegliendo le più belle imprese, col ragionamento e la dimostrazione persuadono gli uomini». Ci troviamo insomma davanti a una sorta di sacra alleanza tra teatro e politica. Recitare Omero significa rendere più efficaci le leggi, perché scene come quella di Ettore che difende le navi a rischio della vita non si limitano solo a prescrivere che morire per la patria è meglio che fuggire con ignominia, bensì convincono e dimostrano tale punto. Se insomma teatro e politica mirano allo stesso fine di salvare lo Stato, il primo vi riesce con più forza, la seconda con maggiore autorità.

Tenendo a mente tutto ciò, possiamo tornare al problema posto in origine e provare a rispondere perché Licurgo volle sia conservare le opere dei tre illustri tragediografi, sia vietare per legge agli attori qualunque modifica di questi testi. Il primo punto si spiega con l’esempio dell’Eretteo di Euripide. Questa e altre opere dei tre tragediografi contiene ammaestramenti morali che accendono quell’amore di patria che le leggi prescrivono in modo più freddo. Il divieto di modificare il testo delle tragedie potrebbe invece mirare a non far perdere questa virtù politica. Se ad esempio un attore dovesse cambiare soltanto una virgola del monologo di Prassitea nell’Eretteo, il suo potere di persuadere le masse ad amare la patria più della prole verrebbe attenuato o compromesso. Si può in conclusione dire che, forse, Licurgo aveva l’obiettivo di attuare una “legislazione estetica”. Le leggi intendono salvare la democrazia e insieme il teatro che, mediante personaggi esemplari, genera nel pubblico l’amore del sacrificio di sé a favore del bene supremo dello Stato.

Il risultato è paradossale. Licurgo apprezza il teatro per le sue virtù morali e politiche, ma al tempo stesso intende difenderlo dai suoi nemici più insospettabili: dagli attori stessi, che si mascherano da suoi ferventi amici.

—————————-

[Licurgo] fu allievo del filosofo Platone, e dapprima si dedicò alla filosofia; in seguito fu allievo anche del retore Isocrate e divenne figura politica di rilievo nella parola come nell’azione, e anche perché gli fu affidata la gestione delle finanze (Pseudo-Plutarco, Vite dei dieci oratori, passo 841B5-9)

[Licurgo] fu eletto responsabile della preparazione per la guerra e rimise in sesto numerose strutture urbane, allestì quattrocento triremi per la città, edificò il ginnasio nel Liceo e vi piantò alberi, fece costruire la palestra e sovrintese ai lavori del teatro nel santuario di Dioniso fino al completamento. (…) Introdusse inoltre alcune leggi. Una era relativa agli attori comici: durante la Festa delle Pentole si doveva tenere una competizione teatrale e il vincitore veniva registrato per le Dionisie (cosa prima vietata); ripristinò così quella competizione ormai tramontata. Un’altra legge prevedeva di dedicare statue bronzee a Eschilo, Sofocle ed Euripide, e di trascrivere le loro tragedie, che sarebbero state conservate pubblicamente; inoltre il segretario pubblico doveva leggerle agli attori che le avrebbero recitate, senza che fosse permesso distaccarsi dal testo nella recitazione (Pseudo-Plutarco, Vite dei dieci oratori, passi 841C6-D2 e 841F4-12 = Eschilo, T145 Radt; Sofocle, T156 Radt; Euripide, T218 Kannicht)

“Entrerà in gara con gli altri tragedi”. Didimo sostiene che si tratta di un’espressione proverbiale usata degli individui che si adattano alle diverse circostanze e si travestono di orgoglio contro i loro avversari (Licurgo, Autodifesa contro Demade, fr. 1; trad. mia)

E forse al riguardo non diceva male Teodoro, l’attore tragico: egli non permetteva mai a nessuno, neppure a un attore di poco valore, di comparire sulla scena prima di lui, perché gli spettatori si lasciano attirare da quel che ascoltano per primo (Aristotele, Politica, libro VII, 1336b27-31)

(…) Nel caso della tragedia, mi pare che restino soltanto le parti più forti, vale a dire i giambi e la partizioni di questi che ancora rappresentano nei nostri teatri, mentre sono andate perdute quelle più delicate, ossia le parti liriche (Dione Crisostomo, Orazione 19: Sul debole per l’autore verso l’ascolto della musica, il dramma e l’oratoria, § 5; trad. mia)

