Recensione. Al Teatro dell’Opera di Roma Mario Martone mette in scena per la Rai (una collaborazione tra l’ente lirico e Rai Cultura) il barbiere di Siviglia. Su Rai3 la trasmissione ha raggiunto uno share del 4 per cento e 654mila spettatori per il primo atto, nel secondo 681mila telespettatori con il 3,6 per cento di share. La replica verrà trasmessa il 31 dicembre 2020.
Sono le 16.15 spaccate quando ha inizio Il barbiere di Siviglia nel nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma, in onda su Rai 3. Niente presentazioni, niente inutili disclaimer. Iniziamo così, a schiaffo, con un preludio a orchestra “mascherata”: tutti in mascherina nera come fosse (e, purtroppo, lo è) la cosa più normale del mondo. Ci intristisce vederli così, e rivederci qdi rimando, ma subito passa. Basta che entri in scena Fiorello con la mascherina e inizi a cantare “Piano pianissimo senza parlar” per poi togliersela appena scopre che “nessun qui sta”: scappa giù il primo sorriso, solo il primo dei tanti riferimenti ironici, intelligenti, pungenti al Covid di questa regia di Mario Martone. Si entra a gamba tesa in quello che sarà un Barbiere tutt’altro che visto, tutt’altro che abituale, come i tempi che stiamo vivendo.
Inizialmente, per questo spettacolo si era parlato di film opera e con Martone regista cinematografico. Eppure, di cinema ce n’è poco, così come non c’è nessuna traccia di certi posticci e un po’ demodè film opera tutto set e poco realismo. Quello che c’è invece, letteralmente, è il teatro. Il Teatro dell’Opera di Roma, dolorosamente vuoto: è prima Siviglia, con la platea come piazza e i palchetti le finestre dei palazzi da cui si canta (vi ricorda qualcosa?), per poi diventare la casa di Don Bartolo e la camera di Rosina. Non c’è scenografia, non c’è niente, se non i costumi dei cantanti, a farci capire che siamo nell’800 rossiniano. Sembra quasi che i personaggi del Barbiere si siano animati durante la notte e abbiano preso possesso, finalmente, di quello che gli spetta da sempre: il teatro.
E poi, il coup de théâtre avviene in video, anziché in teatro: arriva Figaro, in scooter con una bacinella sottobraccio, mentre passano i titoli di testa. In tuta, col giacchetto da motociclista, Andrzej Filończyk corre per le vie di Roma a sbrigare le sue “faccende”, ebbene sì, accompagnato dal suo direttore Daniele Gatti, alla guida del suddetto scooter, direttamente in frac. E mentre siamo impegnati a ridere di fronte a questa scena esilarante, Figaro arriva davanti al teatro, dribbla Fiorello e, di gran corsa, si fa vestire e truccare al volo dalle maestranze, per entrare in scena cambiato, letteralmente e figurativamente: Figaro non è quello che vediamo in abiti d’epoca, ma è il centauro “intrallazzino” che si trasforma nella sua versione “in maschera” per ordire il suo prossimo inghippo. Questo è il vero incipit dell’opera per il regista, ciò che è venuto prima era solo un’introduzione.
Il resto, è una ben studiata operazione di montaggio. Questo sicuramente facilita la vita di cantanti e orchestrali, che si sono trovati a fare e rifare fino al massimo risultato possibile, a discapito però di qualsiasi residuo di liveness. Martone, tra lo scegliere di replicare il più possibile (e invano) l’esperienza dal vivo e il creare qualcosa di lontanissimo dallo spettacolo teatrale consono, nuovo, ma che allo stesso tempo colga l’essenza base del teatro dell’opera, sceglie la seconda strada. In questo modo la “finzione” del teatro è ricreata al massimo e negata allo stesso tempo. Il montaggio annulla l’entrata e l’uscita dei cantanti, i cambi scena, e tutto ciò che è proprio della rappresentazione d’opera (persino le stecche), ma le costumiste che cambiano il conte a scena aperta (del resto, quale scena se la scena non c’è?), le sarte che cuciono l’abito di Rosina su di lei, le inquadrature sulla macchina del vento e sugli altri rumori che avvengono solitamente fuori scena, sono quanto di più teatrale esista: il dietro le quinte, fatto di centinaia di persone, vere, senza costume, che lavorano ogni sera, anche loro come i cantanti.
