Un reportage da Santarcangelo Festival 2050, prima tappa del cinquantennale del festival, riflettendo a partire da alcune questioni fondative di questa edizione: il ritorno alla piazza, la componente partecipativa, lo scarto tra realtà e rappresentazione.
Correva l’anno 1971 quando in un paesino della Romagna ebbe luogo per la prima volta uno dei festival più longevi della storia teatrale italiana. Fin da subito immaginato come un ponte tra teatro e piazza, come voleva l’allora nomenclatura dell’attuale Santarcangelo Festival, e pensato con l’intento di far convergere queste due comunità, fosse anche soltanto per poche settimane l’anno. In cinquant’anni di storia sono cambiate le visioni artistiche, è mutato il rapporto con la città e i cittadini – complesso, anche conflittuale, ma sempre intimamente vicino e costituente un fattore fortemente identitario, da difendere – in una molla carica delle tensioni culturali e artistiche che hanno attraversato le ere e i protagonisti che si sono succeduti. Ma la tensione verso un’idea di teatro come esperienza da condividere e con-vivere è anche traccia (non velata) di questa 50° edizione, diretta da Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande.
I Motus, quasi oscenamente profetici nel pensare poco prima dell’abbattimento catastrofico del Covid-19 a un’ambientazione in termini fantascientifici (dal nutrito libro bilingue del festival emerge con chiarezza questa declinazione ultra-distopica, da loro definita già nel 2019 «far out», ovvero eccentrica, bizzarra, strana), hanno così ricostituito un’edizione «d’emergenza», giocando su quella doppia accezione che contiene tanto lo stato di adattamento coatto quanto quello dell’emersione dell’inaspettato. E, allora, cosa emerge, lampante, agli occhi – anche soltanto per i pochi giorni di questa prima tornata (che poi si allungherà, tentacolare come il polpo che popola le loro grafiche, anche all’inverno e alla prossima estate) di questo Futuro Fantastico? La volontà di riprendere quella relazione stratificata tra gli abitanti e gli artisti, di non darla per scontata, di portarla anche ai suoi nodi critici, forzandone il punto di contatto, nella speranza di muovere una rinnovata coscienza civica, oltre che culturale, in grado inoltre di mettere in crisi, ogni volta differentemente, il rapporto che sussiste tra realtà e rappresentazione.
Parto proprio da questo strappo, da quella che arriva, sorprendentemente, come la chiave di volta nella mia lettura degli spettacoli e delle performance attraversati. È ControNatura di Giacomo Cossio, una performance pensata non per piazza Ganganelli, luogo-simbolo di aggregazione e passaggio santarcangiolese, ma per lo Sferisterio, la piazza dei giochi alla base della parte più antica della città. Una serra parallelepipede riempita di piante diverse, rigogliose, la cui meraviglia è velata dall’opacità della plastica che le circonda. Si attende. Cossio e il suo accompagnatore, un cameramen con macchina a mano, entrano ricoperti di tute protettive e ricoprono quella vita verdeggiante, irrorandola di vernice rosa, rendendola meravigliosamente identica, artificializzata, a rischio soffocamento. Il lungo tempo di “posa” della vernice, l’andamento monotòno della performance, il cui scopo operativo è appunto quello di coprire interamente le piante, sembra stancare i tanti spettatori, comodamente seduti ai propri tavolini, intenti molti a sorseggiare bibite, mascherina al braccio, distanze non poi così tanto elevate. Ma perché si inneschi la trasformazione del pensiero, bisogna cambiare sguardo e attitudine. Penso a come potrebbe essere il video che stanno girando in quel luogo che mi è vietato alla vista, ma di quel gesto rimarrebbe l’atto estetizzato: il colore che si posa su un oggetto, pienamente visibile, immediatamente e facilmente alla portata di tutti. Ma non è qui che sembrano portarmi gli elementi in gioco. A farlo deve essere chi assiste, ma occorre superare alcuni filtri: quello della serra, che, vista di lato nasconde ancora di più, quello della propria tensione al masticamento passivo dell’evento, all’esigenza egoista di un tasso di soddisfacimento immediato, rapido, che punti all’effetto, alla sorpresa manifesta. Cossio parte da un’idea di natura corrotta dall’uomo, e per arrivare alla propria denuncia, imbraccia il ruolo dell’antieroe, o meglio, dell’officiante (artaudianamente crudele).
Siamo come in una tragedia classica, e il coro silente di vittime sacrificali è pronto per essere immolato. Accettare di partecipare alla prima fase del rito produce due vie possibili: il disinteresse o l’empatia, accettare il sacrificio senza farsene carico oppure condividerne il destino con la consapevolezza di rimanere impotenti. Ma la seconda fase del rito permette la possibile catarsi. Queste piante, così occluse, definite “pietrificate”, rimarranno nell’antica piazza da gioco, alla mercé ancora una volta dell’uomo. Saranno i cittadini, se lo vorranno, a prendersene cura, lontani dal momento di festa ma nei giorni normali della collettività, per un tempo lungo, con gesti uguali, monotoni, a permettere che la vernice venga scrostata. Cossio, scommettendo sulla lunga gittata, chiede a chiunque di contribuire affinché quello strato monocromo e contronatura possa lasciare il posto all’esperienza del dare vita.
