Recensione. Al Teatro Verdi di Padova abbiamo visto Una banca popolare, scritto da Romolo Bugaro e diretto da Alessandro Rossetto, una produzione dello Stabile del Veneto e di Joele Film.
Concettualmente è un gesto importante quello del Teatro Stabile del Veneto, che prende le mosse da un bisogno territoriale e per sua natura anche nazionale (basti pensare alla Banca Popolare di Bari, recentemente sottoposta alla procedura di amministrazione straordinaria da parte della Banca d’Italia): parlare di quel grande crack bancario che ha segnato profondamente la storia della finanza veneta. La Banca Popolare di Vicenza (i cui vertici sono a processo in questi giorni), nel 2017 ha subito liquidazione coatta amministrativa facendo affondare risparmiatori a cui erano state vendute delle quote della società. Ai clienti venivano ceduti pacchetti azionari, legati a doppio filo alla stabilità della banca, sostanzialmente a chi voleva avere un mutuo era assai probabile che la banca chiedesse di diventare socio; intanto lo Stato imponeva alle Popolari di quotarsi in borsa. Quando i conti iniziano a non tornare più anche il valore dei risparmi decade, fino a cancellare interi patrimoni e a mandare famiglie in bancarotta. Si parla di migliaia di clienti rimasti impigliati nei crack degli istituti finanziari che hanno avuto ingenti perdite negli ultimi anni.
Il teatro diretto da Massimo Ongaro affida al regista cinematografico (importante documentarista soprattutto) Alessandro Rossetto l’allestimento e allo scrittore Romolo Bugaro il lavoro drammaturgico, con l’obiettivo di «portare sul palcoscenico una riflessione sul sistema bancario veneto e sulla sua crisi»; due professionisti provenienti dunque da una carriera legata non prettamente al palcoscenico. E purtroppo questa mancanza è immediatamente visibile sia nel testo che nella messinscena. La scrittura ha spunti letterari molto interessanti per la creazione delle atmosfere, il tratteggio di certi caratteri, la violenza con cui vengono ritagliati questi piccoli, e umanamente poveri, esseri che si ritrovano in una sera d’estate a una grande festa in villa: rampolli del Nordest, piloti di quella locomotiva d’Italia che negli anni ’80 vedeva proprio la Popolare di Vicenza espandersi in tutta la regione e non solo. Ora sono fotografie ingiallite di un benessere che apparteneva a tutti, ora non possono far altro che danzare, come in un lunga scena de La grande bellezza, ora non rimane loro altro che ballare gridando tra i denti ‘si salvi chi può. E questo elemento della danza, che si esprime quasi senza soluzione di continuità, questo ballo esasperato su ritmi caraibici e latini, è forse una caratteristica da salvare, insieme alle interpretazioni attoriali di Mirko Artuso, Valerio Mazzucato, Diego Ribon, Fabio Sartor, Davide Sportelli, Sandra Toffolatti.
I problemi arrivano quando si cerca un senso più alto dietro i dialoghi con i quali gli invitati a questa grande festa si feriscono dall’inizio alla fine. La drammaturgia è bipartita, nella prima parte gli avventori si distruggono, si sviliscono con scambi taglienti in cui non vengono risparmiati gli assenti. Un medico di pronto soccorso rappresenta la società civile, forse unico esempio positivo, che ha l’occasione di spiare un’intera classe sociale in decadenza. Colletti bianchi, imprenditori, mogli frustrate e annoiate, amministratori delegati, parlano del più e del meno, per poi toccare, solo dopo alcune scene, la questione della banca. Il tasto è delicato e le buone maniere spariscono. Nello spazio scenico un fondale viene utilizzato per rappresentare l’interno della villa, è un parallelepipedo sul quale Rossetto proietta in bianco e nero l’eterna festa, nel quale entrano ed escono gli attori. Nella seconda parte arriva anche l’invitato assente fino a quel momento, Gianfranco Carrer, il presidente della fondazione bancaria, il deus ex machina della Popolare del Nordest (il nome di finzione usato per parlare della banca). Qui lo spettacolo cambia pelle, si trasforma in un lunghissimo monologo nel quale Carrer cerca di spiegare le proprie ragioni.
Fabio Sartor è un leone del palcoscenico, ce la mette tutta, ma purtroppo l’arringa difensiva (d’altronde Bugaro è anche avvocato) più che tentare di ripercorrere la storia della banca, parlare di dati ed entrare sostanzialmente nella complessità di un tale disastro non fa altro che puntare il dito contro i grandi imprenditori che nei decenni precedenti si sono serviti della banca per far crescere le proprie attività e nel momento più difficile hanno abbandonato la grande madre come dei figli degeneri. C’è sì il tentativo sul finale di ripercorrere la vicenda attraverso le ispezioni della Guardia di Finanza o raccontando le proteste dei piccoli risparmiatori: «Fino al giorno prima eravate in agenzia a chiedere il mutuo, il finanziamento, tutti sorridenti davanti al direttore, e adesso là, davanti al portone, con la bava alla bocca…», ma tutto è filtrato attraverso la soggettiva del presidente, l’unico che può difendersi giocando la carta del capro espiatorio, l’eroe che elargiva finanziamenti sulla fiducia permettendo al tessuto imprenditoriale della regione di crescere e fortificarsi.
Poteva essere l’occasione per cercare la via documentaristica, civile ed entrare così all’interno di meccanismi finanziari complessi tentando di avvicinarli allo spettatore, invece i due autori si sono lasciati trascinare dall’impressionismo, dalla ricerca di un immaginario poetico decadente, riconoscibile ma poco sorprendente, e che soprattutto non si mette a servizio di una profonda riflessione sulla vicenda.
Andrea Pocosgnich
Padova, Gennaio 2020, Teatro Verdi
Una banca popolare
di: Romolo Bugaro
con (in o.a.): Mirko Artuso
Valerio Mazzucato
Diego Ribon
Fabio Sartor
Davide Sportelli
Sandra Toffolatti
regia: Alessandro Rossetto
aiuto regia: Angela Gorini
scene: Alberto Nonnato
costumi: Marianna Peruzzo
luci: Paolo Pollo Rodighiero
paesaggio sonoro: Lorenzo Danesin
montaggio video per Jolefilm: Alessandra Cernic
direttore di scena: Federico Rossi
video/audio: Nicolò Pozzerle
macchinista: Roberto Rossetto
sarta: Silvana Galota
realizzazione scene: Keiko Shiraishi
durata: 1h 30′ senza intervallo