Noi pubblico siamo dei voyeur che guardano dal buco della serratura del nostro divano una prova aperta, una magnifica prova aperta, peraltro, divertentissima. Già, perché, come se non bastasse, il più grande pregio di questo Barbiere è che fa proprio ridere, davvero. Non quel sorriso composto, che montiamo di solito di fronte alle gag rossiniane riproposte tout court senza un minimo di lavoro registico di ricontestualizzazione, ma delle vere e proprie risate a crepapelle. A cominciare da Figaro in scooter, per passare alla lezione di canto del Conte sotto mentite spoglie a Rosina, accompagnati da un Don Bartolo narcolettico, fino al culmine di comicità quando, nel tentativo di imbrogliare Don Basilio, tutti gli dicono che è malato e ha la febbre: Gatti estrae e sorpresa il termometro-pistola, gli “spara” e tutti indossano le mascherine.
Come solo Gioachino Rossini sapeva fare, l’opera è in grado di innescare una vasta gamma di emozioni: oltre a ridere si pensa di un pensiero senza peso, senza retorica. La casa di Don Bartolo, come abbiamo detto, è la platea stessa, ma per differenziarla dalla piazza, quest’ultima è stata completamente legata. Il teatro diventa un intrico di funi, che rimandano alla costrizione di Rosina nelle grinfie di Don Bartolo, certamente, ma anche al teatro di oggi, legato, intrappolato, ma anche puntellato, tenuto insieme da quei nodi che ci legano a quest’arte. Ci si diverte, si pensa e, sì, ci si commuove. Nel momento di confusione totale, durante il concertato finale del I atto, arrivano come flash delle immagini di un pubblico in sala al Costanzi: Anna Magnani, Gina Lollobrigida, Maria Callas alle prime che furono, poetici spezzoni in bianco e nero, un’ombra di pubblico che (per ora) può esistere solo così, evocato nel ricordo. Ma l’emozione più grande arriverà solo sul finale, con una liberatoria catartica semplicità quando tutti – cantanti, maestranze, orchestra – con un paio di tenaglie in mano, inizieranno a far saltare le funi che tenevano legato il teatro. Finalmente liberi, noi, loro, tutti: un augurio, un desiderio, una speranza.
Il suono di Daniele Gatti è modernissimo e dove dovrebbe essere solo veloce diventa velocissimo, senza lasciarci stupiti di fronte a qualche stranezza delle sue, come l’attacco lento del finale primo. Il polacco Andrzej Filonczyk è un Figaro solido e sicuro di sé, non troppo pompato, né smanioso di dimostrare le sue doti vocali nella cavatina e molto in parte. Una bella rivelazione la Rosina di Vasilisa Berzhanskaya, che porta a casa una buona performance vocale, oltre a dimostrare un physique du rôle invidiabile. Bene anche Ruzil Gatin nel ruolo del Conte e Roberto Lorenzi in quello di Fiorello, che si fa notare pur nel piccolo ruolo da comprimario. Ma le vere star della serata sono Alessandro Corbelli e Alex Esposito, rispettivamente il Don Bartolo in sedia a rotelle e l’eccentrico Don Basilio: su di loro grava gran parte della comicità della serata ed entrambi, bravi attori e ottimi cantanti, portano a termine il compito con incredibile facilità.
Flavia Forestieri
4 dicembre 2020, Rai 3. In replica il 31 dicembre
Il barbiere di Siviglia
Musica Gioachino Rossini
Opera buffa in due atti
Libretto di Cesare Sterbini
dalla commedia omonima di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais
Prima rappresentazione assoluta,
Teatro Argentina di Roma, 20 febbraio 1816
DIRETTORE Daniele Gatti
ISTALLAZIONE E REGIA Mario Martone
MAESTRO DEL CORO Roberto Gabbiani
COSTUMI Anna Biagiotti
LUCI Pasquale Mari
PRINCIPALI INTERPRETI
CONTE D’ALMAVIVA Ruzil Gatin
ROSINA Vasilisa Berzhanskaya
DON BARTOLO Alessandro Corbelli
FIGARO Andrzej Filończyk
DON BASILIO Alex Esposito
BERTA Patrizia Biccirè
FIORELLO Roberto Lorenzi
AMBROGIO Paolo Musio
UN NOTAIO Pietro Faiella
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma