Abbiamo incontrato Mimmo Borrelli una prima volta a Lucera, in occasione della messinscena di Napucalisse – Oratorio in lettura, durante la XVII edizione del Festival della Letteratura Mediterranea organizzato dall’Associazione Mediterraneo è Cultura e dal Teatro Garibaldi della cittadina dauna. Lo abbiamo rincontrato a Napoli pochi giorni dopo per approfondire il discorso sul processo di creazione, di interpretazione e concezione teatrale. Intervista.
La parola è un dono. Come avviene il passaggio in fase di composizione dall’idea alla scrittura?
Questo ha a che fare con la mia idea di teatro. Incomincia tutto dal tavolo di lavoro. Sin da quando ero ragazzo ho avuto la sensazione di non essere molto forte col corpo e per questo ho fatto tutti i seminari possibili. Se affronti la prosa e devi leggere un testo, la cosa che deve partire è il suono e l’interpretazione di quel suono. Il suono non è altro che la concretizzazione di una serie di manifestazioni emotive. La cadenza del suono, la sua stratificazione, le pause, la difficoltà di parlare che si ha in alcuni momenti per trovare le parole sono condizioni dello stato di coscienza, il bisogno di elaborare qualcosa di interessante o anche un’emozione, insomma una serie di fattori che si traducono sempre in un suono. Leggevo Shakespeare in italiano e mi chiedevo in che modo si parlasse quella lingua, mi sembrava non ci fosse alcun nesso con il mio presente. Ho guardato alla lezione di Eduardo, di Petito, di Viviani che mi ha indicato la strada: anche se è un po’ oleografico perché al tempo c’era questa Napoli dei pezzenti, era vero, diretto, aveva un suono pazzesco ed estremamente viscerale. Prima di mandare ‘Nzularchia al Premio Riccione ho appuntato una frase del Faust di Goethe: «Cantare e in versi dire ciò che nessuno mai vorrebbe udire». Per me è una sorta di apostolato, un assioma che rappresenta un punto di partenza per tutte le mie opere. Nella mia prospettiva il teatro deve smuovere le coscienze, altrimenti è inutile, va chiuso se non racconta più il presente. Ho iniziato con ‘Nzularchia, partendo da me, dalle mie paure, dalla paura per l’acqua. Mi sono reso conto che quello che dicevo in italiano non funzionava, funzionava in dialetto, nel mio dialetto, perciò ho formalizzato questa lingua. Non avevo a disposizione un teatro, ma solo la mia stanza, una penna e un foglio. Dovevo prevedere tutto. Nel processo verità-azione-suono quando lavoro con gli attori li interrogo anche per mezz’ora, serratamente e senza sosta, perché bisogna fare esperienza e cercare in sé stessi. La Cupa ha una caratteristica fondamentale per me, si può non capire la mia lingua, alla fine però, senza cogliere tanti particolari, si capisce comunque il senso generale della vicenda. Perciò devo essere feroce e apparentemente mi contraddico: il testo non serve affatto se l’attore non lo tramuta in azione, se non lo rende vivo fino in fondo, attraverso una sorta di studio sui suoi suoni emotivi che poi devono essere formalizzati con precisione come nella danza. Ma non deve diventare estetismo, non deve diventare solo suono, ci vuole il trasporto emotivo, il recupero delle emozioni: appoggiarsi sui suoni e sulle posizioni del corpo e, siccome ogni emozione ha base organica, organicamente piango senza avere nessun pensiero in scena.
I tuoi lavori lasciano irrevocabilmente trapelare una densità della scrittura unica. Come nasce?