Ancora un altro filtro, per un altro evento che dialoga tra reale e rappresentato, tra la realtà contingentata della pandemic-era e una possibile mediazione artistica. Non ho partecipato alle Pratiche di contatto amoroso a distanza, le ho però viste. Katia Giuliani in questa performance one-to-one, organizzata dentro la vetrina di un negozio dismesso, parte proprio dalla condizione distanziata alla quale siamo tuttora sottoposti, e prova a riformulare una strategia dolce di contatto, modulata attraverso lunghi rami e steli fiorati, prolungamento delle sue braccia, con i quali toccare l’altro, morbidamente, provando ad abbattere lo spazio che separa. Facce rilassate o momentaneamente beate di quel lento sfiorare, ma che tuttavia arrivano come lontana eco al terzo elemento dell’equazione, lo spettatore esterno, e forse non si sedimentano che come gentile parentesi volatile in chi aveva vissuto quei dieci minuti di sensazioni indotte.
Eppure, la questione tra i differenti gradi di adesione, tra spettatore-partecipante e spettatore-osservante (con tutti i limiti che questa distinzione potrebbe innescare), non sembra essere così evidente o problematica all’interno delle Quattro lezioni sul corpo politico e la cura della distanza. La maestria di un pedagogo si mostra, probabilmente, nella capacità di trasmissione, nella qualità di quell’attraversamento che è in grado di imprimersi nei suoi discenti. E non c’è, in questa conduzione di Virgilio Sieni, poi molta differenza tra chi agisce e chi osserva. Siamo entrambi partecipi di questo percorso che si fonda su alcuni dipinti chiave della nostra storia dell’arte rinascimentale. A partire dal gesto pittorico impresso sulle tele di Piero della Francesca, Caravaggio, Giorgione e Antonello da Messina, Sieni conduce circa una trentina di partecipanti alla scoperta del sistema percettivo e motorio dei loro corpi, invita alla consapevolezza della gravità e allo sfruttamento dell’oscillazione degli arti e del busto, alla pulizia del gesto, attraverso una pedagogia imitativa e una guida chiara ed evocatrice, in grado di orchestrare armonicamente un movimento organico che finisce per coinvolgere cioè tutto il corpo, indistintamente (dimenticandosi di frazionarne l’azione) e che parte dall’indagine sulla memoria visiva (e culturale) di alcune tra le immagini più potenti dell’Occidente artistico e per poi arrivare a un movimento personale, in una riconoscibile e rinnovata rappresentazione di un patrimonio comune.
Diverso discorso invece, ne Il trattamento delle onde, seminario-gioco-ballo curato da Claudia Castellucci per alcuni bambini e ragazzi, che si sono prestati a esperire una ricerca ritmica a partire dall’ascolto di suoni di campane e della vibrazione prodotta dallo scuotimento di rami di legno. Se l’idea di gioco sembrerebbe poter attecchire nelle abitudini dei ragazzi, la versione performativa, l’unica aperta al pubblico, non riesce a restituire quell’immediatezza, quella concentrazione profondissima e seria che attiene alla dimensione di gioco, cadendo nella trappola rappresentativa e dimenticandosi invece la gioia dell’esplorazione di onde sonore o vibranti. Ne ho una conferma da un bambino spettatore, che interrogo a fine spettacolo. “Avrei preferito di più una storia”, mi risponde, ma insisto, domandandogli se lui non abbia mai giocato come loro. “No”. Ma lo sbugiarda la madre: “come no, giochi sempre a farli volteggiare”. Eppure, in quella risposta colgo la verità di un mancato rispecchiamento, quello stesso vuoto non colmato che ho avvertito anche io adulta. Forse bisognoso di più tempo, forse necessita di maggiore disponibilità da parte di chi lo agisce, o forse questo gioco si ostina a rimanere fatto privato.
