Un racconto da Kilowatt Festival, ma anche una riflessione su cosa significhi ora tornare a teatro, partecipare a un festival.
La pagina è vuota, bianca, per fortuna ci rimane pochissimo. Tornare a raccontare il teatro, ritrovare quella postura da spettatore critico che da anni è la mia vita, accade oggi, dopo tre giorni a Kilowatt Festival, sono appena sceso da una giostra che qualche settimana fa sembrava impossibile.
Facciamo qualche passo indietro: la crisi è una crisi sistemica, ha colpito tutti, anche l’indotto e in qualche modo la critica teatrale ne fa parte; progetti, laboratori, mercato pubblicitario; non ha risparmiato nessuno se non chi è direttamente legato alle economie pubbliche. Poi però c’è anche una crisi interiore. Strappare la solitudine dai nostri giorni è stato il problema di quei due mesi di lockdown, ora tutto a un tratto possiamo partecipare ad eventi e festival, possiamo tornare in platea. Ne abbiamo voglia? Quelle poltrone sono ancora la nostra zona di comfort? Abbiamo passato mesi a riflettere sul presente e futuro del teatro e nell’impossibilità di farlo e vederlo abbiamo cercato tracce nelle parole, come accadeva ai maestri di inizio Novecento, in quel libro imprescindibile di Mirella Schino, La nascita della regia teatrale. In redazione quel tempo vuoto lo abbiamo utilizzato per confrontarci, analizzare e rilanciare producendo articoli e interviste in cui è facile ritrovare lo specchio critico di uno smarrimento generale.
Spettatore di teatro: indosso questo ruolo da una quindicina di anni, il mestiere del critico è arrivato poco dopo, con tutte le contraddizioni che questo impegno porta con sé. Sempre, vi sono stati i momenti in cui quei 3, 4, 5 spettacoli a settimana erano troppi, oppure i periodi in cui andare a teatro era come andarci al buio per quanto la vita pesasse sulla visione rendendola quasi inconciliabile con lo scorrere delle mie maledizioni. Mai la platea era stata così respingente come in questo momento, mai il teatro aveva avuto per me un’attrattiva così bassa. Dov’è finito quel fascino che in tutti questi anni ha determinato la mia vita, gli studi, le amicizie, gli amori mancati e quelli trovati? Quella forma d’arte che più di altre mi ha appassionato perché in grado di contenerle tutte, di farsi vocabolario universale per la comprensione dell’uomo: di essere vita, nient’altro che vita.
Quando scrivo siamo già alla fine di luglio, secondo il Governo dal 15 del mese scorso è possibile riaprire i teatri, allestire spettacoli all’aperto e al chiuso rispettando regole rigidissime. Molti di noi non avrebbero neanche pensato che saremmo arrivati a tanto, al punto di condizionare quel territorio di libertà e mistero che è lo spazio scenico, ci avevo ragionato in questo articolo. Per un po’ il dibattito si è anche incagliato nella superficiale dicotomia “ripartire o fermarsi”, sono molti i festival spostati in autunno. E proprio in questi giorni dovremmo chiederci, ancora una volta, a cosa possa servire un festival. È uno strumento culturale tuttora necessario?
Quanto ne hanno bisogno i sindaci, quanto gli organizzatori, quanto gli artisti e quanto i territori? Queste domande sono retoriche? In parte sì, ma servono ad alimentare dubbi in grado di tenerci in allerta. Comunque, alla fine, siamo tornati a teatro: affrontiamo le platee come delle monadi, i più fortunati possono avere un congiunto vicino, gli altri sperimentano il distanziamento; tutti sussultiamo anche solo per un momento quando gli attori rischiano di toccarsi.
Ho ricominciato da Sansepolcro, il gruppo guidato da Lucia Franchi e Luca Ricci è impressionante, nonostante tutto è un orologio svizzero. Non si fa in tempo a uscire da uno spettacolo che già si può entrare in un altro:
Attendi a distanza
inquadra il biglietto
cerca il posto
abbassa mascherina
applausi
alza mascherina
E così via per 4 o 5 spettacoli a sera ricordandosi di cospargersi bene le mani con le varie lozioni igienizzanti. Con la musica giusta e un’inquadratura dall’alto, sottraendo attese e vuoti, ne verrebbe una divertente coreografia. Il teatro italiano è uno dei settori che con maggior precisione e solerzia sta rispettando il mandato dei vari Dpcm e anche se è dura non fare paragoni – con movide, assembramenti cittadini o aerei – per una volta possiamo andarne fieri, i luoghi di spettacoli sono esempi di efficienza in tempo di pandemia. Così accade anche a Kilowatt: organizzatori e spettatori si attengono alle misure di sicurezza quanto più è possibile.
