Intervista. Il progetto Clessidra è giunto nella scorsa estate del 2020 alla sua settima edizione. Dopo aver preso parte al programma di Matera Capitale Europea della Cultura 2019, ha abbandonato le marine dell’Arco Ionico per approdare a Taranto. Abbiamo intervistato Erika Grillo, interprete e direttrice artistica del progetto per ricostruirne il percorso e l’evoluzione.
Come si potrebbe raccontare l’esperienza di Clessidra Teatro? Come è nata e come si compone oggi?
Siamo “nati” nel 2014, come un progetto ideato da me sulla spinta di una collaborazione con l’associazione culturale Reset, fondata a Chiatona visti anche i bandi della Regione (Puglia n.d.r.) di Principi Attivi. L’associazione si occupava in particolare della rigenerazione delle marine dell’Arco Ionico, immediatamente vicino Taranto, a ridosso della zona industriale. Facevo parte dell’associazione, gli altri erano ingegneri, architetti, designer, tutti della provincia di Taranto. Ero l’unica che si occupava di teatro, in quanto attrice presso il Teatro Koreja, e già allora curatrice del Teatro dei Luoghi Festival per due anni consecutivi. Avevo suggerito di condurre questa ricerca per le marine dell’Arco Ionico insieme ad alcuni artisti, alcuni attori e narratori, i ragazzi di Reset volevano recuperare le storie degli abitanti, dei componenti della comunità. Si aveva a che fare con una materia particolare come l’oralità, la narrazione, il recupero di aneddoti, relazioni legate ad alcuni luoghi. Il primo anno gli attori avevano il compito di stare insieme agli abitanti di questa piccola comunità, di ascoltare le loro storie e drammatizzarle per una grande festa-spettacolo che aveva luogo nel paese alla fine dei lavori di ristrutturazione del lungomare, un capocanale in cui il cantiere veniva aperto alla città e tutte le storie venivano interpretate dagli attori, AL MARE. Racconti di un luogo. Fu un momento molto bello, caldo, per gli abitanti penso sia stata anche un’emozione nuova, un bellissimo dono, un regalo. Avevo bisogno di coinvolgere la residenza artistica del territorio, il Teatro delle Forche, che ha accolto e sostenuto il progetto, dandoci modo di fare le prove nel teatro. Volevo un attore e un narratore che si intendesse di questa pratica e invitai Fabrizio Saccomanno, lui curava tutta l’équipe degli attori, i racconti, l’oralità. L’estate successiva con lo stesso nucleo di attori ci dicemmo di ritentare e di abitare la stazione ferroviaria. Nacque così la seconda edizione, BINARI. Racconti di viaggio, anche questa curata da Fabrizio Saccomanno a cui avevo chiesto di stare con me nella regia, in quegli anni lavoravamo sempre insieme anche presso Koreja, un posto che mi ha insegnato, a cui devo tantissimo, e che in qualche modo mi stava formando a portare avanti un progetto culturale in un altro luogo. Nel 2016, il terzo anno, incontrai Gigi Gherzi (Gianluigi n.d.r.) in Basilicata e decisi di invitarlo a Chiatona. Il concetto restava lo stesso, scegliere un luogo che avesse a che fare con l’indagine anche degli urbanisti, con una storia di conflitto, di degrado e con una tematica ambientale: la pineta in cui facemmo questa terza edizione era sfuggita alla speculazione edilizia. Nel 2017 abbiamo fatto Dune. Sentieri possibili, arrivavamo al mare da Chiatona, un mare negato da cui si vede benissimo la parte industriale di Taranto con tutte le gru del porto mercantile, le ciminiere… C’era già un affondare in drammaturgie e testi collegati a Taranto, io e gli altri (Giorgio Consoli, Andrea Dellai, Erika Grillo, Ermelinda Nasuto, Chiara Petillo, Fabio Zullino, Vincenzo Di Pierro, Walter Pulpito) sentivamo esaurirsi i luoghi possibili di quella marina e man mano avvicinarsi, “mare mare”, la città: Chiatona era nata negli anni Venti del Novecento come un luogo stupendo dove andare a fare i bagni per poi diventare posto dove non andare assolutamente a partire dagli anni Sessanta, all’arrivo della fabbrica (ILVA, n.d.r.). Con Gigi Gherzi abbiamo fatto due edizioni consecutive (2016 e 2017) ed è diventato parte di casa Clessidra e mi ha consentito anche di avere un taglio nazionale: con lui è arrivato uno sguardo da Milano rispetto a quei luoghi, un’alterità, completamente diversa, ha portato un modo di dire e raccontare le cose che noi, che le viviamo e le abbiamo costantemente sotto gli occhi e nel cuore come una radice non avremmo potuto avere. Nel 2018, invece, Fabrizio e Gigi, dopo essersi conosciuti a Chiatona, iniziarono a lavorare insieme, e così portammo a casa anche LIDI. La festa perfetta, in uno stabilimento balneare di epoca fascista, una loro coregia. Nel 2019 decidemmo di espugnare l’ultima “roccaforte” rimasta a Chiatona, due alberghi abbandonati, uno accanto all’altro, di proprietà di un ottantacinquenne che vive lì solo, dentro due alberghi di più di cento stanze, una storia incredibile. Ho chiesto a Nicola Borghesi ed Enrico Baraldi di Kepler 452 di stare con noi per aiutarmi con ALBERGHI. Una tremenda ostinazione. È stata una scoperta, infatti l’estate scorsa, sono tornati. Abbiamo ospitato il loro Lapsus Urbano, lo abbiamo portato a Taranto, sulla rotonda del lungomare. Ci siamo messi a lavoro per un adattamento site specific, (LAPSUS URBANO. Il primo giorno possibile a Taranto).
