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Jukebox: quando la vita rompe la forma. Intervista a Monica Demuru

Intervista a Monica Demuru sullo spettacolo Jukebox ‘Roma’ di Encyclopédie de la parole, e sulla sua doppia natura teatrale e musicale.

L’ultimo spettacolo che ho visto prima che il governo fermasse rappresentazioni teatrali e proiezioni  per contenimento del Covid 19 (qui tutti gli articoli e le news al riguardo) è stato Jukebox di Encyclopédie de la parole nella versione romana al Teatro India. Quando, il giorno dopo ho incontrato Monica Demuru, che è l’anima della versione italiana di questo progetto di Joris Lacoste e Elise Simonet, l’interruzione appariva come una condanna ancora contenuta. Ma, specialmente adesso in piena quarantena, in un momento a rischio di dimenticare le storie minime, questo spettacolo rimarca l’importanza della ricerca di un equilibrio tra forma e sua rottura e della necessità di costruire narrazioni comuni. Iniziamo a parlare del grande entusiasmo da parte del pubblico, una sorpresa che a lungo ha accompagnato il progetto che prevede una lunga fase di raccolta dei materiali sonori, lo studio – quasi fosse una partitura musicale – e la realizzazione del dispositivo scenico strutturato per storie che il pubblico di sera in sera sceglie (o avrebbe scelto) di ascoltare, dalla rimodulazione dal vivo dell’attrice-musicista…

Jukebox ‘Roma’.

La fase di ricerca è sottile e delicata, perché bisogna far comprendere ai raccoglitori quali materiali possono essere interessanti. La versione che finora abbiamo portato in scena ha interessato una ricerca nella zona centrale dell’Italia (sebbene siano presenti anche parlate non geograficamente riconducibili solo a queste zone). Nel confronto con Joris che avrebbe voluto ragionare in maniera ancora più ristretta, ho sostenuto invece che non avremmo potuto fare un lavoro totalmente site specific perché avrebbe significato tagliare fuori tutta quella sensibilità che integra nella geografia di una città anche altre provenienze linguistiche. Così è subito “nazionale” e non desta quell’interesse da “realtà locale” ma immediatamente diventa un mondo aperto.

Quali sono le storie che non si possono raccontare all’interno di Jukebox?

Vengono fatti moltissimi distinguo. Intanto tutte quelle che non sono di pubblico dominio o di cui non è stato richiesto un permesso, anche se posteriore alla registrazione. Non vengono interdette le interviste, anche se molto spesso non c’è una spontaneità, però è interessante quando avvengono delle “fughe”, quando irrompe una pulsione identitaria molto forte. Normalmente i comizi sarebbero interdetti perché presentano dei discorsi super organizzati, ma, ad esempio, quello del Family Day che abbiamo scelto è talmente assurdo nella scelta lessicale, linguistica, nella retorica della composizione, che diventa interessantissimo proprio perché parla di sé attraverso quella retorica.

Io ho delle remore quando ci sono delle situazioni in cui le persone sono in totale confessione e inconsapevoli di quello a cui possano andare incontro. Oppure fenomeni iper-conosciuti che finiscono per aderire a modelli televisivi, imitativi o a modelli denigratori. Per esempio, molte testimonianze femminili sulle donne sono piene di cliché, di sciocchezza, di seduzione, che ridondano perché fanno ridere, però ci siamo ritrovati con una mancanza di equilibrio di spessore. Allora le voci che abbiamo scelto sono quelle di una direttrice di un centro anziani, una parrucchiera, una venditrice di patate, una signora sul treno…

Per il resto ci siamo imposti di non censurare, anche se ci siamo accorti che soprattutto nei documenti romani le bestemmie fioriscono, e allora bisogna calibrarle, per cui ad esempio, nonostante le richieste, a volte io ne pospongo qualcuna per cercare di non metterne due omogenee. A volte capitano dei montaggi scioccanti, tipo il film porno subito dopo il comizio commemorativo.

