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L’impossibilità di pensare al teatro. Intervista a Fausto Paravidino

Una conversazione con Fausto Paravidino a cura di Maria Dolores Pesce (studiosa e critica di teatro, ha tenuto fino al 2012 un corso di Storia del Teatro all’Università di Torino. Dal 2001 cura una rubrica di recensioni su Dramma.it di cui è vice direttore.

Fausto Paravidino ha percorso i territori del teatro, del cinema e della televisione da attore, drammaturgo e regista. Tra “Noccioline”, Genova 01, Texas, I vicini, Il senso della vita di Emma e tanto altro, il suo sguardo artistico è stato capace di mostrarci aspetti e orizzonti del presente come pochi altri. Lo incontriamo virtualmente per parlare con lui della sua arte e, appunto, di questo strano presente.

Fausto tu sei considerato uno dei migliori drammaturghi italiani contemporanei, eppure sembri un drammaturgo ‘nascosto’ direi, esistenzialmente nascosto dentro la sua opera. Cos’è per te il teatro?

Innanzitutto è il mio lavoro, è l’occupazione che preferisco. È difficile d’altra parte dire che cos’è “per me” il teatro. Tenderei a togliere il “per me”, nel senso che il teatro mi piace così com’è e non tendo a dargli un valore personale. È l’incontrarsi delle persone intorno ad una storia, è l’incontrarsi con delle persone attraverso una storia. È per questo una attività primitiva, e invento in un certo senso, perché non abbiamo una testimonianza teatrale in tutto il periodo che precede la scrittura, abbiamo solo qualcosa che ci parla attraverso la pittura, la decorazione. Quindi abbiamo la ‘fortuna’ di non sapere come è iniziato il teatro, come è iniziata la musica. Sappiamo solo come è iniziata la letteratura o come è iniziata la pittura, e questo è divertente. Per questo possiamo solo immaginare come è iniziato il teatro e immaginandolo posso pensare che sia stato la prima forma di quello che adesso chiamiamo intrattenimento o cultura, a seconda dei diversi punti di vista, ad aver fatto la sua comparsa sul pianeta terra, una modalità dunque molto primitiva di descrizione delle nostre vite attraverso la rappresentazione. Primitiva in quanto non serve saper scrivere, non serve saper dipingere, addirittura non servono utensili.

Nella tua drammaturgia si sovrappongono a mio avviso tensioni biografiche e espressioni intimistiche, per quella che in genere è una rappresentazione di interni, fisici e psicologici, che si aprono a improvvise prospettive generazionali. Se condividi questo pensiero come riesci a distillare ed elaborare tutto questo nella scrittura e poi nella rappresentazione?

Non so se condividere l’intero tuo pensiero. Io scrivo quello che so, e di quello che so cerco di scrivere quello che mi piacerebbe vedere. Questo cerco di fare, e scrivere, riguardo a tutto ciò, è una definizione ancora un po’ parziale, poiché io cerco di costruire degli spettacoli, di mettere in relazione le due gambe sulle quali poggia la rappresentazione e che sono, una, la realtà, quello che in altro modo potremmo chiamare sincerità, onestà, l’esperienza personale cioè, il mondo quale mi appare. Noi infatti abbiamo la pretesa di dire “la sai l’ultima sul mondo?” e tutto questo passa attraverso la nostra percezione. E poi, l’altra, il desiderio di una forma. Detto in altro modo, ho visto il blu là fuori e mi ha dato una sensazione emotiva di un certo tipo, dunque non è un blu oggettivo ma soggettivo, questo blu cioè mi ha messo in contatto con una parte di anima che immagino abbiano anche altre persone, allora mi va di raccontarlo. Dunque da una parte questa che potremmo chiamare ispirazione e dall’altra una specie di desiderio formale, quello che brutalmente si può sintetizzare in “chi posso copiare?”, a cosa mi piacerebbe che somigliasse questo modo di fare?.

La malattia della famiglia M – 2009

La tua biografia artistica comincia come attore e come attore continui a frequentare molte delle tue regie e messe in scena. L’abbandono della scuola del Teatro Stabile di Genova oggi Teatro Nazionale dopo un solo anno fu il segno di una delusione o fu una fuga verso la scrittura e il palcoscenico, magari a causa del divieto di andare in scena durante la frequenza?

