Un episodio speciale di Teatrosofia che intreccia il consueto ambito di studio filosofico con il racconto da Trasparenze Festival 2020
La prima forma di comunicazione inventata dall’essere umano è stata il mito. Quest’ultimo consisteva originariamente in una narrazione di fatti divini, eroici e umani che trasmetteva un patrimonio di conoscenze all’avanguardia. Le storie di dèi o eroi raccontate dai poemi omerici assolvevano ad esempio la funzione di conservare la memoria storica di un popolo, ma anche di sintetizzare in pochi versi facilmente memorizzabili un sapere tecnico. Un esempio in tal senso è costituito dal discorso di Nestore dei vv. 301-350 del libro XXIII dell’Iliade, che istruisce il figlio Autolico su come guidare il carro in modo da vincere alla gara di corsa in memoria di Patroclo. Raccontare il mito dei giochi funebri in onore di questo eroe poteva così essere un modo per tenere un “corso accelerato” sull’arte dell’auriga.
Un altro elemento distintivo del mito antico è il suo carattere performativo. I racconti mitici di poeti come Omero erano originariamente trasmessi in forma orale dai cosiddetti rapsodi, che li recitavano di fronte a un pubblico, mentre tragediografi e commediografi li rappresentavano in scena. Benché il veicolo privilegiato fosse la parola viva, i miti potevano però anche essere danzati senza parlare. Ciò è riferito in particolare dettaglio dal dialogo Sulla danza di Luciano di Samosata, che con tono semi-serio riferisce che il danzatore ha nel repertorio tutti i racconti mitici e li sa rappresentare col solo movimento (cfr. i §§ 37-61 dell’edizione a cura di Simone Beta e Marina Nordera, Luciano. La danza, Venezia, Marsilio, 1992). Si può dire, pertanto, che teatro e mito erano in origine la stessa cosa. La conoscenza era drammatizzata e il dramma era fonte diretta di sapere.
Oggi la pretesa di usare il mito come mezzo conoscitivo è tramontata, complice anche il fatto che si preferisce usare altri media per rendere accessibile un’istruzione specialistica e settoriale. Spogliato di questa valenza conoscitiva forte, il mito è così diventato sinonimo di racconto fittizio, irrazionale, falso. Il suo valore conoscitivo sopravvive al massimo in quanto oggetto di interpretazione, secondo una pratica che trova gli Stoici come precursori. Tali antichi filosofi presumevano di trovare alcuni pensieri su dio, sulla natura o sulla morale, per esempio la presenza di una divinità immanente ai processi naturali, leggendo dèi ed eroi quali simboli di queste dottrine. La pratica non è molto diversa, mutatis mutandis, da Freud che legge il mito di Edipo per studiare la dinamica della libido infantile, o dagli antropologi che usano le storie mitiche per ripercorrere le radici culturali e sociali di un popolo. Da sapere diretto, il mito è diventato insomma conoscenza derivata: uno scrigno che rivela tesori solo se aperto col grimaldello della ragione critico-analitica.
Non è invece tramontata la necessità di drammatizzare le storie mitiche. Ne è testimonianza recente il focus sul mito che è stato organizzato dal Teatro dei Venti e Vittorio Continelli a Gombola, piccolo borgo appenninico che sarà presto sede di cicli di residenza e formazione, per Trasparenze Festival 2020. I lavori che sono stati allestiti fanno rivivere, infatti, i racconti mitici con le stesse modalità che erano proprie degli antichi.
“Rapsodo contemporaneo” è forse la qualifica appropriata per Continelli. Il suo discorso sul Mito è infatti rapsodico, nella misura in cui si propone di incontrare e affascinare il pubblico, raccontando storie che tutti conoscono, o di cui hanno almeno un vago ricordo. Ecco allora che Continelli parte dal mito delle nozze di Gea con Urano e, guidato dall’estro del momento, passa per associazioni minime ai racconti degli amori di Zeus, che diventano pretesto per parlare delle imprese di Teseo, della nascita di Dioniso e di molto altro ancora. Il gioco narrativo può mutare radicalmente a ogni replica e protrarsi in potenza all’infinito. La ricchezza di queste storie mitiche desta poi, sempre per Continelli, il sentimento della meraviglia e il piacere dell’abbandono al racconto puro – lo stesso godimento con cui Ulisse (a sua volta rapsodo provetto) riesce ad avvincere il re Alcinoo e la sua corte per i canti VIII-X dell’Odissea.