Demuru in Jukebox. Foto Encyclopédie de la parole

Dunque la drammaturgia dello spettacolo non si costruisce soltanto sulla base delle scelte degli spettatori, come appunto vorrebbe suggerire l’idea del juke box, ma anche a partire dalla tua guida che sotterraneamente compie delle scelte. Ad esempio, lo spettacolo che ho visto io non ha avuto dei toni troppo drammatici…

Ma non deve averne. C’è ad esempio la storia del pazzo sull’autobus: se io spingo un po’ di più nei richiami che fa al padre, si rischia di andare da un’altra parte. Ascoltandolo molto con Joris, che è un genio nel riconoscere la misura di adesione a un documento sonoro, abbiamo anche dovuto trovare una misura alle azioni che corredano lo spettacolo. Anche perché la violenza insita nel suo “’a faccio vergognà” non è un gesto apertamente violento, ma è interno al “personaggio” abitato dal fantasma del padre, alla ricerca della madre che vorrebbe accanto e nel desiderio proibito di andare ad acquistare della droga.

Queste storie quanto sono state filtrate dal tuo intervento?

L’obiettivo era quello di renderle il più fedelmente possibile. C’è un lavoro prima di tutto di partitura musicale, ma evitando un codice interpretativo immediatamente di maniera. Allora abbiamo scelto di seguire l’andamento del parlato più che insistere su una timbrica che avrebbe portato a un’interpretazione troppo esterna. Per esempio, la guida della Domus Aurea romana parla in maniera molto adenoidale, molto acuta; quando la replicavo in maniera estremamente fedele per com’è, tutto diventava molto straniante; allora Joris mi ha chiesto di farla aderire maggiormente alla mia voce, in una modalità che rispetta il documento più che se fosse perfettamente identico.

Ci sono due parole che mi sono ritornate in mente a proposito del tuo lavoro, medianico e mediatico. In questo gioco metti in atto un attraversamento profondo di queste storie reali ma nell’interezza del tuo corpo-voce-anima-pensiero che poi riporta a noi… 

Se è vero che si tratta sempre di essere posseduti dall’altro, quasi fosse una possessione alchemica, è vero anche che un’interpretazione non sarà mai vera se non c’è un’adesione all’io dell’attore. Egli è sempre se stesso, non è vero che diventa un altro, ma diventa la declinazione di quel sé in quella condizione. E quando questo non c’è, subentra un esercizio formale che quasi sempre lo spoglia di verità. Tutti i più grandi attori li conosciamo non esattamente come dei trasformisti, bensì ogni volta credibili nelle diverse declinazioni di loro stessi. Questo è l’equilibrio più difficile da raggiungere in teatro, ma credo che non ci sia principio di coerenza nell’attività di un artista di scena se non l’attività del proprio corpo e della propria voce. 

Demuru in Buchettino della Socìetas Raffaello Sanzio

Parliamo delle tue due nature, di musicista e attrice. Quanto l’una fluttua o interferisce sull’altra?

Io ho lavorato per parecchio tempo con Chiara Guidi sulle lingue inventate e ogni volta era chiaro che si trattava di un lavoro che si muoveva esattamente come il linguaggio musicale. Wittgenstein, ad esempio, dice che c’è il linguaggio della Phonè e quello del Logos: il primo si muove in maniera astratta e perfettamente autonoma, il secondo si nutre del pensiero, di parole concatenate e comprensibili, più o meno. Questo “più o meno”, ovvero questa  distanza, nel Novecento è stata molto allenata ma sempre ha funzionato quando inserita in una forma che parlasse. Dopodiché, si è trattato di trovare la cerniera tra questi due linguaggi, che non è mai un compromesso ma andare a fondo e trovare in una natura l’altra e viceversa. È chiaro che se il Logos si muove apparentemente senza una intenzione musicale, tuttavia vive di una musicalità, mentre, anche se non utilizzo delle parole di senso compiuto posso comunque comunicare delle intenzioni.