Io ho cominciato dal testo, inconsapevolmente intervistavo le persone, mio padre, i miei nonni, senza registrare, traevo locuzioni che mi potevano servire per capire il sistema mentale di ragionamento. Quando scrivo raccolgo e metto da parte una serie di detti, catalogo e li numero. Poi ho un libretto dove numero dei fogli e dall’altro lato la trama scritta in breve, anche se in genere negli anni di lavoro al testo la modifico e si definiscono i personaggi, alcuni dei quali prima magari erano secondari. Ho un altro plico ancora dove segno le cose che scrivo anche senza pensare a quel testo, c’è anche la Bibbia poiché la cultura del Sud è basata su una serie di retaggi del senso di colpa cristiano che poi è ebraico. Infine ho una serie di temi che voglio affrontare, numero tutto, questa è solo la raccolta, sbobino le interviste a mano trascrivendole perché la trascrizione serve per individuare frasi belle per il modo in cui vengono dette. Tutti i foglietti poi diventano un solo plico. I primi mesi sono terribili, tanto materiale insieme e ricordare ogni cosa è impossibile. Devo studiare tutto. Prima di andare a dormire, se so di dover scrivere una scena l’indomani, rivedo quanto mi serve. Mi piace eliminare e vedere la fatica convergere in unico plico nel quale non ci sono personaggi che parlano, ci sono solo delle linee per segnare dove finisce uno e inizia l’altro. Solo quando vado a battere poi inizio a mettere i nomi dei personaggi, già decisi ma magari con qualche cambio di battuta. Pian piano arrivano anche gli approfondimenti sulle storie di alcuni: cerco di dare uno spessore a tutti, odio le comparse, sono convinto che l’attore debba avere una voce, e dare una voce è molto artigianale nel mio caso.
La parola diventa suono nel corpo, suono organico e spesso in relazione con la melodia dal vivo, creata assieme ad Antonio Della Ragione. Quale il rapporto nella concezione sonora dello spettacolo tra “musica” o produzione strumentale e suono della parola?
Antonio lavora con me da quindici anni. Suonò ne ‘A Sciaveca, anche grazie a un’intuizione di Davide Iodice, e da lì partì una collaborazione sistematica. Abbiamo sviluppato un nostro modo di lavorare. Mario Pagani dice che è il più grande musicista teatrale dal vivo perché non guarda lo spartito, guarda l’attore, come un jazz, ha esattamente la partitura fissa ma sa che se urlo troppo in un punto lui dovrà calare, che se c’è una pausa tra le parole deve sfruttarla. Antonio deve percuotere stando dentro con le note (per questo l’uso del vibrafono che fa è interessantissimo), facendole entrare nelle trame della parola, una cosa che forse nessuno saprebbe fare come lui.
Certe volte guardandovi si ha la sensazione di una sorta di solfeggio reciproco…
Io sono lo stato emotivo di coscienza, e lui è il ritmo, però è anche lo stato di coscienza spesso, mi suggerisce la melodia giusta. Quando il referente emotivo è fissato non serve nemmeno più ricordare a cosa si colleghi, basta seguire la musica. Lui parte dal decifrare gli stati emotivi di coscienza dei personaggi, concretizzati quelli capiamo anche il ritmo della scena e se occorra un elemento più percussivo o altro. Poi ci sono le canzoni, pensa che i canti ne La Cupa sono miei, Antonio ne ha composti due o tre. Il suo apporto fondamentale però è la musica che fa da sfondo al parlato, nei miei lavori c’è musica sotto tutti i parlati, dall’inizio alla fine, anche solo mezza nota. Ovviamente la musica non può superare e sostituirsi alla parola, deve essere insieme. Tutto deve essere organico. Con Antonio è una composizione, quasi come nel melodramma: aumentare il ritmo in un punto, stare stretti in un altro, essere ampi in un altro ancora e così via.
La Cupa è stato paragonato anche a La Gatta Cenerentola di Roberto De Simone. Due spettacoli molto diversi per intenzione, per atmosfera, ma sembra che ci siano degli elementi comuni. De Simone è un personaggio particolare, anche e soprattutto se inserito nella cronistoria dello spettacolo napoletano.
