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Il teatro emotivo è un atto politico. Dal carcere alla questione di genere.

Intervista. Dopo la formazione e il lavoro in alcune realtà teatrali salentine, Paola Leone, regista tarantina, ha fondato l’associazione Io Ci Provo, lavorando per diversi anni in carcere e poi dedicandosi al tema della violenza e della parità di genere col progetto Le Spose di BB. L’abbiamo intervistata per scoprire un percorso “piccolo” eppure molto lungo, in grado di affrontare temi e di parlare a e di tante realtà non sempre e non necessariamente illuminate dalle luci di cronache e riviste. 

Foto Paola Leone

Qual è stato il tuo percorso di avvicinamento al teatro?

Nasce quando ero molto giovane, ma non si è potuto realizzare come avrei voluto. A diciotto anni volevo fare l’Accademia, ma non me l’hanno consentito, quindi ho abbandonato l’idea e mi sono iscritta all’università e laureata in scienze dell’educazione. Qualche mese prima della laurea dovevo fare un esame di storia del teatro e dello spettacolo, il professore ci portò a Koreja che aveva appena aperto a Lecce (da Aradeo). Andammo a vedere uno spettacolo di Enzo Toma con dei portatori di handicap in scena, restai folgorata, come se il teatro tornasse nella mia vita in un modo differente, pieno di emozione, di verità. Feci l’esame e dopo nemmeno due settimane, trovai sotto la porta di casa una lettera che annunciava che si sarebbe svolto un corso di due anni all’interno dei Cantieri Teatrali Koreja per diventare tecnico esperto di teatro sociale. Mi sarei laureata di lì a poco e nemmeno sapevo bene cosa volesse dire, ma decisi di iscrivermi. I maestri, da Enzo Toma ad Armando Punzo a Mariangela Gualtieri agli interni di Koreja insieme a tutta un’altra serie di artisti, registi, drammaturghi. Dopo i due anni Koreja mi integrò nello staff, prima come formazione per le scuole e poi a lavorare. Lì ho incontrato Tonio (De Nitto n.d.r.) e Fabio (Tinella n.d.r.) con cui poi abbiamo creato Factory Compagnia Transadriatica. Dopo qualche anno ho costituito un’altra associazione di promozione sociale, si chiama Io ci Provo, perché per la mia formazione il teatro era nei contesti non teatrali. Quella era la mia strada: il teatro nei luoghi in cui la cultura viene negata, mi pareva che lì ci fosse bisogno di indagare. Penso molto ad Artaud, soprattutto in questo periodo storico in cui tutto sembra uguale e manca in realtà un aspetto di denuncia, un controcanto, qualcosa che dica che c’è tanto orrore e che va visto. Ho sempre pensato che il teatro fosse una denuncia dell’anima, per me almeno, come regista, sento di denunciare la mia anima ogni volta che metto lo sguardo su qualcosa o su qualcuno.

Come arrivi alla tua esperienza in carcere?

In contemporanea a quanto ti dicevo, nel 2005 ho fatto la mia prima esperienza nel carcere di Taranto. Sono tarantina e un po’ la città ha a che fare con le mie scelte. Una città dove quando ero adolescente, negli anni Novanta, gli anni della guerra di malavita, il solco tra bene e male era molto sottile. Non esistendo un confine netto, anche i figli dell’alta borghesia o di famiglie come la mia, dove la cultura e lo studio erano normali, uscivano la sera o giravano per locali e si trovavano a contatto diretto con certe realtà. Avevo diversi amici i cui volti poi ritrovavo sul giornale. Lecce quindi mi sembrava un paradiso da un certo punto di vista ed è stato quasi inevitabile andare nel carcere di Taranto. Il primo laboratorio nella sezione maschile è stato difficilissimo: non avevano mai aperto le porte a nessuna attività. Io e Antonio Miccoli, il mio assistente alla regia, abbiamo incontrato la resistenza del personale, ma senza cedere. Dopo un paio di anni ho fatto un laboratorio nel reparto femminile, anche se solo di trenta ore, poi ho trasferito il progetto a Lecce, rimanendoci fino al 2017. Qui ho potuto davvero capire il mio linguaggio teatrale. In Puglia e ancor di più a Lecce ci sono pochissime registe, la maggior parte sono uomini e poi spesso c’è quella specifica: «Eh, ma lei fa teatro sociale».