Nel lavoro portato avanti con Annalisa Bianco, Bellas Mariposas, abbiamo messo in atto questa cerniera sperimentando radicalmente un lavoro formalmente scolpito, ma alla ricerca di una grande credibilità. Impostazioni molto diverse sono state quelle applicate con Massimiliano Civica e poi con Deflorian Tagliarini: in entrambi i casi ho dovuto resettare tutto allenando un’altra sensibilità, di ascolto, di emersione di piccoli elementi molto più semplici, ho imparato ad ascoltare la mia vera voce, recuperare una consapevolezza ripetibile di un linguaggio scevro da delle punte formali. Nell’Antigone di Civica questo lavoro è stato molto chiaro. Sono parole indicibili quelle di Sofocle, ogni frase è quasi assoluta nella sua altezza e irripetibilità, dunque puoi scegliere un registro epico, come a sottolinearne quell’indicibilità, oppure integrare queste figure con dei nóos che nella loro tracotanza trovano normale parlare con gli dei e parlare di se stessi come esseri eccezionali.  Nel lavoro con Daria e Antonio ancora più radicalmente vi è questa necessità di far crollare quelle decostruzioni verso un linguaggio minimalista. Questa struttura richiede un grande lavoro di scrittura da parte di Daria che parte da un lavoro di improvvisazione sul linguaggio apparentemente banale ma che deve essere portato dentro un livello alto e una formalizzazione complessiva. Si tratta di un bilanciamento tra forma e – non una spontaneità – ma una capacità di ascolto che fa rivivere il dolore, il sentimento, quello che sta veramente passando in quel momento. È un’esperienza molto forte.

Blastula – Scarnoduo. Copertina dell’album Lingue di Fuoco

E dal punto di vista musicale?

In realtà questo approccio non era così lontano da altre mie esperienze precedenti, legate all’improvvisazione musicale dove bisogna avere un’apertura quasi mistica, un ascolto assoluto dei colleghi e del mondo sonoro. Ho due formazioni stabili, di cui una con Natalio Mangalavite di musica più composta dove esistono delle sezioni di improvvisazione legate a moduli jazzistici. Invece nella formazione con Cristiano Calcagnile, un’esperienza decennale che si chiama Blastula – Scarnoduo, abbiamo delle fasi di scrittura ma con delle sezioni improvvisative totali. Questa pratica si iscrive in una tradizione che l’Italia ha molto frequentato, da Goffredo Petrassi a Egisto Macchi e via via fino a Luciano Berio, fino a esperimenti più rock, punk, jazz. 

Dunque, per rispondere alla tua domanda di prima, le cose nascono separate, se consideriamo l’analisi grammaticale dei due linguaggi, ma le esperienze si sono molto integrate.

Demuru in Bellas Mariposas di Annalisa Bianco

Le voci e le storie che metti in scena sono molto diverse: alcuni personaggi sono dentro un ruolo più codificato, come lo youtuber, altre sono più in azione spontanea, come la voce del messaggio Whatsapp…

Certo. Ed è molto più difficile restituire la verità nel primo, nello youtuber, perché ha un consapevolezza di essere ascoltato, uno stato che rompe e recupera di nuovo. Ed è questo che devi rispettare, la poesia del passaggio dalla descrizione del gioco a quando risponde veramente alla nonna e poi si rivolge nuovamente al suo uditorio. Poi c’è anche un altro problema: quel documento arriva a noi già editato, e quindi manca dei tempi morti naturali. Tuttavia, rispettare questi stacchi bruschi ci permette di restituire quella follia di un linguaggio completamente alterato dal mezzo al quale siamo però abituati. Il personaggio del messaggio Whatsapp è iper-controllato, anche lui passa da un registro a un altro con una velocità che manifesta i molti punti di vista interni che manteniamo in un discorso, la nostra non linearità di pensiero. 

