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Romeo Castellucci, La vita nuova. Ribaltare il reale

Recensione. Romeo Castellucci ha messo in scena La vita nuova durante ART CITY a Bologna. Un approfondimento

Stefano Triggiani

“Qui non c’è libertà.

Se vuoi stare qui, puoi starci

Ma non c’è libertà”

Qui è un magazzino dello scalo ferroviario bolognese. Qui è il Kanal, il più grande deposito Citroën, a Bruxelles. Qui è dove La vita nuova di Romeo Castellucci ha occupato spazi prima abbandonati, poi rigenerati e donati al circuito dell’arte e della cultura. DumBo e Kanal-Centre Pompidou sono due fra i molti hub sorti nelle ex aree industriali delle città occidentali, come se quelle forme, fra il tetro e il solenne, avessero un’intrinseca resilienza, una disponibilità a trasfigurarsi per ospitare il nuovo. Che, nella visione di Castellucci, conserva però un legame con l’origine storica di quei luoghi. Colonne di auto tornano a occupare gli hangar, perfettamente allineate, puntate verso il pubblico, protette da teli candidi. L’atmosfera sonora di un pascolo, un tappeto liquido di scampanellii e cinguettii tessuto da Scott Gibbons, introduce un respiro di natura in queste cattedrali spogliate. Così, con un contrappunto sinestetico, incipit vita nova. C’è infatti la luce trasognata di un inizio, ma il bagliore aurorale ha la temperatura dei neon che, intermittenti, corrono lungo il soffitto, paralleli alle auto. Una nebbia siderea sembra crescere dal fondo del capannone. Verrebbe voglia di entrare nell’installazione, verificare la profondità del paesaggio-tunnel per assicurarsi che non sia un sogno. 

Tutto comincia nel luogo. Nel 2018 il Kanal-Centre Pompidou ha commissionato l’opera al regista cesenate, che, appresa la funzione dismessa dell’enorme complesso industriale, avrà forse ricordato le carcasse di auto che piovevano dal cielo nel sesto episodio della Tragedia Endogonidia. Anche in quel caso auto private della loro ratio, ovvero della possibilità di trasportare: auto abbandonate, fantasmi di auto, auto deposte. Ne La vita nuova i teli bianchi velano infatti i corpi meccanici come un sudario, destando un pathos che ne trasfigura l’inerte materialità verso un principio di vita più animale che umana: nelle sonorità campestri le auto velate di bianco assumono l’aura di un gregge. Cinque performer fanno capolino ad una certa profondità del tunnel, una distanza che mette in crisi lo sguardo: non dal fondale, come vorrebbe una consuetudine scenica, né dai lati ad occupare il primo piano, come fosse una ribalta.

Stefano Triggiani

Non siamo in una scatola teatrale. I cinque imponenti corpi neri, con tuniche bianchissime, ulteriormente innalzati da scarpe femminili con tacco, cominciano una liturgia gestuale lenta e misurata. Tornano alla mente i primi passi di Democracy in America: una glossolalia, una lingua altra per immettere ad una realtà altra, qui però ancora afasica. Nella coreografia sta un codice, di cui si può tentare la decifrazione: simboli ditirambici, le scarpe-coturni, un ramo d’oro che riporta alla catabasi di Enea. Ma al di là di ogni interpretazione del segno, quella danza composta e silenziosa consente di abbandonarsi alla pura sensazione, all’aisthesis in senso etimologico. Il ramo d’oro è consegnato ad uno spettatore in prima fila, che lo sorreggerà per l’intera durata della performance, un gesto elementare di consegna che incarica il pubblico del ruolo testimoniale. L’intera dinamica dell’evento allude alla partecipazione rituale: raccolti all’ingresso della struttura, eravamo stati invitati ad avvicinarci al luogo della performance pochi minuti prima dell’inizio, per poi attraversare un corridoio oscuro, dal soffitto basso, all’ingresso dell’hangar. La performance inizia nello spazio extra-diegetico, con una subliminale attivazione dell’individuo chiamato a riconoscersi comunità nelle figure esplicite della fila in attesa, degli attraversamenti spaziali, della porta stretta e, infine, dello spazio che si dilata in una vera e propria aula liturgica. È tale esperienza processionale dello spazio a produrne la semiosi, ovvero: alla convenzione del capannone come spazio funzionale si sovrascrive la percezione dell’atmosfera sacrale. Nulla di estraneo al disegno di architetture simili: la semplice sezione a capanna, la coincidenza di forma e struttura ricordano, a ben vedere, tratti archetipici degli spazi sacri, come la casa nell’intuizione del bambino, la sala polistile, o una chiesa gotica. 

