Spettatori Migranti collabora con il progetto palermitano Diverse Visioni. Il gruppo allargato ha avuto la possibilità di assistere a My Place di Quieora Residenza Teatrale con la regia di Silvia Gribaudi.
Mentre parliamo dello spettacolo My Place di Quieora Residenza Teatrale, regia di Silvia Gribaudi, con il gruppo di visione composto per la maggior parte da ragazze nigeriane ospiti di una casa per giovani donne migranti con figli, la parola che esce fuori con più ricorrenza è “libertà”. Sul cartellone che appendo nella sala della Consulta delle Culture di Palermo dove ci vediamo il giorno dopo lo spettacolo, alla domanda “cosa racconta a me lo spettacolo?” appunto come risposte, tra le altre: «È una storia per stare liberi. Una battaglia per la mia identità. Libertà. Il mio corpo è la mia casa. Libertà nel teatro».
Le suggestioni sul rapporto tra corpo e casa proposte con My place da Francesca Albanese, Silvia Baldini e Laura Valli nello spettacolo visto il giorno prima alla Spazio Franco all’interno dei Cantieri culturali alla Zisa, si fondono così in un luogo e in un tempo nel quale sentirsi liberi, così come le tre performer fanno corrispondere alla parola casa il loro corpo, quell’involucro fatto di carne e ossa che ci definisce nel rapporto con gli altri, quel corpo fisico e psichico che in un esercizio di libertà mettono a nudo, letteralmente in mutande, e fanno muovere liberamente.
La domanda successiva che ci facciamo per dialogare con lo spettacolo è quindi il chiederci dove e quando mi sento libero? «Quando parlo la mia lingua, Edo, senza sbagliare». «Nella mia casa». «Nel mio telefono, quando parlo con i miei amici». E mentre parliamo ripenso a quando, prima di entrare a vedere lo spettacolo, con Mahamadou Kara provavamo a scambiare, con difficoltà, qualche parola con Jennifer, Happy e le altre ragazze nigeriane appena arrivate. Quanto quel loro silenzio facesse sembrare quei corpi, quelle case, a tratti disabitate e a tratti con le luci spente per fingere che dentro non ci fosse nessuno. Forse solamente in attesa di sentirsi libere, di risentirsi loro stesse “casa” come «quando sto con persone che non criticano». «Quando nuoto nel mare». «Quando lavoro». «Quando sto con persone che mi piacciono». «Quando creo». «Dopo aver finito qualcosa che è mio dovere fare». O come quando le performer animavano la scena e tutti noi ridevamo e ci alzavamo in piedi a ballare come case spalancate in una notte di festa.
Omnia mea mecum porto. Tutte le cose sono con me, recita a un tratto lo spettacolo. Nascosti nell’ombelico, sotto le ascelle, tra le dita dei piedi o sotto la lingua delle performer, cerchiamo nuovi modi di sentirci liberi.
Prima di salutarci, prepariamo tre domande per Francesca Albanese, Silvia Baldini e Laura Valli che ci rispondono dall’altra parte del telefono, mentre in macchina raggiungono Catania per la prossima replica.
Perché avete deciso di fare questo spettacolo?
Perché ci piaceva l’idea di lavorare sul tema della casa, un tema che ci toccava tanto. Avevamo voglia di lavorare con Silvia Gribaudi in un lavoro che coinvolgesse il corpo. La casa è una questione necessaria nella vita, sia praticamente che come questione dell’anima e in quel momento ognuna di noi era stata toccata nella propria realtà da questo problema, era un tema per noi molto vivo.
Perché diciamo che questo è uno spettacolo di danza?
Questo è uno spettacolo non proprio di danza ma di teatro fisico, perché si usa tanto il movimento ma allo stesso tempo è uno spettacolo che rompe i codici e le forme conosciute della danza per vivere il corpo e il movimento in maniera più libera. Rischiamo tutto. Noi non siamo danzatrici, non usiamo un codice di danza tradizionale, ma sicuramente la caratteristica che lo fa essere diverso dagli altri spettacoli è quella di essere un montaggio di situazioni che hanno più un percorso emotivo che una storia vera e propria, nel quale il linguaggio che prevale è quello del corpo. È il corpo e quello che passa muovendosi che danno forma allo spettacolo, in questo senso è danza. Poi il corpo, qualche parola, le immagine, la musica, tutto racconta.
Qual è il punto cui vorreste arrivare attraverso l’ironia?
C’è un autore italiano molto famoso per bambini, che è Gianni Rodari, che diceva che si possa imparare ridendo invece che piangendo. In linea generale, nel nostro percorso artistico della compagnia, anche quando facciamo spettacoli più “tradizionali”, siamo convinte che ci sia assolutamente bisogno di un cambiamento radicale. È giusto fare le lotte politiche ma è anche giusto che questa battaglia parta dal basso e da ogni singolo. Allora crediamo che lo strumento dell’ironia sia possibile per tutti ed è quello che abbiamo scelto per comunicare i nostri contenuti, i nostri sogni, i nostri conflitti. E poi ci viene meglio anche in scena, ci piace, e pensiamo che questo possa mettere ogni persona nella condizione di sentire il conflitto sulla pelle e di poterlo risolvere non solo attraverso qualcosa di violento ma anche mediante qualcosa di leggero, di gioioso, di cambiamento profondo dentro di sé prima di tutto.
Luca Lotano
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