Rimanendo ancorati alle riflessioni tra personale/comunità, sempre sul margine tra realtà e rappresentazione, una nota merita anche la diciassettesima tappa del progetto pluriquadriennale di Zimmerfrei, Family affair, teatro documentario e partecipativo che ogni volta indaga assieme ad alcuni cittadini del luogo la loro percezione di sé in quanto nucleo familiare. Al di là della resa del singolo episodio (anche in questo caso, la differenza tra i diversi gradi di partecipazione e coinvolgimento si nota, e non possiamo fare altro che osservare, da lontano, accanto a chi invece in quei volti si riconosce o ne ha condiviso porzioni di vita), mi attireranno i risultati complessivi di questa ricerca antropologica sul campo, che utilizza dinamiche rappresentative e riprese video come strumenti fattivi più che come fine ultimo. Ancora una volta, bisogna spostare l’attenzione, tralasciare le difficoltà d’espressione dei codici (performativi) e dei linguaggi (verbali, come l’italiano che non è la lingua di appartenenza di tutti, sebbene sia quella scelta per la condivisione) utilizzati. Tuttavia, diversamente da altre tappe di Family affair, concepite come installazioni e non come spettacolo, in questo caso salta all’occhio una scelta prettamente teatrale: lo slittamento di appartenenza delle parole ascoltate (e, dunque di aderenza al “personaggio”) tra chi è fisicamente in scena e chi è soggetto della ripresa a fondo palco. Le parole appartengono a quella figura catturata da frame di un immediato passato, ma a pronunciarle è qualcun altro, (presumibilmente, ipotizzo) appartenente allo stesso nucleo familiare. Ma quello spostamento è un po’ come a dire, “è la sua storia, che è anche la mia, sebbene io sia diverso”.
Allora, è proprio nella dimensione in presenza, che la ricerca acquisisce ulteriore profondità, in questa presentazione che si fa rappresentativa di una convivenza che deve trovare ogni volta conferma, indipendentemente da ruolo, sesso, religione, cultura. Proprio in presenza, in piazza, nelle strade, nella marea di persone, quante più possibili considerando i limiti sanitari, è lì che deve ritornare il teatro. In quella Marea, pensata come ciclo di progetti performativi gratuiti negli spazi pubblici del centro storico nell’ottica di inclusività, crescita, tolleranza per (riprendendo le parole di Piero Patino, proprio nel programma del 1971) «ripristinare nel teatro la sua funzione culturale per gente che tale funzione reclama».
Viviana Raciti
Santarcangelo Festival, Santarcangelo di Romagna – luglio 2020
ControNatura
produzione: Teatro Ferrara Off Ferrara, Festival Periferico/Scuola Archivio Leonardi Modena, Galleria Fabbrica Eos Milano
in collaborazione con Vivaio Morandi e Due Riccioli Verdi – Santarcangelo
con il contributo di Gruppo IVAS, in memoria di Werther Colonna
foto Daniele Mantovani, Giacomo Brini
Pratiche di Contatto Amoroso a Distanza
un progetto di Katia Giuliani / con Katia Giuliani / Hands Outfit in collaborazione con Frau Leman / assistente di scena Stephanie Lehmann / un ringraziamento speciale a Mazzanti Piume
Quattro lezioni sul corpo politico e la cura della distanza
progetto di Virgilio Sieni /Opere di riferimento: I danza: Piero della Francesca, “Battesimo di Cristo”; 1440-1460 ca., National Gallery, Londra / II danza: Caravaggio, “Cena in Emmaus”; 1606, Pinacoteca Brera e “Cena in Emmaus”; 1601, National Gallery, Londra / III danza: Giorgione, “Lezione di canto”, anche detta “Le tre età dell’uomo”; 1500-1501, Palazzo Pitti Galleria Palatina e Tiziano Vecellio, “Concerto”; 1510-1511, Palazzo Pitti Galleria Palatina / IV danza: Antonello da Messina, “Annunciata di Palermo”; Palazzo Abatellis di Palermo e Antonello da Messina, “Cristo in pietà”; Museo Prado, Madrid.
Il trattamento delle onde
Coreografia Claudia Castellucci / assistente Alessandro Bedosti / musica Campane del Monastero di St.Benoit di En-Calcat registrate nel 1958 con un fastigio orchestrale di Stefano Bartolini / organizzazione Camilla Rizzi / direzione alla produzione Benedetta Briglia / produzione Societas, Cesena
Family Affair
concept e regia ZimmerFrei / regia video Anna de Manincor / suono Massimo Carozzi / assistente alla regia Muna Mussie / comunicazione Gaia Raffiotta / con la partecipazione di famiglie e gruppi di abitanti di Santarcangelo e dintorni / co-produzione Santarcangelo Festival e ZimmerFrei / con il sostegno di Emilia-Romagna Film Commission, Network Open Latitudes con il supporto del Programma Cultura dell’Unione Europea / inserito all’interno del progetto europeo BE PART cofinanziato dal programma Europa creativa dell’Unione europea
foto Annæmma Antonello
con Raffaella Albertazzi, Raghad Al Khawli, Khadija Belahsen, Achille Brigliadori, Elettra Brigliadori, Dario Costigliola, Ginevra Costigliola, Alessia della Pasqua, Onide Fabbri, Giulia Ghinelli, Alberto Gnola, Abd Elrahim Hsyan, Iftikar Hsyan, Melania Marcatelli, Isabella Pieroni, Margherita Peroni, Stefano Pieroni, Elena Tontini, Enea Tontini, Ramona Tosi
e la partecipazione di Ali Al Khawli, Qutayba Al Khawli, Simone Brigliadori, Ulisse Brigliadori, Hiba Hsyan, Luna Hsyan, Mohamad Hsyan, Samar Hsyan
si ringrazia Arianna Valentini