Prosegue così l’affondo teurgico di Castellucci nella «disciplina della rappresentazione occidentale» (per usare le parole dell’artista), dove teurgia non è religione, o spiritualità, ma la pratica tutta umana volta a stabilire un nesso col divino. Si può infatti dire che nessun dio prenda parte in questa cerimonia straniante per corpi e auto, una messa anche nel senso della struttura drammaturgica: al rito iniziale (ed iniziatico), segue una liturgia della parola scritta, in forma di canto, da Claudia Castellucci e declamata da uno dei performer. La parola non interroga alcuna entità ultraterrena, ma evoca la più divina delle tensioni umane: la libertà. Una libertà che qui «non c’è», cosicché il luogo assume valore storico e negativo: qui è la catena di montaggio, la scena del lavoro alienato; qui è lo sfruttamento della manodopera degli immigrati. A Bruxelles, il Kanal sorge in un quartiere operario, oggi popolato da una maggioranza di cittadini stranieri. I corpi forti degli operai di colore, le macchine, ecco le presenze della performance.

Stefano Triggiani

Cosa possono cantare questi uomini della periferia, convenuti nella vita notturna di un garage? Per i Castellucci essi «sono fratelli e intendono inaugurare un modo nuovo e migliore di stare insieme. Migliore, rispetto a che? Al mondo da cui si sono separati, all’attività alienata, al lavoro stipendiato, alla politica e all’arte». Un’invettiva, dunque, che getta un ponte fra il lavoro sottopagato degli immigrati e la mercificazione dei processi artistici, lanciata durante una kermesse artistico-fieristica di rilievo internazionale. La vita nuova è infatti parte del programma di ART CITY Bologna 2020, in un fitto cartellone di mostre e incontri. Non stupisce che l’ingresso alla performance fosse a titolo gratuito (con posti limitati e andati sold out in pochi minuti), rinnovandosi quell’attenzione della Societas a mettere in discussione l’accessibilità alla fruizione teatrale. 

“Le esposizioni di arte contemporanea sono frequentate 

da centinaia di migliaia di artisti 

che non riescono a esporre” 

Quale la colpa di queste forme di arte autoreferenziali? Aver dimenticato la disciplina dell’ornamento, il compito di decorare le cose semplici della vita quotidiana. 

“Di nuovo la materia, fidarsi della materia.

Un’arte dell’uso

per dare valore a qualsiasi cosa.

Un prontuario per ornare con solennità la povera vita quotidiana.

Per le soglie delle case,

per tovaglie e asciugamani,

per tappeti e coperte,

per stoviglie e coperchi.

Arte applicata, di tipo utilitario.

Scritte istoriate,

come nell’antico Egitto.

Scritti miniati,

come nei libri di canto medievali”

Stefano Triggiani

I Castellucci citano il pensiero di Ernst Bloch, il suo recuperare alla visione sociale del marxismo la spinta propulsiva dell’utopia «deve dominare la grande tecnica, il “lusso” per tutti, il lusso democratico e ingegnoso che allevia la fatica e dà refrigerio, una ricostruzione della stella Terra che miri a eliminare la povertà, a trasferire la fatica sulle macchine […] deve dominare la grande espressione che di nuovo diriga l’ornamento in profondità e conceda alla pena interiore, che risuona nel silenzio della preoccupazione esterna, i chiari segni della comprensione, i puri ornamenti della soluzione» (E. Bloch, Spirito dell’utopia). La vita nuova non rimanda infatti all’opera dantesca, ma alla citazione che Bloch stesso ne fa: «invocando ciò che non c’è ancora, cercando e costruendo nell’azzurro il vero, il reale, là dove il puro dato di fatto scompare – incipit vita nova» (ivi). Ma è impensabile costruire il reale senza una sovversione della realtà. Così la macchina, metafora della produzione alienata, viene spogliata del velo bianco e, come una vittima sacrificale, rivoltata su sé stessa in uno spesso silenzio rotto solo dal pianto metallico di lamiere e pneumatici. Di contro, l’ostensione di un tappeto consacra la cura viva dell’artigianato.