Quanto alla tragedia, il primo a darle notorietà fu Eschilo, poeta solenne ed alto e magniloquente non di rado sino all’eccesso, ma generalmente privo di raffinatezze e sgraziato: per ciò gli Ateniesi ne affidarono le tragedie a poeti posteriori, perché le correggessero e le rappresentassero nelle gare tragiche; e molti cosi riportarono la vittoria (Quintiliano, L’istituzione oratoria, libro X, cap. 1, § 66 = Eschilo, T133 Radt)

Sarebbe un’empietà, quand’uno trasgredisce le leggi scritte che sono la salvaguardia della democrazia, e si fa introduttore e banditore di altri perversi costumi, lasciarlo andare impunito (Licurgo, Contro Licofrone, fr. 29)

Il colpevole non è mai esente da grave tormento, ma molte cose a un tempo lo crucciano: il presente pieno d’inquietudine, l’avvenire che incute spavento, la legge che addita pronte le pene, le colpe accumulate sulle colpe, il nemico che spia l’occasione di denunziare il misfatto: tutte queste cose giorno per giorno ne travagliano l’anima (Licurgo, Orazione incerta, fr. 37)

Poiché tre sono i fondamenti che salvaguardano e conservano la democrazia e il benessere dello stato: anzi tutto la prescrizione delle leggi, in secondo luogo il voto dei giudici, in terzo luogo l’accusa che a questi deferisce i colpevoli. La legge ha la funzione di prescrivere quel che non si deve fare, l’accusatore di denunziare quelli che sono incorsi nelle penalità stabilite dalle leggi, il giudice di punire quelli che gli vengon designati dall’una e dall’altro, sicché né la legge né il voto dei giudici hanno vigore senza l’opera di chi affidi loro i colpevoli (Licurgo, Contro Leocrate, 4-5)

Io ritengo, o signori, all’opposto di costoro, che da costui dipendesse la salvezza della città. Una città infatti si regge qualora venga custodita da ciascuno per la parte a lui spettante: quand’uno trascuri questo dovere rispetto a un sol punto, senz’avvedersene ha mancato a tutti i suoi doveri. Eppure è facile, o signori, mirando allo spirito degli antichi legislatori scoprire la verità. Quelli infatti, mentre stabilirono la pena di morte per chi avesse rubato cento talenti, non fissarono una pena minore per chi avesse rubato solo dieci dramme, né, mentre condannavano a morte chi avesse commesso un grave sacrilegio, punivano con più lieve pena chi n’avesse commesso uno meno grave, e neppure colpivano sol con una multa chi avesse ucciso uno schiavo, mentre privavano dei diritti civili chi avesse ucciso un uomo libero: ma ugualmente per tutte, anche le più lievi violazioni di legge stabilirono come unica pena la morte. Non badavano infatti essi ogni volta alla qualità particolare dell’azione commessa per desumer di lì la gravità delle colpe, ma proprio questo consideravano, se il reato fosse di tal natura che diffondendosi potesse recar grave danno alla popolazione. E davvero sarebbe assurdo giudicare su tal questione in modo diverso. Suvvia, o signori, se uno penetrato nel Metroo distruggesse una sola legge e si difendesse poi dicendo che nessun male dalla distruzione di questa legge derivi alla città, non mandereste voi a morte costui? Sì, e giustamente, io credo, se almeno voleste salvate le altre. Alla stessa maniera dunque dovete punire costui, se volete render migliori gli altri cittadini: e non considerate, se un solo è il colpevole, ma badate alla colpa in sé. Io ritengo una fortuna per noi che non molti siano simili a costui: ma per questo egli è meritevole di più grave punizione, perché solo fra tutti cercò non la salvezza pubblica ma la propria (Licurgo, Contro Leocrate, §§ 64-67)

Eppure, o signori, a voi soli tra gli Elleni non è lecito trascurare siffatte cose. Io vi voglio esporre alcuni brevi racconti dei tempi antichi; ai quali voi come a esempi ispirandovi, intorno a questo caso e agli altri tutti meglio delibererete (Licurgo, Contro Leocrate, § 83)