Ci sono anche dei personaggi in cui anche se non c’è un medium, come per gli audio registrati e poi montati, c’è un ruolo molto codificato che indirizza la modalità di espressione, come per esempio l’oratore al comizio, il pubblico ministero, la venditrice al mercato…

Quante persone mi stanno ascoltando o ritengo mi stiano ascoltando? È chiaro il discorso epico dell’altro comizio: sa a chi rivolgersi, quindi ha un determinato modo di muoversi e di porgere la voce, una costruzione retorica da grande politica, ma a un certo arriva una stanchezza nella sua voce, ha parlato troppo e la sua voce cala, in maniera naturale, riprende fiato.

Sembra quasi che non sia più italiano.

Non lo è. Ecco questo era un altro dei problemi che abbiamo dovuto affrontare. Non volevamo che si ridesse di questo uomo, quindi anche il suono gutturale che spesso identifichiamo nella parlata dell’africano e che pure lui ha, non doveva emergere in maniera grottesca. Non rincorrevamo l’effetto della satira televisiva, che è sempre sopra le righe; si tratta di restituire la dignità di quelle voci, ed è difficilissimo.  

Se ci pensi, questo mix tra spontaneità e codice artefatto ci pervade; l’intuizione di Encyclopédie de la parole sta nell’aver compreso che questo mix in teatro diventa qualcos’altro perché il teatro stesso o è una decodificazione continua. Molti artisti che sostengono di fare una ricerca della verità della parola, poi spesso appaiono monocordi, perché hanno l’idea che così si sia più veri. Ma anche questo è già un codice, inoltre nella vita noi parliamo utilizzando molti più toni!

Demuru in Il cielo non è un fondale di Compagnia Deflorian Tagliarini

Per noi vale moltissimo anche il discorso della provenienza, l’aderenza a una lingua che magari non è solo l’italiano ma anche un dialetto di una piccola regione…

Io ad esempio, da sarda ho dovuto fare un grande lavoro sulla lingua, lavorando a Firenze. In più, non volevo essere identificata in base a quel codice. Si insiste così tanto sull’identità come se fosse qualcosa riconoscibile dall’orologio che porti, da determinati simboli, quando invece la nostra proiezione all’esterno è un atto teatrale, sempre. Tutto questo ha anche una ricaduta politica, l’identità come purezza è un’aberrazione che speravamo fosse stata smontata all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, ma evidentemente non è così. Io ho capito che sono innamorata delle crepe e delle cadute dell’io che ciascuno porta nella costruzione del sé. Certo, è poi fondamentale fare un lavoro di scavo approfondito per capire dove stai tu, però l’immaginazione, la fantasia di voler essere qualcos’altro non è solo un principio che accede all’arte ma anche un principio di salvezza dell’essere umano: se l’essere umano non avesse un desiderio, che è un’immaginazione molto forte, non si salverebbe.

Viviana Raciti

 

Visto al Teatro India, marzo 2020

JUKEBOX ‘ROMA’

un progetto di Encyclopédie de la parole
direzione artistica Elise Simonet
regia Joris Lacoste
con Monica Demuru
Drammaturgia e coordinamento dei raccoglitori: Francesco Alberici e Riccardo Fazi
raccolta dei documenti audio Francesco Alberici, Monica Demuru, Joris Lacoste, Elise Simonet, Matteo Angius, Maddalena De Carolis, Riccardo Fazi, Federico Paino, Giorgia Vignola (Roma); Tommaso Carovani, Lorenza Guerrini, Andrea Livi, Veronica Tinnirello (Prato); Sophy Benar, Elisa Comparetti, Andrea Melis, Claudio Mura (Cagliari)
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
In collaborazione con Échelle 1:1, Short Theatre
Fondazione Teatro Metastasio/Contemporanea Festival, Sardegna Teatro

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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