Siamo di fronte alla celebrazione passatista di un modo di produzione irrecuperabile? L’interpretazione didascalica, la proiezione di un intento pedagogico, di una rivoluzione a tesi, è un rischio concreto. L’intera opera di Castellucci è percorsa, d’altro canto, da modalità catechetiche, sia pure sistematicamente negate dall’artista. Ma più che alle sue parole, sono le tracce della scena a richiudere l’orazione in sé stessa, in una circolarità misterica, indisponibile ad una lettura naturalistica. Vale il paradosso dell’auto rovesciata, il suo motore smontato che tuttavia resta acceso e dà la coppia ad una ruota che gira:

“Le ruote capovolte

sono i percorsi celesti

cui sono rivolti gli oggetti terrestri”

L’automobile dormiente, o ribaltata, non è solo il mezzo destituito, prodotto di una catena di montaggio alienante. È la teofania stessa in questa liturgia, l’oggetto della rappresentazione in antitesi al soggetto umano. Come a dire la Tecnica, che, come ricordava un grande filosofo scomparso da pochi giorni, esautora l’uomo in quanto soggetto della Storia. L’automobile adagiata su un fianco viene ruotata come le lancette di un orologio e mostra, alternatamente, un busto scultoreo, un teschio, un sacchetto di arance: segni di bellezza e morte, di natura e artificio, appesi sotto il pianale come corpi investiti e intrappolati nel telaio. In tal senso, ne La vita nuova rivive la tensione fra corpi e oggetti, entità parimenti attanti, che abita l’intero percorso della Societas. Viene alla mente, fra gli altri dispositivi, il braccio-pugnale meccanico che, nell’Oresta, il protagonista indossa per uccidere la madre.

La vita nuova cantata da queste apparizioni nottambule è dunque solo una finzione, o un enigma, o un sogno? Possiamo rileggere Bloch cercandovi la direzione praticabile di un cambiamento? L’impressione è che di quel pensiero filosofico venga distillata, nel canto, l’essenza poetica. L’ornamento, la solerte pratica dell’artigiano sono figure storicizzate di un’utopia possibile fra le altre. Un’utopia che non è sogno irrealizzabile, ma, con lieve torsione etimologica, un luogo buono (eu-topos e non ou-topos), proprio come lo intendeva Bloch. Per reificare l’utopia, dunque, questi pastori dell’«essere spento» celebrano una vita nuova per il luogo in cui ci troviamo. 

Andrea Zangari

Leggi anche: Romeo Castellucci. Tutti gli articoli, le riflessioni e le recensioni degli spettacoli

Bologna, Gennaio 2020, ART CITY Bologna 2020

La vita nuova

Special project ART CITY Bologna 2020

Concezione e regia di Romeo Castellucci

testo di Claudia Castellucci

musica di Scott Gibbons

Con Sedrick Amisi Matala, Abdoulay Djire, Siegfried Eyidi Dikongo, Olivier Kalambayi Mutshita, Mbaye Thiongane

Assistenza alla regia: Filippo Ferraresi

Progetto curato da Lorenzo Balbi, in collaborazione con Istituzione Bologna Musei | MAMbo, Emilia Romagna Teatro Fondazione

Produzione esecutiva di Societas in coproduzione con Bozar, Center For Fine Arts (Brussels), Kanal – Centre Pompidou (Brussels), La Villette (Paris), in collaborazione con V-A-C Foundation

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Andrea Zangari
Andrea Zangari
Architetto, laureato presso lo IUAV di Venezia, specializzato in restauro. Ha scritto su riviste di settore approfondendo il tema degli spazi della memoria, e della riconversione di edifici religiosi dismessi in Europa. Si avvicina al teatro attraverso laboratori di recitazione, muovendosi poi verso la scrittura critica con la frequentazione dei laboratori condotti da Andrea Pocosgnich e Francesca Pierri presso il festival Castellinaria prima e Short Theatre poi, nel 2018. Ha collaborato con Scene Contemporanee, ed attualmente scrive anche su Paneacquaculture. Inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica a fine 2019, osservando la realtà teatrale fra Emilia e Romagna.

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