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Teatrosofia #110. Socrate, accusatori teatrali e riscatti postumi

Teatrosofia #110. Tra gli accusatori che condannarono Socrate anche il tragediografo Meleto. Tra calunnie, invidie di categoria e un piccolo riscatto per il teatro

IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO.

Ophelia and Laertes, by Benjamin West, 1792

L’Apologia di Socrate di Platone racconta che Cherefonte, discepolo di Socrate, andò all’oracolo di Apollo a Delfi per sapere dal dio chi fosse l’essere umano più sapiente. La Pizia rispose in modo sentenzioso che «Nessuno è più sapiente di Socrate». Apparentemente semplici, queste parole furono considerate un enigma dal filosofo. Socrate riteneva di non sapere nulla e cominciò quindi una ricerca al limite dell’empietà religiosa. Può darsi che Apollo si fosse sbagliato e che esistessero altri uomini ben più sapienti di lui. Socrate interrogò dunque tre grandi categorie di persone che si arrogavano di possedere una sapienza su qualcosa: i politici, gli esperti in una precisa tecnica e infine i poeti tragici e comici. Al termine della sua indagine, però, il filosofo confutò tutto il presunto sapere di queste persone e, per estensione, comprese perché l’oracolo di Delfi vaticinò che «Nessuno è più sapiente di Socrate». Il motto significherebbe che il filosofo era l’unico che era consapevole di non avere la sapienza che possiedono solo gli dèi.

Sempre stando al racconto platonico, sappiamo che questo proposito di Socrate fu una delle cause che lo portarono al processo per cui fu condannato a morte dagli Ateniesi. Ciò che a noi interessa in tal sede è che, tra gli accusatori, vi fu Meleto. Figlio di un tragediografo e a sua volta autore di tragedie, egli catalizzava, secondo Platone, il malcontento dei poeti di teatro. Meleto depositò l’atto di accusa infondata che Socrate corrompeva i giovani e introduceva nuove divinità, che fu poi tramutato in un discorso polemico dal sofista Policrate. Il suo obiettivo segreto non era il bene degli Ateniesi, bensì la vendetta personale. Poiché dimostrò che il gruppo dei teatranti a cui appartiene lo stesso Meleto non sapeva nulla di rilevante, Socrate doveva pagare con la morte per il suo affronto contro l’intera categoria professionale.

Ignoriamo d’altro canto chi pronunciò il discorso di Policrate. Diogene Laerzio riporta il parere di Favorino secondo cui a farlo fu un ignoto di nome Polieucto. Un’epistola attribuita a un altro discepolo di Socrate, ossia Eschine di Sfetto, testimonierebbe, invece, che fu Meleto stesso a recitare il discorso di Policrate – e per giunta in modo maldestro, meccanico, dimenticando battute e chiedendo aiuto a un suggeritore, insomma con una recitazione indegna di un tragediografo che invece dovrebbe manifestare dimestichezza e cura sulla scena. Questa comica testimonianza è molto più interessante della prima, ma è di dubbia storicità, in quanto fa parte della raccolta delle cosiddette “epistole pseudo-socratiche” scritte da falsari o imitatori successivi. Tuttavia, non è nemmeno possibile escludere del tutto la fondatezza parziale di questa notizia, almeno stando ad alcune fonti parallele su Eschine. Esse riportano che tale discepolo di Socrate era solito dileggiare con gli strumenti della commedia i suoi avversari, o anche che frequentò il comico Cratino nel periodo in cui visse alla corte di Dionisio. Se dunque la testimonianza è in parte affidabile, si può aggiungere che Eschine usi le armi del comico per difendere il suo maestro. Dopo tutto, chi darebbe credito a un discorso di accusa che il suo stesso sostenitore dimentica a tratti e recita davvero male?

L’episodio in questione ci mostra, su un piano più astratto, un conflitto tra filosofia e teatro, dove si ravvisa un carattere ambiguo da entrambe le parti in gioco. Socrate assume il ruolo di critico alle pretese conoscitive dell’arte e al contempo di martire della vanità degli artisti. Meleto si presenta di contro come un difensore di un’intera categoria professionale e insieme come un calunniatore di un filosofo forse invadente, ma onesto. Qui è insomma arduo capire chi sia la vittima e chi il carnefice. Socrate non sarebbe stato perseguitato se non avesse attaccato per primo i poeti di teatro, e questi non avrebbero cercato vendetta se avessero ponderato meglio le critiche di questo filosofo.

Il divorzio tra filosofia e teatro finì tuttavia con un riavvicinamento postumo. Stando infatti alle parole di un anonimo filologo, che sintetizza il contenuto del Busiride di Isocrate e il suo contesto storico, gli Ateniesi prima si pentirono di aver messo a morte Socrate, poi condannarono a morte o all’esilio Meleto e gli altri calunniatori, infine vietarono che nei teatri si facesse menzione di questo evento funesto. Euripide fece però un’allusione criptica alla morte di Socrate nel perduto Palamede, con la metafora del sapiente-usignolo delle Muse ucciso ingiustamente. Gli Ateniesi intesero e proruppero in un pianto disperato. Il teatro che aveva allora causato la morte di Socrate risultò alla fine, e paradossalmente, lo spazio in cui venne allestito l’omaggio più commovente a tale filosofo.

Enrico Piergiacomi

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Della mia sapienza, se davvero è sapienza e di che natura, io chiamerò a testimone davanti a voi il dio di Delfi. Avete conosciuto certo Cherefonte. Egli fu mio compagno fino dalla giovinezza, e amico al vostro partito popolare; e con voi esulò nell’ultimo esilio, e ritornò con voi. E anche sapete che uomo era Cherefonte, e come risoluto a qualunque cosa egli si accingesse. Or ecco che un giorno costui andò a Delfi; e osò fare all’oracolo questa domanda – ancora una volta vi prego, o cittadini, non rumoreggiate. Domandò se c’era nessuno più sapiente di me. E la Pizia rispose che più sapiente di me non c’era nessuno. Di tutto questo vi farà testimonianza il fratello suo che è qui; perché Cherefonte è morto. Vedete ora per che ragione vi racconto questo: voglio farvi conoscere donde è nata la calunnia contro di me. Udita la risposta dell’oracolo, riflettei in questo modo: «Che cosa mai vuole dire il dio? che cosa nasconde sotto l’enigma? Perché io, per me, non ho proprio coscienza di esser sapiente, né poco né molto. Che cosa dunque vuol dire il dio quando dice ch’io sono il più sapiente degli uomini? Certo non mente egli; ché non può mentire». E per lungo tempo rimasi in questa incertezza, che cosa mai il dio voleva dire. Finalmente, sebbene assai contro voglia, mi misi a farne ricerca (Platone, Apologia di Socrate, 20e2-21b9)

Dopo gli uomini politici andai dai poeti, si da quelli che scrivono tragedie e ditirambi come dagli altri; persuaso che davanti a costoro avrei potuto cogliere sul fatto la ignoranza mia e la loro superiorità. Prendevo in mano le loro poesie, quelle che mi parevano le meglio fatte, e ai poeti stessi domandavo che cosa volevano dire; perché così avrei imparato anch’io da loro qualche cosa. O cittadini, io ho vergogna a dirvi la verità. E bisogna pure che ve la dica. Insomma, tutte quante, si può dire, le altre persone che erano presenti, ragionavano meglio esse che non i poeti su quegli argomenti che i poeti stessi avevano poetato. E così anche dei poeti in breve conobbi questo, che non già per alcuna sapienza poetavano, ma per non so che naturale disposizione e ispirazione, come gl’indovini e i vaticinatori; i quali infatti dicono molte cose e belle, ma non sanno niente di ciò che dicono: presso a poco lo stesso, io vidi chiarissimamente, è quello che accade anche dei poeti. E insieme capii anche questo, che i poeti, per ciò solo che facevano poesia, credevano essere i più sapienti degli uomini anche nelle altre cose in cui non erano affatto. Allora io mi allontanai anche da loro, convinto che ero da più di loro per la stessa ragione per cui ero da più degli uomini politici (Platone, Apologia di Socrate, passo 22a8-c8)

Or appunto da questa ricerca, o cittadini ateniesi, molte inimicizie sorsero contro di me, fierissime e gravissime; e da queste inimicizie molte calunnie, e fra le calunnie il nome di sapiente: perché, ogni volta che disputavo, credevano le persone presenti che io fossi sapiente di quelle cose in cui mi avveniva di scoprire l’ignoranza altrui. Ma la verità è diversa, o cittadini: unicamente sapiente è il dio; e questo egli volle significare nel suo oracolo, che poco vale o nulla la sapienza dell’uomo; e, dicendo Socrate sapiente, non volle, io credo, riferirsi propriamente a me Socrate, ma solo usare del mio nome come di un [b] esempio; quasi avesse voluto dire così: “O uomini, quegli tra voi è sapientissimo il quale, come Socrate, abbia riconosciuto che in verità la sua sapienza non ha nessun valore”. Ecco perché ancor oggi io vo dattorno ricercando e investigando secondo la parola del dio se ci sia alcuno fra i cittadini e tra gli stranieri che io possa ritenere sapiente; e poiché sembrami non ci sia nessuno, io vengo cosi in aiuto al dio dimostrando che sapiente non esiste nessuno. E tutto preso come sono da questa ansia di ricerca, non m’è rimasto più tempo di far cosa veruna considerabile né per la città né per la mia casa; e vivo in estrema miseria per questo mio servigio del dio (Platone, Apologia di Socrate, 22e6-23c1)

Meleto il cattivo poeta tragico era originario della Tracia, come dice Aristofane nelle Rane e negli Uccelli, e lo chiama figlio di Laio, visto che all’epoca di produzione degli Uccelli Meleto era entrato in agone con la Edipodea, come riporta Aristotele nelle sue Produzioni (Anonimo, Scolio all’«Apologia di Socrate» 18B = Meleto padre, 47 T1 Snell)

Anche Aristofane nel Geritade fa il seguente elenco dei personaggi magri, i quali a quanto dice sono inviati nell’Ade dai poeti come ambasciatori presso i poeti che stanno laggiù; ecco in che modo:

   «(A) E chi l’antro dei morti e le porte dell’oscurità osò varcare?

   (B) Un rappresentante per ogni genere letterario abbiamo scelto dopo una pubblica assemblea, tra coloro che conoscevamo come frequentatori dell’Ade e che amano andare spesso laggiù.

   (A) Che cosa? Da voi ci sono uomini frequentatori dell’Ade?

   (B) Sì, per Zeus, assolutamente.

   (A) E chi sarebbero?

   (B) Per cominciare, Sannirione tra i comici, e tra i tragediografi Meleto, e tra i poeti dei cori ditirambici Cinesia.

   (A) Come è vero che a vane speranze vi siete ancorati! Tali tipi, qualora sopraggiunga copioso, una volta che li prenderà, il fiume della diarrea li spazzerà via» (Ateneo, I sofisti al banchetto, libro XII, § 75 = Meleto padre, 47 T2-3 Snell; Aristofane, fr. 156 Kassel-Austin)

[Meleto], figlio di Laro, Ateniese, oratore. Questo uomo accusò Socrate, insieme ad Anito. Gli si attribuiscono inoltre alcune tragedie. Fu condannato a morte dagli Ateniesi. Visse al tempo di Zenone di Elea e di Empedocle (Suda, Lessico, lettera M, voce 496 = Meleto figlio, 48 T3 Snell; trad. mia)

L’atto di accusa fu presentato da Meleto, il discorso fu pronunziato da Polieucto, come dice Favorino nella Storia Varia; il discorso fu redatto dal sofista Policrate, come dice Ermippo, da Anito, come sostengono altri; tutti i preparativi procedurali furono assolti dal demagogo Licone. Antistene nelle Successioni dei filosofi e Platone nell’Apologia dicono che tre furono i suoi accusatori, Anito, Licone, Meleto: Anito esponeva il risentimento e gli interessi degli artigiani e degli uomini politici; Licone, dei retori; Meleto, dei poeti: questa era la gente che Socrate scherniva. Favorino nel primo libro delle Memorie dimostra che l’orazione di Policrate contro Socrate non è autentica: in essa egli fa cenno della ricostruzione delle mura ad opera di Conone, che ebbe luogo sei anni dopo la morte di Socrate. Ed in effetti è così. (…) La dichiarazione giurata, che si conserva ancora, come dice Favorino, nel Metroo, era così concepita: «Meleto, figlio di Meleto, del demo Pito, contro Socrate, figlio di Sofronisco, del demo Alopece, presentò quest’accusa e la giurò: Socrate è colpevole di non riconoscere gli dèi che la città riconosce e di introdurre altre nuove divinità; è colpevole anche di corrompere i giovani. Pena richiesta: la morte» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro II, §§ 38-40 = Meleto figlio, 48 T1 Snell)