Nella mia ultima giornata nella cittadina di Piero della Francesca sono stato spettatore di 5 spettacoli, uno di seguito all’altro, li ho visti tutti. Atteggiamento bulimico? Nostalgia che si trasforma in consumo ossessivo? Necessità di dimostrarsi un osservatore professionista impegnato a utilizzare il proprio sguardo fino a notte fonda? Alla fine delle serata, con alcuni colleghi eravamo indecisi se affrontare anche il palcoscenico che si sarebbe illuminato qualche decina di minuti prima di mezzanotte, la stanchezza pesava sulle palpebre, ma ha prevalso l’importanza di esserci, una strana dimostrazione di rispetto non richiesto per i sacrifici degli artisti, oltre che dell’organizzazione. Parliamo di una compagnia francese, Collectif Zirlib: nel loro C’est la vie, gli orleanesi hanno portato a Sansepolcro un “dispositivo di realtà” misuratissimo nella messa in scena (forse rischiando una latitanza del filtro artistico), nel quale due attori raccontano le perdite reali dei propri figli; un ordigno teatrale a là Milo Rau insomma, meno evoluto scenicamente, ma concettualmente potentissimo. Nei prossimi giorni affonderemo lo sguardo su alcuni degli spettacoli visti a Kilowatt, molti dei quali sono ai primi passi di sviluppo, il tempo per provare in pandemia è stato poco e la qualità evidentemente ancora ne risente.
Come sempre spiazzanti però le intuizioni di Teatro Rebis che incrocia I negri di Genet con i fatti di cronaca maceratesi di alcuni anni fa, le invenzioni filosofiche di Andrea Cosentino con un nuovo progetto sul concetto di tempo, la drammaturgia iperrealistica di Teatro di Borgia che dal mito di Eracle lascia emergere il dolore quotidiano; da segnalare anche l’impianto visivo e sonoro delle Baccanti di Leviedelfool, l’ironica intelligenza con cui Quotidiana.com santifica e stigmatizza certi tabù, la danza di Stretching One’s Arms Again – qui la coreografa Lucrezia C. Gabrieli con Sofia Magnani sorprende proprio per l’utilizzo di Mozart e del movimento sulle punte. Il momento più alto nella sperimentazione dei linguaggi forse va cercato in T.I.N.A. (there is no alternative) di Giselda Ranieri, proprio per la capacità di stare al centro di una serie di direttrici apparentemente lontane: la performance, la danza, il numero comico, tutto mosso da un talento vivissimo e sempre al servizio di un corpo capace di trasformarsi a ritmi vorticosi.
Spesso si parla di teatro come forma d’arte in grado di alimentare pensieri ed emozioni di una comunità, in realtà il grado di complessità del sistema ormai ha portato a declinare questo concetto al plurale. Ecco ad esempio che attorno alla figura di Roberto Latini si è mosso per questa diciottesima edizione di Kilowatt un gruppo di appassionati, studiosi, critici e artisti che negli anni ha seguito il lavoro dell’attore e regista romano; Claudio Longhi, Rezza/Mastrella ed Elena Bucci si sono invece impegnati in conversazioni con l’artista – come sempre fulminante e anarchico Rezza. Un convegno lontano dalle fredde stanze universitarie, nel quale i ricordi (anche quelli dei primi incontri con Bucci e Perla Peragallo, quelli al sapore di Big Babol nei quali si racconta di un Latini post-adolescente che si iscrive alla scuola di teatro per incontrare una ragazza) si intrecciano con le analisi di Andrea Porcheddu, Elena Di Gioia, Massimo Marino, Antonio Audino, Paolo Aniello, Clarissa Veronico. Tutti sono emozionati, alcuni quasi commossi, come d’altronde è commovente a sua volta l’intervento di Porcheddu – il quale in qualche modo ha contribuito a far conoscere l’artista romano creando proprio una serata a lui dedicata, decine di anni fa.
In questo intervento Porcheddu, attraverso la lente dell’etica, racconta una sorta di diario dei fallimenti di Latini – segnati spesso dal mancato dialogo con le istituzioni con cui avrebbe dovuto relazionarsi –, una carriera che è anche una spinta continua a riformulare la propria integrità etica: dall’abbandono di Roma, fino alle produzioni col Piccolo Teatro, alcune senza distribuzione, passando per le avventure con Il San Martino di Bologna e l’Ubu Roi del Metastasio. Latini a Kilowatt inoltre ha portato quello scrigno prezioso che è Amleto+Die Fortinbrasmaschine e un’installazione, Carta carbone, con la quale, attraverso una felice intuizione, un po’ si prende gioco dello spettatore un po’ gli fa accarezzare la possibilità di comprendere tramite l’esperienza il mistero della sua recitazione.
Abbiamo il costume di arrivare in ritardo e celebrare i maestri quando ormai se ne sono andati, questo evento invece ha catalizzato una piccola comunità, di diverse generazioni, compresi i giovani drammaturghi della scuola dell’Ert Iolanda Gazzerro che ogni sera hanno potuto ascoltare i propri scritti tramite la voce dell’artista. Abbiamo bisogno di incontri come questi, di cercare l’altro, di incontrare il nuovo ma anche qualcosa che da decine di anni ci ispira: quella voce immortale di Roberto Latini, che però è anche corpo e dal corpo nasce, dal corpo si irradia, è stata una voce-focolare, attorno alla quale, come in un rito laico, abbiamo cercato di liberarci, anche se per pochi giorni, di lasciarci alle spalle un presente oltremodo irrazionale e un futuro buio e indecifrabile.
Andrea Pocosgnich