Considerate ancora, o signori: non mi voglio staccare dagli esempi antichi: quelle cose infatti ch’essi si recavano ad onore di compiere, sarebbe giusto che voi ascoltaste di buon grado. Raccontano dunque che Eumolpo, figlio di Posidone e di Chione, venisse con i Traci a contrastare il possesso di questa terra: si trovava in quei tempi a regnare Eretteo, che aveva in moglie Prassitea, la figlia del Cefiso. Mentre un grande esercito stava per invadere la nostra terra, egli si recò a Delfi a interrogare il dio, che cosa dovesse fare per conseguire la vittoria sui nemici. Avendogli il dio risposto che se avesse sacrificato la figlia prima che si scontrassero i due eserciti, avrebbe vinto i nemici, egli obbedendo al dio così fece e cacciò gl’invasori della regione. Per questo sarebbe giusto lodare Euripide, perché buon poeta per il resto, anche questo mito prese a soggetto d’un suo dramma, ritenendo che sarebbero state bellissimo esempio ai suoi concittadini le imprese di quegli eroi, alle quali riguardando e ponendo mente si sarebbero avvezzati in cuor loro ad amare la patria. Mette conto, o signori giudici, di ascoltare anche i versi ch’egli fa pronunciare alla madre della fanciulla. Scorgerete in essi grandezza e nobiltà di animo degne della città e della figlia del Cefiso. «Un beneficio concesso liberamente è più gradito ai mortali: quelli che operano si, ma indugiando, si comportano meno generosamente. Io darò la figlia mia da uccidere. Molte ragioni mi inducono: anzi tutto una città migliore di questa non si potrebbe trovare: in essa, in primo luogo, il popolo non è immigrato da altre terre, ma autoctoni noi siamo: le altre città, formate d’elementi confusi come le pedine da giuoco, sono popolate da gente di provenienza varia. Ora, chi, partendo dalla sua città, vada ad abitarne un’altra, come infelice zeppa conficcata in un trave, di nome è cittadino, ma di fatto no. E poi a questo fine noi generiamo figli, per difendere gli altari degli dèi e la patria. Della città intera un solo è il nome, ma molti l’abitano: costoro come posso io lasciar perire, mentre mi è lecito salvarli tutti a prezzo d’una sola vita? S’io so contare e discernere il più dal meno, la sventura che colpisce la casa d’un solo non val più di quella che tocchi tutta la città. Se in casa io avessi anzi che fanciulle un rampollo maschio, e incendio di guerra minacciasse la città, forse che per timore della morte non l’avrei mandato alla battaglia armato di lancia? Oh avessi io figli, che potessero combattere e segnalarsi tra i guerrieri, non già ombre inutilmente nate nella città. Le lacrime delle madri, quando accompagnino i figli, a molti han tolto coraggio sul punto di muovere alla battaglia. Detesto le donne che, preferendo all’onore la vita dei figli, esortano alla viltà. E si, quando cadono in battaglia, essi ottengono tomba comune con molti prodi e gloria pari: ma alla figlia mia caduta, sola, per questa città, una sola corona sarà donata. E la genitrice e te e le due sorelle ella salverà : non è forse bello ottenere questi privilegi? La figlia, che non è mia se non per nascita, io offrirò da sacrificare per questa terra. Se la città sarà presa, qual ragione avrò io più sui figli miei? Orbene tutto, per quanto sta in me, sarà salvato : ad altri toccherà il frutto della vittoria, ma io avrò salvato questa città. E, ciò ch’è della più alta importanza nella vita dello stato, nessuno senza il mio consenso le antiche leggi dei maggiori sovvertirà, né, invece dell’olivo e dell’aurea Gorgone, il tridente issato sulle fondamenta della città né Eumolpo né il popolo trace cingerà di corone, né avverrà che Pallade in nessun luogo più sia onorata. Prendetevi dunque, o cittadini, il frutto delle mie viscere, salvatevi, vincete: per una sola vita non è possibile ch’io non vi salvi la città. O patria, oh se tutti quelli che ti abitano cosi ti amassero come ti amo io! Tranquillamente noi ti potremmo abitare e nessun male tu avresti a soffrire». Così il poeta, o signori, ammaestrava i padri nostri. Mentre infatti tutte le donne sono per natura amanti dei figli, egli rappresentò questa donna più amante della patria che dei figli, mostrando che se le donne questo osano compiere, gli uomini debbono nutrire un amore veramente sconfinato per la patria e non fuggire abbandonandola né disonorarla al cospetto di tutti i Greci, come ha fatto Leocrate (Licurgo, Contro Leocrate, §§ 98-101 = Euripide, Eretteo, T24 II e frr. 360-360a Kannicht)

