Da una prospettiva personale una riflessione che cerca di lanciare sguardi e pensieri a una possibile comunità allargata
Fase 2.
Chissà che non riesca finalmente a tornare il sentimento di poter scrivere, di poter dire qualcosa. Il desiderio è di poter ridare, alle parole, un orientamento temporale che le situi da qualche parte oltre la porta di casa, oltre i vetri delle finestre. Fuori. In effetti, almeno per chi scrive, è stato proprio questo l’ostacolo maggiore. Non tanto e non solo l’avere a che fare con la necessità del silenzio, cui si è abbinata una sorta di sospensione naturale del pensiero pratico sul mondo del teatro, ma soprattutto la coscienza che qualsiasi pensiero, adesso, non ha modo di incarnarsi nell’attualità dei corpi e della comunità se non attraverso una forma che lascia tracce, sì, ma in negativo. Non si sa come ci si possa abituare a questo cumularsi delle assenze, a questi surrogati del fare, dell’osservare, dell’esperienza. Si è scritto, in queste lunghe, velocissime settimane, provando a portare lo sguardo oltre il presente puro, unico spazio che ci è dato, faticosamente, abitare. Si è parlato di possibili misure da adottare, sono state proposte invenzioni e opinioni costruite in dialogo con quello che Michel Houellebecq ha sagacemente definito, nella sua prima presa di parola sulla pandemia, come “un virus senza qualità”. In Le possibilità di un’isola, lo scrittore francese, abituato a descrivere scenari verosimilmente distopici, narrava di un’umanità clonata e isolata in cellule, abituata a pochi sporadici contatti virtuali, di cui avere sempre meno bisogno. Nel nostro mondo del teatro dove “nulla sarà più come prima” suona come una minaccia, ma dove nulla prima sembrava veramente essere al proprio posto, le morti per coronavirus sono state più che un avvenimento, perché hanno svelato l’impasse del pensiero, quella dell’azione, ma anche quella del fare nella sua forma più condivisa e necessaria. Il discorso si è per certi aspetti incagliato sulla questione nodale della compresenza apparentemente avversaria della tecnologia, intrappolato in quella particolare forma di ansia smaterializzata che è l’angoscia senza oggetto, un’angoscia-device che separa, riversandoci gli uni sugli altri non come “noi”, non come “altri”, ma come presenze-flusso, in streaming. Da questa particolare espressione dell’angoscia può emergere una nuova capacità collettiva? La ferita, ogni volta che la si guarda, sembra scavarsi da sola, più profonda.
4 maggio 2018 – 4 maggio 2020
Proprio il 4 maggio 2018, in occasione di un giorno esplicitamente più rabbioso di quelli che stiamo vivendo adesso, vissuto intorno a un ennesimo ordine di sgombero dell’Angelo Mai a Roma, mi trovavo a riflettere su queste pagine sul modo in cui nella nostra generazione si muova il senso relazionale del “noi”. Con le sue categorie di pensiero, vale la pena interrogarsi sul modo in cui questo “noi”, la nostra comunità, si confronta con un certo principio di giustizia. Quale giustizia? Quella da cui siamo più o meno tacitamente estromessi. Corpi estromessi in virtù o, per meglio dire, a favore di un ricorso per certi aspetti dissennato a quei principi di resilienza che ci hanno reso, probabilmente, la generazione liquida che, ogni giorno, rischiamo o scopriamo di essere. L’acqua pulisce, purifica, ma non sempre rinnova, semmai, erode.
Crisi (plurale)
Avendo più o meno indirettamente intercettato il pensiero di tanti compagni, amici e colleghi, ci accorgiamo concretamente di quella usura della tradizione cui non riusciamo ancora a far seguire quel passo che possa estrarci tutti, tutti insieme magari, da quella breccia in cui il passato come resistenza e il futuro come tempo indefinito ci inchiodano i pensieri in un presente in cui non sappiamo come danzare, come fare. Non sappiamo ancora bene come fare per andare avanti in qualche modo. Abbiamo tutti gli elementi per renderci conto del fatto che la pandemia, al pari di altre disgrazie della storia umana, non ci ha fatto perdere quasi nessun tesoro. Ciò che abbiamo perduto, invero, è una serie di miraggi cui abbiamo creduto, con cui fedelmente siamo cresciuti. Un nodo della questione, a mio avviso, risiede infatti in quella “eredità senza testamento”, fortunata citazione di René Char a partire dalla quale Hannah Arendt scrisse la sua prefazione a quella preziosa raccolta di saggi pubblicata sotto il titolo La crisi della cultura e che ci può far pensare al modo in cui abbiamo ricevuto la tradizione, anche quella delle nostre arti dal vivo. Utilizziamo il ricordo come strumento del pensiero, ma senza un indirizzo, senza una realtà politica in cui ancorare il “tesoro” che desideriamo ancora avere tra le nostre mani. Il teatro sta rischiando di rivelarsi ancora incapace di articolare, attorno al ricordo, una storia propria, contemporanea. “Non c’è niente che sia interamente nuovo”, scrive Hannah Arendt, e il dramma si consuma nel momento in cui ci rendiamo conto che non siamo, né per coscienza né per tradizione, ancora in grado di formulare non le risposte, ma domande, che siano adeguate a metterci in relazione con quello che ci circonda. Si svela così un imbarazzo che è, soprattutto, quello dell’azione. Il futuro, visto da qui, è molto simile a un peso morto, un altro, che la nostra generazione dovrà caricarsi sulle spalle. L’autorità, termine forse esausto, è espressione di una politica che sembra essersi dissolta a favore del controllo e non è più un argomento che riesce a essere comune. La crisi è innanzitutto di natura politica poiché tocca quelle sfere, come l’educazione, l’istruzione e la cultura, che non sono più visti come bisogni naturali della società nella quale l’essere umano si trova dalla sua nascita, ma come necessità politiche.
