La Regina Coeli di Carolina Balucani con Matteo Svolacchia, dedicato alle madri di figli morti in carcere, al debutto per il Premio Dante Cappelletti al Teatro India di Roma. Recensione
Noi non c’eravamo. Nelle notti infreddolite di un parco alla deriva dell’umanità sconfitta, nei dentro-fuori degli ospedali, dei pronto soccorso, delle sale d’aspetto, dei commissariati; noi non c’eravamo nei compleanni senza candelina, nelle orazioni senza sacerdote, nell’intermittenza di una luce artificiale che nasconde il buio di amori baraccati; noi eravamo lontani e quando ci siamo avvicinati l’abbiamo fatto con la paura dell’ignoto, con le labbra a tremolare un rifiuto, con la mano a tenere stretto un portafogli levigato. Loro, loro invece c’erano, insanguinati dal sangue proprio o quello altrui, non ha più senso saperlo, senza aria che non sia di seconda mano, anidride carbonica venduta per ossigeno, ché solo quella resta ai derelitti, malfamati, drogati e senzatetto. È questo il sentimento che non si riesce a deglutire, di fronte al La Regina Coeli di Carolina Balucani, visto al Teatro India di Roma durante l’ultimo Premio Dante Cappelletti, vinto nella scorsa edizione.
C’è un giardinetto, di quelli dove il giorno vanno i ragazzini a ridere insieme, la notte i drogati a piangere da soli. La luce, scarsa, di qualche lampione, ma non si vede; e dentro un ragazzo che parla ad altri, parla a un voi non identificato, ma pare certo come quei “voi” abbiano identificato lui, o almeno lo abbiano definito, codificato, etichettato senza il diritto di smentita, da smaltire come rifiuto, privo di identità e dignità. L’attore (Matteo Svolacchia, solo in scena) è in abiti di un ragazzo di borgata, in una scena essenziale che si arricchisce del dinamismo della luce, incarna con qualità e dedizione un personaggio dall’identità indefinita; il ragazzo si rivolge a una sorta di autorità nascosta, ma che lui ben conosce, lo fa con rispetto e paura, usa modi gentili perché c’è da preservare il dolore di chi resta, di fronte alla depravazione del diritto, di fronte alle percosse, le violenze, i soprusi che non danno scampo alla vita di chi li subisce.
Regina Coeli è una figura di madre, evocata, non presente, espressa dentro la dolcezza di una voce che non vuole farla preoccupare; la madre è una luce, madonna che assimila la colpa dell’essere madre: la storia si articola ricalcando riferimenti evangelici ma li svolge in un movimento unidirezionale che solo esprime il dolore, tutto umano, senza la consolazione dell’essere divino: non è il Cristo, ma la pecorella smarrita, la figura che in un Getsemani contemporaneo è incatenata in un proposito di eliminazione, il peccatore che la società espelle per considerarlo un peso, inutile al suo stesso sviluppo.
Il testo di Carolina Balucani è irrorato da una decisa volontà, una passione per una società civile che sappia davvero integrare una risposta definita perché gli episodi, molteplici, che affollano la nostra cronaca, possano estinguere le loro drammatiche conseguenze; è la storia di tanti, ognuno senza nome perché non serve: Stefano, Davide, Federico, Giuseppe, ognuno a suo modo si affaccia tra le parole che avvolgono in un ultimo abbraccio la “pecorella” che urla straziata e tutte le madri senza riscatto; sono allora parole scavate in una necessità eloquente, in cui mescolate resistono intonazioni popolari e spirituali, arricchite dal contrasto tra la forza estrema della vita che vuole ancora affermarsi e una desolazione smagrita come i corpi cui l’anima poco ancora concede, mentre afflitta, violata, li abbandona.
Simone Nebbia
Teatro India, Roma – Dicembre 2019
LA REGINA COELI