Foto Martina Leo

Quale concetto sta alla base del tuo lavoro?

Quando lavori in un circuito differente da quello classico, soprattutto al Sud, stai molto nell’ombra. Non è tanto una questione di teatro sociale o meno, è anche il modo in cui si fa regia. Io ho sempre guardato molto all’attore. Quando ero piccola guardavo dove non dovevo e mia madre mi rimproverava: questo è diventato un metodo, un modo di fare teatro. Ecco perché non guardo me, ma l’altro. Tante volte in carcere ho dovuto imparare a rinunciare, a non affezionarmi alle scene, alle persone, anche se con le persone non ce l’ho mai fatta. Rinunciavo per non mettere in ridicolo o in imbarazzo l’altro. Mirare a un teatro politico dell’anima si può fare solo se guardi l’altro, non te stesso.

Foto Martina Leo

Come hai costruito un’identità artistica e registica nello specifico del tuo percorso?

La mia identità è ancora tutta in costruzione. Vivo la mia vita in un modo onesto e trasparente, teatro dell’anima per me è questo. Metto in discussione la mia vita, non c’è distanza tra questa e il mio lavoro. La mia anima si mette al servizio, quindi è in costruzione. Perciò tra qualche anno potrei stare lavorando a qualcosa che ora non posso nemmeno immaginare. Sono partita da un primo lavoro in carcere che era solo fisico, non c’era nemmeno una parola, quasi una coreografia, i detenuti parlavano solo il dialetto e a me non interessava, avevo bisogno di fare quel percorso di linguaggio. L’anno dopo è diventato coreografia e qualche parola, quello successivo ancora solo parola. Il corpo c’è sempre nei miei spettacoli, c’è molto cinema: se penso a PPP (Passione, Prigione, Pietà e/o Porca Puttana Pasolini n.d.r.), ad esempio, forse una cosa più compiuta e bella non potevo farla, infatti poi sono “uscita” dal carcere, dopo avrei fatto solo cose che non avrei potuto guardare, dopo quella bellezza la mia esperienza in carcere era finita. Ora rifletto sempre su come viviamo in un mondo che manca di educazione all’empatia per i giovani, in cui bisogna cambiare il punto di vista del machismo, spiegare a un ragazzo di quindici anni che può piangere o può essere lasciato. Il teatro per innescare un senso critico. Non mi interessa che molti non mi conoscano magari o derubrichino il mio come “teatro sociale”, perché il mio teatro è nelle persone che ho incontrato. Il teatro che mi piace oggi è il teatro “emotivo”. In carcere il mio lavoro si basava sul fatto che “tu non sei un detenuto”, lì anche lo spettacolo vuole che tu lo sia e non ti devi mai sentire utilizzato o compatito, l’obiettivo è la riflessione sulla condizione attraverso la cultura che provo a portare, attraverso l’esempio. Sono una regista che guarda e cerca un allineamento sulla parte emotiva, sia con i non professionisti (la maggior parte delle persone con cui lavoro) sia con i professionisti: il principio è “inneschiamo qualcosa di tuo e sii generoso nel metterlo a servizio, se interpreti sinceramente a me non interessa, mi annoia”.

Foto Martina Leo

Il teatro che innesca un senso critico: anche se parli di teatro “emotivo”, è un’idea che nella relazione col “teatro sociale” sembra avere a che fare con un concetto di arte o di teatro politico in qualche modo. Una scelta, a maggior ragione in un momento storico in cui l’impegno, la cognizione, la conoscenza o anche solo l’informazione politica non sono necessariamente percepiti come dovuti o necessari…

La politica che ha fallito o comunque una politica fallimentare incide sull’emozione: crea disastri enormi, periferie buie, delinquenza e povertà e povertà culturale, crea insomma una serie di fallimenti a catena che stratificano la società. Questi si ritrovano in tutto ciò che la politica non vuole farci vedere e che la società stessa spesso non vuole vedere: la violenza di genere o non di genere, le situazioni di marginalità ed emergenza economica, i problemi legati all’immigrazione… Mostrare l’emotività significa mostrare la realtà e gli effetti di tutto questo. Se non ci fosse stato un sistema per molti aspetti fallimentare probabilmente farei un’altra cosa, dico sempre che se fossi nata in Norvegia o in Olanda farei un altro lavoro. Credo che l’unica cosa davvero importante sia l’onestà con cui si affronta qualcosa. Il mio lavoro ha senso nel momento in cui c’è verità e sguardo, una volontà di affermare che la responsabilità è di tutti. La politica siamo noi. Il fallimento si vede se si mostra cosa ha prodotto non solo sul piano sociale, ma ancor prima nella capacità di comprendere e ragionare sulle cose. In questo senso il mio teatro è un atto politico e sociale, nel momento in cui lo faccio. L’anima non si uccide e scavando qualcosa di forte, una risorsa, si trova. Ecco per quale strada sono arrivata a ragionare sulla questione di genere nel mio nuovo progetto, Le Spose di BB.

Cosa è accaduto da quando hai terminato la tua esperienza in carcere?

In carcere ho fatto un percorso meraviglioso in cui, come dicevo, ho sperimentato il mio linguaggio e capito che mi interessava lavorare con l’emotività. Mi interessa ancor più usare il teatro come uno strumento di consapevolezza. A Le Spose di Barbablù partecipano venti o venticinque uomini, che dopo il laboratorio hanno modo di guardarsi “altro” da quello che erano prima. Questo adesso è il tipo di lavoro che faccio sugli attori e che, spero, arrivi al pubblico. Io ci provo continua a essere per me, ripeto, un atto politico e sociale che nella denuncia dei fallimenti attraverso l’arte non si arroga il diritto di dire come dovrebbe essere, ma si mette dalla mia parte, di chi vive, del cittadino, di un’anima; c’è qualcosa che crea dolore, una crepa che non si può far finta di non avere, che deve esprimersi e sono convinta oggi che molte delle situazioni drammatiche, di violenza possano essere superate o migliorate con una politica culturale adeguata. Sono anche fermamente convinta che le periferie abbiano bisogno di una luce: ci sono quartieri senza alcuno spazio ricreativo o di cultura, lì è più facile la delinquenza e l’abbandono. Vorrei che in ogni quartiere ci fosse anche un piccolo luogo, una piccola compagnia incaricata di portare il teatro, il cinema, l’arte. Sembra una banalità, ma possono salvare la vita, fisicamente, e chi lo ha vissuto lo sa. Mi sembra assurdo che non sia così, come mi sembra assurdo che non ci sia un’educazione all’empatia a scuola per la violenza di genere. Il mio sogno sarebbe fare Le Spose di BB con tutte le squadre di calcio italiane, con tutti i poliziotti, tutte cose tipicamente da macho. Mi basterebbero sette giorni di laboratorio, senza fare niente altro che raccontare una storia, in scena con una gonna e un petto nudo.  La cultura può realmente incidere, il teatro più di tutti, perché è fatto dalla persona, è la persona stessa a mettersi in discussione uscendo dalla zona di comfort, è un luogo dove se non sei generoso non arrivi da nessuna parte, se non cerchi la ferita dentro di te non puoi rimandarla. E non vuol dire piangere in scena tutte le sere.

Foto Martina Leo

Come racconteresti il progetto Le Spose di BB?