Fare cultura.
Nel momento in cui l’oggetto d’arte, opera intesa come unità d’intenti tra corpo fisico e pensiero, è piegato alle necessità del fare cultura, interviene nell’arte stessa la nozione di valore. Questa nozione, tuttavia, oltre a creare gerarchie tra gli oggetti, getta l’arte nell’insieme delle merci sociali soggette allo scambio e alle influenze di altri valori, individuali e non. Quegli aspetti che rendono l’arte “utile” alla creazione di un valore, fanno sì che l’arte diventi un mezzo per muoversi tra le posizioni attribuite nella società delle persone perdendo gradualmente, in questo modo, la capacità di essere, nella propria natura, oggetti della meraviglia. Ovvero, oggetti che sanno sospendere la nostra attenzione regolare sul mondo, rendendoci in questo modo pienamente umani. Guida fondamentale per questo tempo, la filosofa Susan Sontag, ha spiegato come amare, desiderare e pensare siano attività vicine tra loro. Il desiderio della conoscenza apre le porte al pensiero – “ogni idea è una mano tesa”. Eppure, soprattutto nei primi giorni di questo tempo alterato sembrava serpeggiare un collettivo tacito senso di colpa, nel teatro. Ancora, l’esserci nonostante tutto, percepiti forse come pericolosi portatori sani di promiscuità, era accompagnato dall’imbarazzo e dalla frustrazione dolorosa di scoprirsi i primi di cui il mondo potesse fare a meno, gli ultimi a cui pensare di ridare un posto nell’eventuale era postuma. In questa improvvisa sottrazione di realtà, scoprirsi fisiologicamente, temporaneamente incapaci di mettere in atto un pensiero che si sarebbe idealmente voluto immediato sul futuro ha aperto un varco alla comunità per sentirsi, cooperativamente, insieme. La comunità si è quindi messa in moto, energica e metodica, portando alla luce un movimento, archeologico e per questo futuro, che ne ha ancora una volta svelato l’identità. E allora visto dal presente di questo inizio maggio, il teatro sembra essersi compattato a modo proprio attorno all’assenza di un’assoluzione che avrebbe potuto riconsegnare dignità ai corpi, a quelli di tutti. Un’occasione mancata per tutti, anche per chi non immaginerebbe mai di fare parte di questo insieme? Non importa. Andiamo avanti. Se c’è un modo, però, che possa essere d’aiuto, ora questo passa attraverso la repulsione di qualsiasi forma di vittimismo. “Odio sentirmi una vittima”, diceva Susan Sontag, e così il teatro come comunità dovrebbe continuare a desiderare quello stato di coscienza acutissimo, quasi estremo, che tende ad assumere su di sé il potere di ogni responsabilità e che permette, allo stesso tempo, di uscire dalla consequenzialità lineare delle azioni e dei pensieri. Si potrebbe provare a liberare nuovamente la creatività della presenza nella presenza del teatro. Essere pienamente presenti a una forma di nostalgia di futuro, oggi, significa anche assumersi la responsabilità di un agnosticismo dell’arte nel quale è naturale sentirsi perduti. Accogliere questo capogiro è per tutti noi una boccata d’ossigeno che è ancora vagamente alieno. Si raccolgono pensieri che, adesso, non possono che posarsi sulla carta come scampoli. Se un progetto intellettuale potrà emergere, sarà sotto forma di critica. La malattia del presente, finché verrà considerata una malaugurata maledizione, sarà vissuta come un tracollo e non come uno strumento capace di stanare quelle metafore ereditate verso le quali è necessario conservare una postura scettica. Liberare il campo dal virus richiede, in qualche modo, che pensare il teatro sia una forma di sentimento e che il sentimento sia una forma di pensiero. Che cosa aspettiamo? Il miracolo. Perché? Perché “Il miracolo è l’unico tema di profondo interesse che resta all’arte” (Susan Sontag).
Gaia Clotilde Chernetich
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