Isole D’Istanti è il titolo dello spettacolo andato in scena a Monticchiello nell’estate 2020. Recensione
A Monticchiello sono 53 anni che il borgo, frazione del comune di Pienza, si raccoglie attorno a un’idea tanto semplice quanto potente: fare un teatro che racconti e rappresenti proprio i cittadini, le loro relazioni e la loro presenza di fronte alla Storia. È così che il minuscolo centro abitato, a 500 metri sul mare, punto imprescindibile per osservare la tavolozza della Val d’Orcia, ha portato a un altro livello la riflessione sul teatro agito dai non professionisti. Studiosi e giornalisti nei cinque decenni hanno raccontato le esperienze del Teatro Povero di Monticchiello in articoli e libri dando così risonanza a un fenomeno che nel 1980 ha coagulato parte del proprio lavoro nell’istituzione di una cooperativa che potesse gestire anche la taverna e le altre attività, in grado cioè di annodare insieme cultura, tradizioni, turismo e servizi al cittadino: non c’è la farmacia ed è la cooperativa teatrale ad occuparsi di acquistare i farmaci e distribuirli; il teatro qui, insomma, da attività amatoriale utilizzata per il rilancio del paese negli anni Sessanta, è diventato vero e proprio strumento di gestione e aggregazione. Per paradosso, in una nazione come l’Italia, dove il teatro è assente da quasi tutti i dibattiti mainstream ed esiste solo all’interno della propria nicchia culturale, c’è un paese che senza questa tradizione probabilmente non esisterebbe più.
Tutto dunque è intrecciato e in tempo di Covid ci vuole poco a mandare in crisi la filiera, così quest’anno anche la storica esperienza dell’autodramma ha sofferto e ha dovuto reinventarsi, come sta accadendo anche a festival e teatri: il problema non è solo nei mancati incassi, ma anche nella riorganizzazione delle attività nel rispetto delle norme. A Monticchiello, in una piazzetta del borgo veniva tirato su ogni anno un palcoscenico di legno, tutt’attorno file strette di sedute per due settimane di repliche; il testo lo hanno sempre scritto i cittadini/attori, collettivamente, in apposite riunioni durante l’anno, Andrea Cresti dall’81 tirava i fili e cristallizzava il tutto nella drammaturgia e regia finali; da un paio di anni quel ruolo è coperto da Giampiero Giglioni e Manfredi Rutelli.
Avvenimenti o questioni storiche hanno nutrito le storie che per mezzo secolo diventavano di carne mentre i partecipanti, gli attori, invecchiavano e le generazioni si passavano il testimone. Il primo evento, del ‘67, fu proprio una rievocazione spettacolare di un episodio del 1500, all’epoca della Repubblica di Siena; l’anno successivo si passò alla storia relatiamente recente, quella della resistenza con Quel 6 aprile del ‘44. La definizione di “autodramma” la diede Giorgio Strehler, una parola che riesce a descrivere non solo la capacità creativa della compagnia ma anche la questione tematica, ovvero questa necessità di guardare ai macro cambiamenti del mondo attraverso gli accadimenti del piccolo borgo.
La riorganizzazione delle attività a causa covid però ha portato anche nuovo slancio artistico: in Isole D’Istanti il paese non poteva che raccontare – attraverso meccanismi metateatrali certo, ma non solo – le tensioni e le contraddizioni generate dalla relazione con l’epidemia. In più, la tradizione del palco fisso si infrange liberando attori e cittadini per le strade attraverso una rappresentazione itinerante che arricchisce l’esperienza.
Quando chiamano il nostro gruppo il sole del tramonto ha iniziato a scendere sulla precisa geometria del paesaggio, dopo qualche passo siamo già seduti, da lì a qualche decina di minuti un altro gruppo prenderà posto in quella stazione: ci sono due guardie su un belvedere sopra di noi. Lo spettacolo si apre sul Medioevo, ma ben presto capiremo che le epoche si mescoleranno e il nostro sarà un po’ anche un viaggio nel tempo. I due leggono le regole, contraddittorie, con cui si può dare spettacolo. Se le persone vengono fatte entrare come turisti non c’è problema: ecco la soluzione, la nostra attrice/guida lo rimarcherà più volte, “non sono spettatori, ma turisti”. Ci muoviamo da una stazione all’altra, i luoghi utilizzati sono delimitati da sipari neri, i fari sono sistemati in alto, sui muri. Uno dei guardiani afferma: «dalla torre si vede il futuro»; spesso guardare così in lontananza è un esercizio complesso; specialmente ora che ci ritroviamo – a quanto ci raccontano le notizie – nuovamente alle prese con una diffusione massiccia del virus. Alcuni bambini/attori si prendono ironicamente gioco della situazione inventando giochi per non toccarsi che già sono teatro; continuiamo a spostarci con le nostre mascherine, le scene quasi ci vengono incontro e quando siamo in piedi dobbiamo rispettare le distanze fermandoci sulle X disegnate sul pavimento.
C’è una certa capacità, tutta interna alla drammaturgia e coadiuvata dal ritaglio sui corpi e le voci degli interpreti, di tratteggiare stati d’animo, contraddizioni, piccole riflessioni sul momento storico che abbiamo appena vissuto, quello del confinamento: tra le scene più significative ce n’è una in particolare che vede due giovani protagonisti. Lui la chiama dalla strada, lei risponde nascondendosi dietro una finestra. Potrebbero essere Romeo e Giulietta all’epoca del lockdown, lui vuole sposarla ma lei non vuole saperne di lasciare quella realtà ovattata, sicura: «si sta bene quando gli altri decidono per te». Nell’ora e mezzo di spettacolo ci sarà il tempo anche per rievocare una scuola di campagna nel secondo dopoguerra, una discussione di inizio secolo tra un proprietario terriero e un contadino, lo spot di una presunta International Bank of Val d’Orcia, per poi chiudere con un commovente monologo che in parte rievoca proprio la piazza gremita per gli allestimenti; un’attrice è seduta, sulla sua sedia misura la solitudine, il teatro è così un esercizio di comunità, tradizione moderna di questo piccolo borgo. In una delle scene, alcuni attori escono fuori da balconi e da finestre minuscole, discutono con quelli in strada, riflettono sulla questione principale: come andare avanti nonostante tutto? Perché spesso è facile riempirsi la bocca con la resilienza, ma poi come agire? «Dovremmo trovare un nuovo modo di fare teatro» tenta qualcuno; dalla torre forse si vede anche il futuro del Teatro Povero: continuare a creare arte popolare senza piegarsi alla massificazione, alle semplificazioni del mercato, riuscendo a sorprendere gli spettatori nuovi ma anche quelli che più volte hanno scelto di dare un’occhiata al mondo attraverso la lente teatrale di Monticchiello.
Andrea Pocosgnich
Monticchiello, Agosto 2020
Isole d’istanti
autodramma della gente di Monticchiello