C’era effettivamente allora un divieto ad andare in scena, che non so se tuttora sussista. Ma non la definirei una fuga solitaria. Innanzitutto eravamo una compagnia teatrale che si era formata proprio all’interno della scuola di Genova e tecnicamente non siamo stati noi ad abbandonarla, sono stati loro a cacciarci dopo che avevamo chiesto una deroga al regolamento appunto per poter fare degli spettacoli. La risposta fu che non si potevano fare spettacoli mentre si frequentava la scuola e che dunque dovevamo scegliere. Noi scegliemmo di fare spettacoli, anche se con grande dispiacere perché ci sarebbe piaciuto rimanere in quella scuola e continuare il nostro percorso formativo all’interno di essa. Però il fatto di essere una compagnia che faceva spettacolo ci sembrò allora irrinunciabile. E penso che sia stato giusto, non dico che lo rifarei ma quasi, pur riconoscendo l’importanza per me di quel periodo.

Comunque un po’ nella storia della scuola sei rimasto, e infatti nel corso dell’ultima inaugurazione cui ho partecipato, quando si è trattato di elencare gli allievi che avevano raggiunto una certa fama, tu tra quelli sei stato citato. Venendo all’oggi, da qualche tempo sei “dramaturg residente” del Teatro Stabile di Torino. Il dramaturg è figura consueta nel teatro europeo, meno consueta e più confusa in Italia. Come si è sviluppata la tua specifica esperienza?

Infatti non mi hanno invitato a fare il “dramaturg” alla tedesca, nel senso che non mi hanno invitato a partecipare alle linee di direzione artistica del teatro. Io essenzialmente mi occupo di seguire la drammaturgia di alcune produzioni, facendo un lavoro sul testo a fianco del regista, cosa abbastanza consueta anche in Italia, e poi sto cercando di costruire un centro di ricerca sulla scrittura teatrale all’interno del teatro, con un gruppo di scrittori appunto di teatro, molto bravi, che insieme a me lavorano. Dunque faccio un po’ queste due cose: drammaturgia di alcuni dei testi da mettere in scena, alcuni, non tutti, quando me lo chiedono, e insieme questo piccolo progetto di ricerca. Non sono sotto contratto peraltro, lavorando, come si dice oggi, a singolo progetto.

I vicini – 2014

Sono convinta che il dramaturg dovrebbe essere una figura molto più importante rispetto a quanto è riconosciuto dai teatri in Italia. Importante perché svolge un lavoro essenziale di mediazione tra il testo e la scena, rinnovandone la percezione non solo per quanto riguarda i classici ma anche per i contemporanei, e predisponendolo alla messa in scena a cura del regista e degli attori. Ricordo in proposito che proprio per questo Sanguineti mi diceva che per lui era importantissima la committenza, cioè la conoscenza dei destinatari del testo teatrale, per una corretta organizzazione del testo. Tu cosa ne pensi?

Anch’io penso che il teatro sia una cosa terribilmente concreta, che si può certo fare con l’immaginazione ma che non si può realizzare da soli nella mente, ma solo attraverso una azione concreta. Che poi questa azione concreta sia spezzettata in singole funzioni che poi vanno in lavorazione a soggetti diversi va bene, che so autori che scrivono a casa ovvero scenografi che disegnano alla loro scrivania, oppure laboratori che fabbricano arredi di scena che poi verranno montati. Una sorta di percorso industriale in cui ciascuna funzione può assomigliare ad altre arti che vengono esercitate in maniera più astratta, per i fatti propri per dire, o fuori dal tempo come la pittura. Questo non toglie che il teatro è un’ arte che si fa dentro un posto con altre persone, e questo è la sua forza. Così il teatro in streaming mi rende molto perplesso poiché si vede solo lo spettacolo, e non mi interessa. Il teatro infatti non è lo spettacolo, non è un’opera d’arte, per continuare il discorso di Sanguineti, che viene chiusa ed osservata. È l’incontro di persone che si sono date appuntamento in un posto. È fatto cioè di spettatori che vanno alla rappresentazione o di attori che insieme ai primi influenzano la scrittura del drammaturgo. Il teatro è tutto questo e persino Shakespeare, che è il campione di tutti noi, non ha mai scritto un testo che fosse da mettere in scena astrattamente, ma piuttosto, a seconda del teatro, a Londra o fuori Londra, o della compagnia a cui era destinato, era il suo un testo che si modificava. Così se i suoi copioni ci sono arrivati in diverse versioni, non è perché gli storici non sono stati capaci di capire quale di queste fosse la vera, ma perché quella vera non esiste.

