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Papà ci vediamo su WhatsApp per fare teatro

Riflessione sul laboratorio di Kepler 452, Uguale ma più piccolo, sul rapporto genitori-figli, all’interno del bolognese Festival 20 30.

Foto Ufficio Stampa

Inevitabile, come essere figli: ogni essere che appare, lo fa per filiazione. Dicendo figlio dunque lo sguardo si sdoppia, anzi si triplica includendo un padre ed una madre. O potremmo dire genitore uno e genitore due. Ma qui non si tratta di ontologia, né di attualità etico-politica, né tanto meno di orecchiabili tormentoni social. Si tratta di un laboratorio, qualcosa di operativo, ludico: uno fra quelli che disegnano la spina dorsale della programmazione del Festival 20 30. Un evento ormai caro alla comunità dei giovani bolognesi, vuoi per gli spettacoli gratuiti, vuoi per gli eventi collaterali, o vuoi proprio per i laboratori aperti a tutti quanti rispettino il requisito d’età. Lo scrive chi nelle prime edizioni del festival faceva parte di quella comunità: 20 30 si è da subito saputo radicare nel tessuto generazionale cittadino, anche fra chi di norma non fa parte del pubblico teatrale. Che siano i giorni del festival, in città, si sa: forse per la spontanea auto-identificazione con una comunità in crisi collettiva, che quegli estremi anagrafici chiamano a raccolta.

Foto Ufficio Stampa

Inevitabile sarà dunque sembrato a Nicola Borghesi ed Enrico Baraldi, dei Kepler-452, mettere apertamente a tema la questione dell’essere figli. Inevitabile come recita lo slogan di questa sesta edizione del festival, di cui Baraldi condivide da quest’anno la direzione artistica con la generazione 20 30, il gruppo di under 30 che ha partecipato ai laboratori delle precedenti edizioni. Uguale ma più piccolo ha messo insieme nove ragazzi, non tutti con una formazione teatrale. La call partiva da quesiti quanto mai trasversali: “Chi sono i nostri genitori? Cosa hanno a che fare con noi? Ci sembra proprio di conoscerli bene, ma è davvero così? Come guardano la realtà, in un modo che assomiglia al nostro o in modo inconciliabilmente diverso? Fino a quando si è figli? Come ci si lascia alle spalle la propria famiglia di origine?” Domande che aprono un orizzonte di lavoro tanto ampio quanto rischioso: lo sguardo, allargandosi e stringendosi fra l’individualità e la società, oscilla fra potenziali, parallele accentuazioni emotive e retoriche. La scelta metodologica di Baraldi e Borghesi è di non porsi al riparo da quei rischi, abbracciando e facendo abbracciare, invece, l’autobiografismo, la testimonianza viva, lasciando ai ragazzi totale libertà drammaturgica nel sondare la propria condizione filiale. Né si poteva fare diversamente, se l’auspicio che Nicola Borghesi ci rivolge subito prima della restituzione al pubblico è che questa generazione “si riprenda la scena”. E nonostante quello di lavorare in scena su sé stessi, senza mediazioni, sia un territorio ostico, seguendo il processo da vicino nei giorni delle prove si è avuto conto di un lavoro pienamente teatrale, osservabile dunque senza tare giovanilistiche. Ferma restando una legittima parsimonia nell’uso di termini, inessenziali nell’economia di un laboratorio aperto come questo, quali “attore” e “personaggio”. Tanto più che le due istanze sono giunte comprensibilmente a sovrapporsi nell’elaborazione di chi non ha una formazione teatrale alle spalle.

Foto Ufficio Stampa

Si è dunque trattato di interrogare per direttissima le figure genitoriali, alla ricerca delle proporzioni e del senso della personale eredità. Eredità che, d’altro canto, molto ha a che fare con la più inestirpabile delle nostre maschere, così vicina all’epidermide da introflettersi in interiorità, ma anche così concreta da essere corpo, corredo genomico che si sgomitola fino a comporre la profezia di un destino già scritto. Lo stesso titolo, Uguale ma più piccolo, evoca uno specchiarsi che ci ricorda quel senso universale di essere figli in quanto copia difforme. Un adagio che si annida in qualche anfratto della memoria di ognuno, sin dalla culla: “tutto suo padre”, o “tutto sua madre”. Un aut aut, appunto: ai ragazzi è stato chiesto di interrogare una sola figura, riproponendosi quel dilemma che nella mente di ogni figlio è risuonato mille volte. La scelta a monte illumina di per sé i tic, le pose, gli sguardi, le parole, persino gli outfit. Come una chiave musicale, una tensione di fondo che precede il modo in cui ognuno sta sul palco. Ed è curioso notare come il grado di consapevolezza scenica non eluda quel richiamo. Si vorrebbe che Berines, Claudia, Eleonora, Leo, Martina, Matteo, Sara, Susanna, Valerio possano rivedersi con l’occhio dello spettatore, per seguire le due ricche partiture offerteci: quella consapevole, costruita con la faticosa immersione in un laboratorio dai tempi contingentati, e quella che la scena ri-crea per sublimazione e mescolamento.