Il Teatro dei Venti rappresenta con Pentesilea una variante meno nota del mito dell’omonima regina delle Amazzoni e di Achille. Secondo questa versione, non è la donna a essere uccisa dall’eroe, ma è lei a uccidere l’uomo che ama e che tuttavia deve combattere, per difendere Priamo dall’assalto degli Achei. Le parole pronunciate dai due interpreti (Antonio Santangelo, Francesca Figini) sono poche e servono ad aiutare il pubblico a ricostruire il contesto narrativo. Il resto della performance è, sulla falsariga del Sulla danza di Luciano, una danza muta sui trampoli che rappresenta prima l’incontro di Pentesilea e Achille, poi la loro seduzione reciproca, infine la loro lotta mortale. Come nel discorso sul Mito, non ci sono significati reconditi o dottrine da isolare con la ragione. La danza sui trampoli mira semmai a precipitare lo spettatore dentro il movimento di due corpi che passano tragicamente dal bacio al ferimento, dall’amore corrisposto alla morte indesiderata.
Chiudono il focus gli studi Artemide e Atteone e Dioniso ed Erigone di Uomini e dèi, performance itinerante nel bosco di Gombola che coinvolge Teatro dei Venti e Continelli. La struttura di questi esperimenti incrocia i due lavori sopra ricordati. La prima parte è simile alla pantomima di Pentesilea. Gli spettatori si addentrano nel bosco e incontrano personaggi silenziosi che compiono gesti seducenti, ma enigmatici. Per esempio, in Artemide e Atteone si vede una donna sospesa a mezz’aria che suona una melodia malinconica alla cornamusa, in Dioniso ed Erigone si osserva un uomo elegante che beve vino fino alla nausea e rompe i bicchieri che aveva sul tavolo. La seconda parte prevede un incontro degli spettatori con Continelli che, attingendo al repertorio del discorso sul Mito, racconta la vicenda mitica a cui si ispira la performance itinerante. Le visioni che sono state incrociate nel bosco diventano di colpo meno opache e misteriose. Si scopre che esse sono apparizioni di dèi o uomini protagonisti dei miti di Artemide e Atteone, di Dioniso ed Erigone.
Dal punto di vista formale, Continelli e Teatro dei Venti sono in continuità con rapsodi, danzatori e teatranti antichi, che avevano il fine primario di drammatizzare le storie del loro patrimonio mitico. Vi è invece discontinuità per quel che riguarda l’elemento sapienziale. Teatro dei Venti e Continelli non intendono restaurare la valenza epistemica-educativa che i miti avevano nel tempo antico, né come gli Stoici li presentano quali simboli di un sapere positivo. Potremmo anzi sostenere che la loro ricerca è per principio anti-intellettualistica. Ciò che conta per loro è far accedere gli spettatori alla dimensione sensuale, meravigliosa e avvincente che ha il mito, senza seguire ambizioni edificanti.
Non si deve però concludere da qui che il focus di Trasparenze Festival 2020 abbia quale unico fine il piacere del racconto in sé. Se infatti questi miti vengono raccontati, è forse per compiere non un avanzamento nella conoscenza, ma per produrre un mutamento percettivo. I lavori di Continelli e del Teatro dei Venti hanno in comune, dopo tutto, la capacità di presentare i miti come racconti che ci riguardano, che stimolano l’immaginazione ad andare oltre il visibile e l’udibile. Anche se gli dèi e gli eroi di queste storie sicuramente non esistono, possiamo tuttavia sognare di incrociarli dietro ogni albero del bosco di Gombola, o pensare che essi si innamorino di noi donne e uomini mortali. Tale finzione carica le cose e le persone di una nuova energia: le rende più suggestive e belle di quanto effettivamente non siano, in altre parole le eleva a uno statuto divino.
Sono allora i sensi e non la mente o l’intelletto a beneficiare dalla performance che trae ispirazione dal mito. Se si cominciasse a ragionare sui racconti uditi da Continelli, sulle danze di Pentesilea, o sulle apparizioni di Uomini e dèi, l’incantesimo del teatro non avrebbe effetto. Il mito si rivelerebbe materia vuota e la realtà tornerebbe ad essere prosaica. Se invece ci si lascia andare alla propria immaginazione, si entra nel territorio esaltante della religione e della poesia. Il mito del teatro fa entrare in contatto con un dio che per la ragione è morto, oppure non è mai esistito.
Enrico Piergiacomi
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