Intervista collettiva alla direzione di artisti del Mercurio Festival 2020, a Palermo fino al 3 ottobre.
Mi risuona una definizione di Frie Leysen, figura fondamentale del teatro europeo, che più che curatrice, preferiva definirsi “programmatrice”, perché nella sua esperienza il curatore – riporta Massimo Marino in un suo articolo a pochi giorni dalla scomparsa – mette al centro se stesso, mentre il programmatore dà innanzitutto priorità agli artisti e alle loro visioni.
Questa scelta radicale risuona – sebbene con parole diverse – nella scelta altrettanto radicale del Mercurio Festival, realtà palermitana che, nelle parole di Giuseppe Provinzano è nata con l’intento di creare una “comunità che si riconosce in un festival e nella sua direzione […] ragionando sulle direzioni artistiche e sul ruolo degli artisti in queste direzioni”, dunque in uno spostamento dall’individualismo del direttore (o curatore, come nel caso di Leysen) a una collettività sempre più allargata.
Proviamo a raccontare allora in cosa consista questo cambiamento di stato: nell’edizione zero, Provinzano insieme alla sua Babel Crew, ha selezionato diciassette artisti tra teatro, danza, musica, istallazioni e videoarte, lasciandoli liberi di declinare la loro presenza nella modalità che più sentivano adatta, in un invito che poneva stima e fiducia sull’artista in tutta la sua organicità, e non su uno specifico progetto. L’anno successivo, questo, è toccato a quegli stessi artisti estendere ciascuno l’invito ricevuto l’anno precedente e indicare un collega cui affidare il testimone nella seconda stagione.
Mercurio si consolida una dimensione duplice, quasi come se ogni edizione duri non uno ma ogni volta due anni, in una catena che lega precedente e successivo e dove il singolo artista assume su di sé in un primo passaggio delle scelte consone al proprio lavoro (scegliendo se presentare progetti conclusi o laboratori, per esempio) e nel secondo scelte curatoriali e direttive.
Per capire l’efficacia o meno di questo esperimento che mette a sistema una pratica non certo nuova se presa da sola, ma che diventa un cambio decisivo di rotta nel momento in cui diventa programmatica, abbiamo posto agli artisti dell’edizione 2019 alcune questioni sul senso di questa presa di responsabilità che implica un pensiero verso il contesto in cui far approdare l’opera scelta, in un dialogo tra territori artistici, geografici, sociali e umani.
Alla nostra inchiesta hanno risposto Giorgio Canali, Ippolito Chiarello, Babilonia Teatri, Compagnia Carullo Minasi, Turi Zinna (da qui riportati tramite iniziali), che abbiamo deciso di raccogliere assieme agli scambi di riflessioni con Provinzano stesso, tra gli ideatori di Mercurio, facilitatore di un processo virtuoso e ben accolto nonostante le doppie difficoltà a cui sta andando incontro questo esperimento. «Se da una parte la situazione di emergenza ha imposto ovunque un ridimensionamento dei posti, è pur vero che in Sicilia non è consueto un modello di festival con spettacoli ogni giorno, come avviene in altre regioni; sicuramente ne vedremo i frutti nel medio periodo» (GP).
Per ora, quello che emerge è sicuramente un invito che ha raccolto risposte entusiaste e spesso anche sorprese ed emozionate da parte degli artisti, i quali conoscono bene le «ingessature dei sistemi stagionali e delle tournée» (IC). Considerano quanto «nel tempo si sia persa la reale funzione della direzione» (CM, BT) e dunque vedono questa possibilità come un «esperimento importante per ribadire e stimolare la necessità e l’estrema utilità della collaborazione tra i vari “attori sociali” che definiscono le programmazioni. L’obiettivo è quello di fare delle scelte sempre più puntuali, relativamente alle nuove proposte spettacolari che in Italia si sviluppano a volte al buio» (IC) e avere uno sguardo a 360° sui territori e sulle tematiche da sviluppare» (BT). Sistema questo che, mentre nel settore performativo è ancora abbastanza osteggiato, nel panorama musicale, invece appare molto più «naturale», nella volontà più consolidata di «voler far rete con persone che gravitano nello stesso universo o in universi molto vicini» (GC), dunque senza spaventarsi né dell’alterità tra soggetti, né delle differenze possibili tra settori.
Nella visione degli artisti coinvolti, questa via sembra imporre un «abbandono delle frustrazioni personalistiche, al posto di una presa di responsabilità nel definire un percorso, per far diventare il proprio sguardo, che dunque diventa scelta, molteplice, nella rifrazione destinata ad un pubblico di spettatori» (CM). Un processo che è dunque contemporaneamente rinuncia e potenziamento, una pratica in cui «la semenza non è tua, le chiedi di germogliare per ciò che è, in un terreno che il proprietario ha rinunciato a recintare; un terreno nel quale altri coltivatori sono chiamati alla stessa responsabilità» (TZ).
Un altro aspetto che inizia ad emergere, soprattutto negli sguardi di chi ha accolto e discusso le proposte, è che già l’invito dica qualcosa della direzione interna degli artisti stessi. Aperture a nuovi percorsi: come per esempio quello voluto da Mimmo Cuticchio, che, anziché protendere verso un cuntista o un puparo, sceglie invece un giovane musicista che si occupa di musica colta, Giuseppe di Bella; apertura sui generi si ritrova anche nel percorso indicato da Giorgio Canali con Aleph, che, oltre ad essere musicista è anche attore; o in quello delineato da Carullo Minasi verso il teatro per le nuove generazioni di Tonio De Nitto, in «un percorso a ritroso nei vicoli dell’infanzia per ritrovare il senso di ogni timore che giustifica il volere stare in vita» (CM). Scelta più emotiva quella di Marco D’Agostin che nell’aver chiamato Chiara Bersani, rivela legame e estrema vicinanza. Babilonia Teatri, nella motivazione alla presenza di Enrico Casale, rispondono sottolineando la stima pluriennale per un «lavoro che si sviluppa nel tempo, nel lavoro quotidiano.
Un lavoro che ha nella formalizzazione spettacolare solo un capitolo e una parte di una ricerca che non si ferma mai, che si innesta e si fonde con la vita, e che riguarda più che la tecnica le persone» (BT). Anche Zinna dichiara una conoscenza ormai decennale con i catalani Kónic Thtr, il cui punto di forza, già nei primi Duemila, individuava nelle incursioni tra dimensione poetica, coreutica e multimediale. Chiarello, agendo quasi da “talent scout” ha scoperto «una vicinanza di percorso artistico, di pratica di palco e di formazione di comunità teatrale in luoghi extra teatrali» con le Sementerie Artistiche, ritrovando nel loro progetto l’impegno «alla ri-costruzione di un pensiero fondante dell’essere artisti» (IC).
«Ridisegniamo la nostra immagine dello spazio come una continuazione del nostro mondo interiore, una nuova sede della mente. E se presupponiamo che drammaturgie e scritture sceniche siano consustanziali agli spazi, agli edifici teatrali, ai rapporti sociali e politici vigenti nelle comunità di cui sono contemporanei, dove mai potrà aver luogo nella nostra era l’agone tragico? Linguaggio, arena e relazione politica: su questo groviglio ritengo che sia indispensabile focalizzarsi; sulla possibilità di risocializzare, ripoliticizzare questo rapporto solipsistico tra individuo e questa sorta di gigantesco io/universo in cui esistiamo in uno stato puramente disincarnato, trascendente; in cui siamo informazioni, modelli di parole e idee» (TZ).
Viviana Raciti
Mercurio Festival, 25 settembre – 3 ottobre 2020