Le Spose di Barbablù è un progetto che nasce per la sensibilizzazione sulla questione della violenza di genere. Differisce da altri progetti con la stessa matrice perché è coniugato tutto al maschile, non è cioè un lavoro che mette in scena le storie delle donne uccise sul corpo stesso delle donne, bensì sono gli uomini che prestano la propria voce e il proprio corpo alle storie. Queste nascono all’interno di un laboratorio che conduco per sei giorni, aperto solo a uomini dai quindici sino ai novant’anni. Di solito dopo i giorni del laboratorio c’è la messinscena, la performance è più o meno sempre uguale nel suo format, con le variazioni dovute a chi la agisce:  sette spose e quindi sette uomini  (o comunque multipli di sette) raccontano storie di violenza non solamente fisica. C’è una coreografia e dei monologhi, tutto è strutturato in modo corale, loro sono più o meno sempre nello stesso posto ed è come se fosse un’apparizione di donne che vengono da un aldilà. I racconti vengono scritti durante il laboratorio da me con i ragazzi. In una settimana le cose da fare sono tante ma non tantissime, iniziamo a lavorare sullo stereotipo, i primi giorni faccio un gioco con loro quasi da “maschi al bar”, e già al secondo giorno anche quelli che si avvicinano da attori restano stupiti dalla presa di coscienza rispetto al proprio modo di parlare o ai luoghi comuni che vengono fuori nei confronti delle donne e che non sapevano di avere così radicati. Andando avanti chiedo loro di scrivere una storia che conoscono, che hanno sentito: la maggior parte delle volte vengono fuori cose vere, di violenze fatte da loro o da persone che conoscono direttamente; altrimenti c’è sempre l’immaginazione cui attingere. Poi io lavoro un po’ i testi, sempre pezzi abbastanza brevi e magari in prima persona. Imparata la coreografia, si va in scena. Ovunque lo abbiamo portato ha sempre fatto effetto vedere un gruppo di uomini insieme, non solo per dire di no alla violenza sulle donne, ma per dire di sì alla parità di genere. Lavoro sull’incapacità, a volte pure inconsapevole, dell’uomo di ribellarsi alla cultura machista. Tra gli umani non è una questione di salvezza, ma abbiamo bisogno gli uni degli altri, gli incontri nella vita sono importanti. Della fiaba di Barbablù io ho un ricordo nitido di quando ero bambina, la ascoltavo sempre con questo 45 giri nella mia stanza e c’era un passaggio che ritenevo spaventoso, il momento in cui Barbablù torna al castello e si accorge di essere stato scoperto. “Da grande”  ogni volta che chiedevo a qualcuno se conoscesse la fiaba, dicevano di si in pochissimi. Tornava il ricordo che mi aveva colpita o forse traumatizzata, quindi a un certo punto ho deciso che dovevo farci qualcosa.

Com’è nato il progetto concretamente?

Le spose di BB nasce all’interno di un altro lavoro del 2015 realizzato in carcere che si chiamava Happy Birthday Barbablù e che in realtà parlava di altro. Era uno spettacolo  sulla condizione umana di venire al mondo senza libretto delle istruzioni. Il lavoro aveva al suo interno un quadro dedicato alle mogli, quello che poi è diventato un progetto a sè rivolto alla sensibilizzazione, prevenzione e contrasto della violenza di genere. Le Spose di BB racchiude diverse azioni, dal laboratorio alla performance, fino alle incursioni sonore o ai documentari girati durante il laboratorio. Nonostante la situazione, abbiamo deciso comunque di fare una proposta per lo scorso 25 novembre e di utilizzare mezzi di comunicazione alternativi per far arrivare il nostro messaggio, in attesa di tornare nelle piazze e nei teatri. Abbiamo chiesto a tutti i Comuni del Salento di diffondere l’audio di alcuni monologhi per le strade delle città. L’invito è stato accolto da Lecce, Brindisi, Novoli, Carpignano Salentino, Melpignano, Miggiano, Sternatia, Morciano di Leuca e Galatone. Per le scuole, invece, la proposta è stata su piattaforma, 560 studentesse e studenti hanno assistito alla performance virtuale sulla piattaforma scolastica e visto il documentario. Le spose di BB è un’indagine, una ricerca che esplora i comportamenti più diffusi, talvolta inconsapevoli, nella nostra società, ne ricerca e promuove di nuovi per eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni basati su modelli stereotipati dei ruoli, delle donne e degli uomini. Di fatto la costruzione del quadro delle mogli all’interno dello spettacolo originale è stata la mia occasione per confrontarmi direttamente con un tema che era/è ritenuto quasi un tabù dagli uomini e un’ulteriore offesa dalle donne se affrontato in maniera sbagliata. Il viaggio all’interno di Barbablù mi ha portato a scoprire e a sperimentare cosa significasse lavorare con gli uomini sulla violenza di genere, capovolgendo completamente le mie aspettative, e poi quelle del pubblico e degli stessi partecipanti all’esperienza teatrale.  Le spose di BB si evolve e mi stupisce sempre. In questi anni siamo stati abituati spesso a veder affrontare il tema della violenza sulle donne in una dimensione performativa (performances, installazioni, flashmob, simboli) coniugata prettamente al femminile. Le donne in prima fila, le abbiamo viste sfilare nelle città, ballare, le abbiamo ascoltate in convegni e testimonianze, abbiamo visto esporre scarpe e poltrone rosse come simbolo, ma in pochissimi casi sono stati coinvolti i principali autori di crimini e violenza, cioè gli uomini. Si continua a morire assassinate da uomini incapaci di gestire le emozioni e tutti si indignano, ma poi mi sembra che poche cose si muovano. Lo strumento da mettere in campo è l’educazione ai sentimenti e al rispetto dell’altro, qualunque sia il suo genere, ed è chiaro che ci vogliano nuove leggi, un nuovo linguaggio, una nuova cultura della parità, ma anche nuovi modi di informare, comunicare e sensibilizzare. Le Spose di BB è un po’ questo, è una pratica, la mia. La lotta alla violenza di genere riguarda tutte e tutti, dobbiamo impegnarci ogni giorno e ovunque a generare un cambiamento, senza paura di andare contro il modello utilizzato fino ad ora per parlare di femminicidio.

Foto Martina Leo

A cosa stai lavorando adesso? Hai un nuovo progetto?

So lavorando a più cose, ma concretamente ho un nuovo progetto che si chiama Le Donne si Raccontano… modera Nilde Iotti, vincitore del bando regionale Programma Straordinario in materia di cultura e spettacolo per l’anno 2020, partirà a breve. Ad aprile dovremmo cominciare a scuola e nella sezione femminile del carcere di Lecce con due workshop che vertono sulla condizione della disparità delle donne nel mondo. Questa volta è un progetto tutto al femminile. Anche qui c’entra la mia adolescenza, quando da ragazzina mi chiedevano cosa volessi fare da grande la mia risposta era “Nilde Iotti”, senza avere contezza che non fosse un lavoro ma una persona. Il desiderio veniva dal fatto che passavo molte ore a vedere le sedute della Camera in diretta, così potevo vedere mio padre (era un deputato della Repubblica n.d.r.), questo ha fatto sì che imparassi in fretta a dire “Nilde Iotti” e “onorevoli colleghi”. Ora che sono una donna adulta mi piacerebbe entrare nel dibattito, attualissimo, sul ruolo della donna in politica, nella cultura e nella storia di un territorio, e vorrei diventasse lo spunto per sviluppare la finzione scenica del lavoro teatrale. Per ora l’idea è quella di coinvolgere tre attrici professioniste accompagnate nelle prime date da un coro fatto da ragazze di scuole, donne non attrici e alcune detenute. Anche in questo progetto, attraverso i workshop, l’idea è di innescare un processo culturale che possa favorire il senso critico sulla condizione della donna, sulla situazione attuale nel nostro Paese e su quanto ancora ci sia da fare per avvicinarci al resto d’Europa rispetto alla parità di genere. Mi piacerebbe sensibilizzare le generazioni più giovani, e non solo, sul ruolo delle donne nella vita pubblica, sociale e politica, ma anche rendere le donne maggiormente consapevoli dell’importanza di mantenere uno spirito vigile e in grado di comprendere quando agire per essere riconosciute “alla pari”. Le attività cominceranno all’interno dell’Istituto Olivetti di Lecce ad aprile, nella Casa Circondariale di Lecce a maggio. Le prove sono previste in più sezioni tra l’estate e settembre e il debutto, a Lecce, dovrebbe essere tra ottobre e novembre. I partner di progetto sono tantissimi: dal Comune di Lecce a quello di Latiano (Brindisi), dal Festival delle Donne e dei Saperi di Genere (Bari) al il Teatro Pubblico Pugliese, dall’Istituto Olivetti alla Casa Circondariale Borgo S. Nicola, e poi i miei “fratelli” di Factory Compagnia Transadriatica e varie associazioni leccesi come Trasparent, Collettiva, la Casa delle donne e Palchetti Laterali.

Come hai vissuto il momento della chiusura dei teatri e come stai attraversando questo tempo di sospensione?

Alla mancanza di un luogo fisico ideale per creare ci sono abituata, per me è sempre stato quasi normale non avere un teatro dove provare, ma non ero abituata alla creazione senza il confronto con l’altro, senza guardarsi da vicino, toccarsi, abbracciarsi e scansarsi. La solitudine non scelta è quasi insopportabile, ho riflettuto sul fatto che la mia generazione non è mai stata chiamata a fare qualcosa di grande per la storia e questa volta veniva chiamata ad affrontare una cosa enorme solo stando a casa, quindi all’inizio mi sono sentita utile pur non facendo niente e poi ho messo in ordine un pochino la mia vita, che negli ultimi anni è cambiata moltissimo.

Marianna Masselli

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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