Ed è per questi motivi che mi si sono levati contro Meleto, Anito e Licone: Meleto se l’è presa per difendere i poeti, Anito per gli artigiani e i politici, Licone per gli oratori (Platone, Apologia di Socrate, passo 23e3-24a1 = Meleto figlio, 48 T2 Snell)

L’accusa dunque, come dicevo, era a nome di Meleto, che era insieme il suo allievo e il suo servitore; costui infatti, come in una tragedia, recitava la parte del patriota Meneceo, dopo che si era adirato perché la città veniva danneggiata per mano degli stessi cittadini. Il discorso è stato penoso, dovevi esserci in quel momento e avresti riso delle sue disgrazie: era del logografo Policrate! Quello, come i ragazzi che ripetono la lezione a scuola, nel momento in cui, salito sulla tribuna, presentava l’accusa, era impaurito, continuava e voltarsi indietro, dimenticava le parole ed altri gliele suggerivano, come anche all’attore Callipide, e – dopo aver malamente distrutto da cima a fondo la sua sciagurata persona e il suo sciagurato discorso – ridiscese (Epistole pseudo-socratiche, lettera 14, § 4 = Eschine, T145 Pentassuglio; Meleto figlio, 48 T5 Snell)

Riferisce Policrito di Mende, nel primo dei libri Su Dionisio, che Eschine visse insieme al tiranno fino alla sua caduta e [lì rimase] fino al ritorno di Dione a Siracusa, aggiungendo che si trovava con lui anche il poeta comico Carcino (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro II, § 63 = Eschine, T20 Pentassuglio)

La maggior parte dei filosofi d’altra parte sono per natura più portati ad accusare dei poeti comici, se appunto anche Eschine Socratico nel Telauge mette in ridicolo Critobulo, figlio di Critone, per la sua ignoranza e per la trivialità del suo modo di vivere, e deride senza mezzi termini lo stesso Telauge, perché per indossare un mantello pagava un affitto di mezzo obolo al giorno ad un cardatore, altrimenti indossava un vello di pecora, legava i suoi calzari con corde consunte e faceva l’oratore per un prezzo infimo. Nell’Aspasia chiama Ipponico figlio di Callia “fesso” e tutte le donne della Ionia indistintamente adultere e ingannatrici (Ateneo, I sofisti al banchetto, libro V, § 62 = Eschine, T92 e T126 Pentassuglio)

Infatti, loro stessi [gli Ateniesi] si pentirono effettivamente in seguito per aver agito empiamente con la condanna di Socrate e poi perché furono riportati allo stato di lucidità dalla catastrofe che li colpì a causa della morte del filosofo. Egli morì all’epoca dell’arcontato di Lachete. Per tali ragioni, gli Ateniesi ordinarono che da qui in poi nessuno potesse parlare di Socrate nei luoghi pubblici, per esempio nei teatri. Al riguardo viene tramandato qualcosa del genere: dato che Euripide voleva parlare di lui e temeva ritorsioni, allestì la trama del suo dramma Palamede in modo che con questo testo potesse avere l’occasione di fare dei riferimenti allusivi a Socrate e agli Ateniesi. Egli pertanto presentò un personaggio che diceva ai Greci – benché in realtà si riferisse agli Ateniesi con rinvio a Socrate – «Vi siete liberati, liberati, del più sapiente dei Greci, o Danaidi», ossia che l’avevano ucciso. Tramite tale riconoscimento, l’intero teatro pianse, perché Euripide si riferiva a Socrate (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro II, § 44 = Euripide, Palamede, fr. 10; trad. mia)

[Le traduzioni e le raccolte usate sono le seguenti:

  • Francesca Pentassuglio (a cura di), Eschine di Sfetto: tutte le testimonianze, Turnhout, Brepols, 2017;
  • Gabriele Giannantoni (a cura di), Platone: Opere. Vol. 1, Roma-Bari, Laterza, 1974;
  • François Jouan, Herman van Looy (éds.), Euripide: Tragédies. Vol. 8.2, Paris, Les belles lettres, 2000;
  • Marcello Gigante (a cura di), Diogene Laerzio: Vite dei filosofi, Roma-Bari, Laterza, 1962;
  • Rudolph Kassel, Colin Austin (eds.), Poetae Comici Graeci. Vol. III 2: Aristophanes, Testimonia et fragmenta, Berlin-New York, De Gruyter, 1984]

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

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