La più illustre delle guerre è stata certo quella persiana, tuttavia le antiche gesta non costituiscono prove meno importanti per chi discute sulle tradizioni. Quando ancora l’Ellade era debole, mossero contro il nostro paese i Traci con Eumolpo figlio di Posidone e gli Sciti con le Amazzoni figlie di Ares, non contemporaneamente, ma all’epoca in cui ciascuno dei due popoli cercava di estendere il proprio dominio all’Europa; essi erano animati dall’odio verso l’intera stirpe ellenica, ma particolarmente rivolgevano accuse a noi, pensando che in tal modo avrebbero lottato contro una sola città, ma le avrebbero soggiogate tutte in una volta. Pure non riuscirono nell’impresa: benché si fossero scontrati con i nostri soli progenitori, furono annientati del pari che se avessero combattuto contro l’intero genere umano. La grandezza dei disastri che li colpirono è evidente: la fama che li riguarda non sarebbe durata tanto a lungo, se anche i fatti non fossero stati di eccezionale importanza (Isocrate, Panegirico, §§ 68-69)

Dunque, i Traci invasero il nostro paese sotto la guida di Eumolpo figlio di Posidone, che disputò ad Eretteo il possesso della città, sostenendo che Posidone l’aveva occupata prima di Atena (Isocrate, Panatenaico, § 193)

Io voglio a voi citare anche Omero a titolo di lode. Così valente poeta infatti i vostri padri lo reputarono, che stabiliron per legge che ogni quinquennio durante le feste panatenee di lui solo fra tutti i poeti venissero recitati dai rapsodi i canti, dimostrando in tal modo agli Elleni il loro amore per le imprese più belle. Giustamente: le leggi infatti per la loro concisione non ammaestrano ma prescrivono quel che si deve fare, mentre i poeti rappresentano la vita umana e trascegliendo le più belle imprese, col ragionamento e la dimostrazione persuadono gli uomini. Ecco qui Ettore che esorta i Troiani a combattere per la patria: «Suvvia combattete presso le navi senza posa. Chi di voi / colpito da strale o da spada soccomba al fato di morte, muoia: / non è inglorioso per lui morire combattendo per la patria: ma / salvi saranno a lui la moglie e i teneri figli, e intatti i beni e la / casa sua, pur che gli Achei ritornino sulle loro navi alla cara / terra patria» [Iliade, libro XV, vv. 44-49]. Questi canti ascoltando, o signori, gli antenati vostri e tali imprese emulando, così valorosi furono, che non solo per la loro patria ma per l’Ellade tutta come per una patria comune si offrivano alla morte (Licurgo, Contro Leocrate, §§ 102-104)

[Si usano in questo articolo le traduzioni e raccolte che seguono:

  • Daniel Di Salvo (a cura di), Vite dei dieci oratori, in Emanuele Lelli, Giuliano Pisani (a cura di), Plutarco: Tutti i Moralia, Milano, Bompiani, 2017;

  • Enrica Malcovati (a cura di), Licurgo: Orazioni e frammenti, in Mario Marzi, Pietro Leone, Enrica Malcovati (a cura di), Oratori attici minori. Vol. I, UTET, Torino 1977;

     

  • Henry Lamar Cohoon (ed.), Dio Chrysostom: Discourses 12-30, Harvard University Press, Cambridge 1939;

     

  • Renato Laurenti (a cura di), Aristotele: Politica, Trattato sull’economia, Laterza, Roma-Bari, 2004;

     

  • Richard Kannich (ed.), Tragicorum Graecorum Fragmenta. Vol. 5: Euripides, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2004;

  • Rino Faranda, Piero Pecchiura (a cura di), Marco Fabio Quintiliano: L’istituzione oratoria. Volume secondo, UTET, Torino 2003;

  • Stefan Radt (ed.), Tragicorum Graecorum Fragmenta. Voll. 3-4: Aeschylus, Sophocles, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1985 e 1999]

     

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

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