A cosa state lavorando ora?
Dopo i giorni di Lapsus abbiamo cominciato questa incredibile ricerca per cui siamo ancora a metà del percorso. Ci siamo detti, arrivando a Taranto, di provare ad allargare il collettivo di ricerca, per capire cosa succede al processo artistico una volta aperto a più persone, a più realtà, ai comitati, alle associazioni di quartiere. La volontà di tirar dentro questi testimoni, che abbiamo chiamato “angeli custodi”, era la volontà di richiamare la complessità che Taranto è, un modo per non farla troppo facile, perché non sarebbe giusto in un momento storico del genere, un modo per raccontare i mille volti di una città incredibilmente frammentata ma anche sfaccettata, un caleidoscopio. Abbiamo “iniziato” un grande cantiere e lo abbiamo chiamato Prima della Fuga, mira al debutto nell’estate 2021, una produzione curata e prodotta dal Teatro delle Forche, che non smetterò mai di ringraziare perché può capitare spesso di incontrare dei maestri, non tutti però ti permetteranno di fare i tuoi giochi. Se molti dessero queste possibilità ci sarebbero diversi fermenti e tantissime cose nuove, in questo Giancarlo Luce (direttore del Teatro delle Forche) è una persona meravigliosa e di grande delega, di grande apertura, c’è sempre e non è affatto scontato oggi nel sistema teatrale italiano. Molti mi chiedono perché non ci costituiamo a livello legale. Non è accaduto proprio perché avevamo il Teatro delle Forche, con la sua esperienza trentennale, a dare a Clessidra come progetto di teatro dei luoghi la possibilità di essere supportati, restando però liberi di sperimentare. Clessidra non è una compagnia, è un progetto che viene curato nel solco del Teatro delle Forche e ha intorno persone che arrivano da tutta Italia e si riuniscono attorno a quell’esperienza specifica, è molto strano definirla, ma è il bello delle cose nuove: nascono e magari non hanno in precedenza esempi similari.
In un caso come il vostro è impossibile prescindere dal rapporto con il territorio, inteso sia come tessuto socio-culturale che come substrato paesaggistico; una relazione con il luogo come spazio fisico e come concetto. Una realtà figlia di un forte ancoramento e che a un certo punto ha sentito l’esigenza di un’alimentazione esterna. Nel vostro modo di affrontare l’esperienza performativa e teatrale si ritrova un intento “politico” che implode ed esplode fortemente in riferimento al luogo di riferimento e alla sua semantica…
Esatto. Ecco perché parlavo di un luogo conflittuale, di qualcosa che avesse a che fare anche con quanto del luogo vorremmo cambiare, quindi con uno slancio di utopia se vogliamo. Seppure temporaneo, nomade, votato anche all’impermanenza. Spettacoli come quelli di Clessidra, analizzati dal punto di vista economico, sono uno “spreco”: non sono destinati alla riproduzione, non sono pensati per essere replicati in un altrove, perché non potrebbero, la loro unicità è legata all’idea di luogo che dicevi e alla possibilità di essere manifestazione del suo spirito. Soprattutto in questo momento, nel cantiere Prima della fuga con gli angeli custodi e testimoni, il teatro si fa strumento e l’essere cittadini si fa teatro, per portare istanze politiche, una voce che richiama quell’agorà che forse manca ora ancora di più. Sono convinta che la matrice profonda di questa spinta, oltre la mia personale e manifesta militanza politica (inerente alla chiusura della fabbrica), ritorni in tutte le cose che stiamo mettendo a fuoco in questo momento ed è molto interessante il fatto che ci siano occhi da fuori che hanno sentito parlare di Taranto e magari non ci sono mai stati. Quanto cambia per noi, lasciare che quegli sguardi siano il filtro della realtà, in parte la nostra visione è assuefatta. Qualcosa che so, che conosco, che a volte vorrei che non mi venisse più ribadito, una rimozione, però anche una resistenza. Ecco perché Prima della Fuga: chiedersi qual è il rito che questa città dovrebbe compiere prima che tutti se ne vadano. C’è una generazione a Taranto che non ha nessuna intenzione di viverci, sono i ragazzi di diciotto o diciannove anni e non vedono l’ora di andar via per la questione della salute. Una fuga sofferta e indotta seppure necessaria da una parte, dall’altra la grande “restanza” di quelli che rimangono e lottano. Se la responsabilità è sempre degli altri la politica non esiste, la Politica sono anche “io”, la Politica è quello che scegli di curare