Il diario di Maria Pia – 2012

Per questo il teatro assomiglia molto alla vita, molto più di tante altre forme di espressione artistica e per questo anch’io, pur capendone le ragioni di sopravvivenza, non credo che mettere gli spettacoli in streaming sia vero teatro. Assomiglia un po’ ad un funerale ed è una ragione in più per lottare affinché il teatro ritorni quanto prima ad essere un evento dal vivo, cioè che vive.

Sono d’accordo con te. Questo è l’obiettivo per cui dobbiamo lavorare e anche lottare insieme.

Tra lampi autobiografici e interni claustrofobici, ora come tutti noi “resti a casa”. Questo come influisce su di te e sul futuro del teatro in generale?

Nel frattempo disegno, scrivo per il cinema, faccio tutto quanto è in questo momento a portata della mia mente. E il teatro adesso non è a portata della mia mente. Non penso al futuro perché il teatro è arte che parla del presente, mai del futuro. Al massimo parla del passato ma mettendolo in relazione con il presente. Il teatro è raccontare una storia qui e ora, al pubblico di adesso, ma, per una serie di contingenze, questo adesso viene rimandato. Tu pensi in aprile ad un spettacolo che sarà messo in scena, se va bene, ad ottobre e lo fai sperando che la differenza tra aprile e ottobre non sia tale che il pubblico se ne accorga. Il teatro infatti vive nel momento presente e non può vivere che nel momento presente. Pertanto vivi nella speranza che tra la ideazione e la attuazione non vi siano dei grossi stravolgimenti, che ti facciamo vedere questo distacco. Tanto è vero che se noi guardiamo gli spettacoli del passato, anche quelli di grandi registi come Strehler, rivedendoli al cinema o alla televisione, a volte abbiamo addirittura l’impressione che siano mal recitati. Per capire la grandezza di quell’autore dobbiamo sforzarci di immedesimarci in quello che pensiamo potesse essere il pubblico di allora, ma insieme non possiamo sentirla, quella grandezza, direttamente sulla nostra pelle o nella nostra carne. Questo a differenza, ad esempio, di un film di Orson Welles che rimane bello anche a tanti anni di distanza. Il teatro è nel presente, deve essere fatto nel presente oppure deve saper benissimo fare finta di essere fatto nel presente. Adesso però questo nostro presente senza teatro è certamente diverso da quello che sarà il presente quando apriranno i teatri, per cui non posso immaginare il teatro che sarà in quel futuro, non lo posso programmare, in quanto non sono in grado di sapere quale sarà la condizione di quel pubblico, quando il teatro riaprirà. Quindi vivo una specie di impossibilità di pensare al teatro. L’ho fatto nei primi tempi di questa quarantena. Come piccolo esercizio per non soccombervi, ho cercato di pensare al prossimo spettacolo, ma poi, proseguendo la chiusura, anche questa piccola spinta si è esaurita. Questa infatti non è una situazione creativa da cui si può attingere per immaginare teatro. Per questo sto cercando di scrivere per il cinema, cosa di cui bene o male possiamo usufruire, sto disegnando, sto esaminando contenuti multimediali, sto facendo cioè quelle cose che si possono fare stando in casa.

A proposito, tu pur avendo ormai una teatrografia numerosa e complessa, sei riuscito anche a frequentare con successo il cinema e la televisione, conquistando con essi un pubblico oltre la nicchia. Quale è, e se è diverso rispetto al teatro, il tuo rapporto con questi mezzi espressivi?

È diverso proprio nel senso che lì, nel cinema e nella televisione, si cerca di costruire uno spettacolo, si cerca di costruire qualcosa che assomiglia di più ad un quadro o a un romanzo, rispetto al teatro in cui si cerca soprattutto di mantenere vivo il presente. Certamente il cinema è rappresentazione, ad esempio ha molto a che fare con la fotografia, deriva dal documentario, e mi piace da morire perché è un immaginario. È lì che sono cresciuto, come nei sogni. Il cinema assomiglia molto di più ai sogni, mentre il teatro assomiglia molto di più a quando siamo svegli, è la realtà.

Maria Dolores Pesce

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