La scelta di metodo di Baraldi-Borghesi è appunto di limitarsi a operare sul montaggio, lasciando fiduciosamente intoccata l’autonomia compositivo-drammaturgica, in nulla limitando un caos di linguaggi che è segno della condizione storica. Fra i sintomi di questo disordine comunicativo, WhatsApp diventa il medium drammaturgico d’elezione. Frammenti di conversazione proiettati a schermo, messaggi audio, o chat performate in diretta sul palco. La forma e i contenuti delle relazioni misurano l’ampiezza della faglia intergenerazionale, nell’idiosincrasia tecnologico-mediatica. Banalmente, in quel modo spesso goffo, innegabilmente difforme degli “over” di usare WhatsApp. Eppure, o forse proprio per questo, i genitori demandano alla chat il riempimento della loro assenza sul palco, in prova, in platea.

Foto Ufficio Stampa

Uguale ma più piccolo registra, de facto, una tangibile assenza delle controparti genitoriali. Nessuno stupore, evidentemente: orari e modalità del laboratorio sono stati proibitivi per chi lavora, tanto più se lontano da Bologna. Ma fatto è che sulla scena ci sono solo loro, i figli. Fa eccezione il signor Giorgio Acchiardi, padre di Susanna. Un istrionico ingegnere in pensione che ci ricorda il sorgivo candore affabulatorio di Giuliano Bianchi, il Noè bolognese in scena coi Kepler ne Il giardino dei ciliegi. Susanna e Giorgio hanno lavorato su un divertente dialogo intorno al desiderio, paradossale, che il genitore continui a occupare la nostra scena, che sia ancora il genitore-guida. Ma anche la sua presenza si dà come enigma di una distanza; anche nelle parole che compaiono in uno stesso copione si celebra una separazione (e qui il lavoro drammaturgico si fa più raffinato). Susanna chiede conto a Giorgio del suo disagio a stare in scena, ed è facile, ampliando i confini di quello spazio, elevare la domanda fino a potenza esistenziale. L’attore-figlio è infatti complementare del figlio-attore, spettro che terrorizza le famiglie italiane, quintessenza della precarietà lavorativa.

Attraverso una lingua piana, sorprendentemente scevra di sentimentalismi o enfasi inessenziali, le generose prove dei giovani attori-figli pescano nella propria acerbità un registro plastico e corale non trascurabile per un laboratorio. Tanto più che l’autentica intimità dei materiali di lavoro non viola l’apertura e la condivisione del quesito di partenza col pubblico; anzi la rende vitale. È tangibile la firma dei Kepler, e discreta al contempo. È proprio nell’ironia e nell’orizzontalità di un linguaggio che stringe il pubblico a sé senza scadere nel pop, che non filtra la presenza teatrale dell’io, come nei lavori della compagnia. Si va in scena con la responsabilità proprio nome, fattore che in questo caso è quanto mai pregnante: il nome è il primo gradino di un’eredità, il primo ostacolo ad una libertà che ogni figlio deve trovare. Perché l’erede è anche orfano, non per accidente ma per la radice del nome: heres rimanda a cheros, il deserto, il vuoto, una morte da attraversare. Uguale ma più piccolo è stato un gioco serissimo per condividere lo spavento di quel vuoto, portarlo sul palco, donarlo alla propria generazione. Non è un caso che questa edizione di 20 30 si svolga nei giorni e a pochi metri dalla piazza che hanno dato battesimo al movimento delle sardine. Altri giovani spaventati, che per reazione si stringono in un luogo pubblico come pesci in una scatola. Chissà se fra qualche tempo resteranno più tracce di questo festival o di quel bombastico flash mob. I Kepler-452, intanto, continuano a propiziare una rivoluzione gentile a colpi di teatro. Dalla coscienza di classe a quella generazionale: inevitabile.

Andrea Zangari

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Andrea Zangari
Andrea Zangari
Architetto, laureato presso lo IUAV di Venezia, specializzato in restauro. Ha scritto su riviste di settore approfondendo il tema degli spazi della memoria, e della riconversione di edifici religiosi dismessi in Europa. Si avvicina al teatro attraverso laboratori di recitazione, muovendosi poi verso la scrittura critica con la frequentazione dei laboratori condotti da Andrea Pocosgnich e Francesca Pierri presso il festival Castellinaria prima e Short Theatre poi, nel 2018. Ha collaborato con Scene Contemporanee, ed attualmente scrive anche su Paneacquaculture. Inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica a fine 2019, osservando la realtà teatrale fra Emilia e Romagna.

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