o di cui non curarti. Alcuni esempi oggi dimostrano come ci sia modo di prendere il teatro e metterlo al centro in quanto possibilità di innesco di una relazione, possibilità per i cittadini di tornare alla dimensione politica che hanno perso, il rispecchiamento per cui lo spettatore guarda l’attore parlare e ritrova se stesso sentendosi completamente colpevole, in una forma anche tragica e spietata, quella dinamica, quel meccanismo che è solo del teatro come arte e oggi è forse il più necessario. I ragazzi non entrano nel teatro come contenitore, dal punto di vista architettonico, è difficilissimo oggi, ne sono poco attratti, forse perché non lo conoscono. Allora può esistere un teatro che ritorni a farsi centro, per strada, in piazza dove stanno loro? Lo abbiamo fatto quest’estate con le assemblee plenarie, a Porta Napoli, in un piazzale dove si riuniscono con le birre, davanti a un ex sala ricevimenti gigantesca. Era importante che parlassimo da lì perché quando i testimoni di Taranto prendevano la parola era un’assemblea pubblica, creava immediatamente un cortocircuito, calamitava un silenzio e un ascolto. Se il teatro può essere lo strumento affinché questo accada è il momento, è ora.
Tra impegno politico, territorio, possibilità logistiche, il vostro lavoro, diventando teatro, cerca nella dimensione espressiva una poetica, o probabilmente la trova di fatto, quasi “involontariamente”. Come pensi di poterla definire?
Credo che si sia definita e si plasmi di volta in volta grazie a un discorso sempre molto orizzontale fra noi. Io certo sono sempre in prima linea, curare la direzione artistica e tenere tutte le tessere del mosaico è un ruolo, ma il dialogo e il confronto sono veramente orizzontali, abbiamo i nostri riti, le riunioni settimanali tutti i giovedì per mezza giornata, anche on line in questo periodo incredibile. Credo però di poter dire che la poetica di Clessidra non possa prescindere dal luogo e dal sistema di relazioni che ospita e riverbera nella sua accezione di grande universo di voci, conflitti, persone, strade, piazze, albe, tramonti… Non è un caso che dal punto di vista del lavoro la nostra sia un’esperienza sempre totalmente immersiva. La nostra grande apertura, essere una comunità porosa, del tutto permeabili, trasparenti è parte della poetica. Questo agli occhi di alcuni artisti e colleghi è risultata una possibilità che forse altrove non c’è. La domanda che faccio e che mi faccio è: “cosa vuol dire essere artisti oggi e con quali responsabilità?”. Il nostro modo attiene a una spinta politica dal basso.
Come vi relazionate al concetto di periferia culturale?
Io ho la percezione che questa sia un po’ una periferia, mi muovo tantissimo per vedere quello che mi interessa, nel desiderio di poterlo poi magari portare qui, come accaduto con i Kepler. Il margine, la soglia è però duplice, ha un mutuo vantaggio: devi muoverti per cercare e trovare quanto ti interessa, ma il fatto che non ci sia offre un terreno assolutamente fertile per possibilità sempre viste come novità e dà la spinta. Questa “verginità” in qualche modo è bella, molto più incosciente, c’è l’emozione della prima volta, c’è il rischio, qui è più un azzardo che altrove, ma accade, ci sono dimensioni folli di utopia possibili.
Come avete attraversato e vissuto questo tempo di sospensione e come ha inciso sul vostro lavoro?
Il fatto di poterci concentrare e concedere di fare un adattamento del Lapsus a Taranto nel 2020 ha fatto in modo che noi vedessimo subito uno spiraglio. Ci siamo adattati, abbiamo continuato usando le videocall e internet. A novembre avremmo dovuto fare in presenza la seconda parte del cantiere di Prima della Fuga, non potendo abbiamo pensato una residenza digitale di due giorni e dodici ore di lavoro davanti al computer, con le stanze, le linee da seguire per imbastire una drammaturgia collettiva, per quanto non sia la stessa cosa. Ma ce la siamo concessa e anche studiata e architettata: è stato interessante, abbiamo fatto videochiamate anche di cinquanta persone, tutte lì, le stesse con cui avevamo iniziato a lavorare quest’estate. Abbiamo risposto creando una possibilità. Poi è chiaro che tornare a casa ci manca, tornare a teatro ci manca, il fuori ci manca, l’esperienza del mondo ci manca, per noi è sostanziale. Ma mi viene da dire che questa pausa, questa stasi, potrebbe consentirci di tornare con più forza ancora, voglio pensare che sia così.
Marianna Masselli