Sono due spettacoli molto diversi, ma io vengo da quel mondo. C’è un’evoluzione. Ho detto una volta che se non ci fosse stato Roberto De Simone, Mimmo Borrelli non ci sarebbe stato, forse anche Ruccello. Se non ci fossero stati loro che andavano a fare interviste, a raccogliere materiale in modo sostanzialmente antropologico. Ho letto Ruccello tardissimo, a trenta o trentadue anni. L’approccio è lo stesso. In me c’è Viviani, c’è De Simone… In ‘Nzularchia in modo velato ci sono citazioni di tutti i testi di autori napoletani dall’Ottocento a oggi (Salemme, Santanelli, Pinter in Santanelli, Petito, Scarpetta, Viviani, Moscato), una sorta di omaggio. Ci sono i padri, anche Eduardo, e servono checchè ne dicano. La negazione dei padri è uno dei motivi per cui mi infastidisce certa ricerca. Il teatro deve essere vivo, non morto, non deve essere noioso, astruso. Prendi il geniale Pinocchio di Carmelo Bene, tutta una riflessione sull’imborghesimento, chiara, comprensibile. Il teatro intellettivo non mi interessa, devo portare in scena una cosa che emoziona, che fa riflettere o che fa ridere. Quando il teatro è seria approssimazione è un disastro, deve essere serio e non serioso. Non ci deve essere presunzione, non bisogna sentirsi depositari di un assoluto, non è questa la missione. La missione e la vocazione sono per me nell’emozionare il pubblico. La missione è nell’esaurimento della vocazione. E ci vuole rigore.
Cos’è allora la vocazione?
Amavo e amo tantissimo il calcio, ho studiato anche tattica col sogno di fare l’allenatore, una cosa che si riflette nella mia regia. Mi rendevo conto che per il calcio avevo una vocazione, ma avrei dovuto faticare molto perché non ero Maradona, non che lo sia in teatro, ma ho avuto subito la sensazione che nel momento in cui entravo in scena mi ascoltavano e mi guardavano anche se facevo un movimento, un gesto minimo. Penso che la vocazione sia quando senti che in quel luogo puoi starci, che attraverso te la gente ride o si commuove. Sento che mi si conferisce la parola, che qualcuno mi dà voce, che mi si chiede senza chiedere di parlare. È una chiamata da un silenzio, perché quando il pubblico sta in silenzio l’ascolto può essere una bestia che fa paura. Ma so come domare quella paura (anche se prima di andare in scena vomito, ho dei conati di vomito quasi sempre alle prime) e domandola come potermi sacrificare. La vocazione è sacrificio, il teatro deve essere unicamente sacrificio, quasi cristologico: sacrificarsi per qualcuno e dargli qualcosa. Devo essere in tensione, forse la vocazione è anche questo. Poi tutto si traduce nel fatto che ti ascoltino o meno.
Hai definito la tua scrittura come un processo memoriale. Come il concetto di memoria e quello di tradizione interagiscono nella composizione di un testo?
Probabilmente la tradizione è quella piramide, la base di quella piramide dove trovi la punta che ti permette di volare di più, attraverso esperienze vere. Bisogna sapere, conoscere e informarsi, capire. Ad esempio, mia madre, quando i miei nonni stavano male a causa di una demenza senile ed erano ormai incontrollabili, urlava come una dannata senza mai toccarli; per me il dramma di una figlia con i suoi genitori era Medea e ho “imitato” mia madre che emetteva quei suoni piangendoci sopra: quella è una verità, che si formalizza e diventa suono, lavorando sulla memoria emotiva. Ho cercato di prendere storie di personaggi che fossero vicini al mio punto di vista, prossimi, più facilmente imitabili, l’imitazione è una cosa importantissima. Ho iniziato a recitare così perché era l’unico modo attraverso il quale potevo essere veramente vero. In Napucalisse non si capisce niente, ma si vede un vulcano che erutta; poi quel vulcano è Mimmo che si sente colpevole della sua città e cerca di portarsi sulle spalle il peso dei dolori della gente, perché lui è il primo assassino, il primo colpevole, il primo camorrista mancato. Quindi il lavoro di memoria che bisogna fare è più che altro un lavoro di memoria ed espiazione. All’inizio scrivevo sempre quasi di getto su cose che mi capitavano, che mi facevano stare male e che poi a freddo formalizzavo. Il bagaglio della memoria è in quel caso inevitabile per me come attore, però non deve diventare antropologia teatrale. Non replicare comodamente azioni, invettive, reazioni sceniche, immagini per far arrivare un messaggio al pubblico. Se lo facessi non lavorerei sulla mia verità. La memoria bisogna prenderla e tradirla col sacrificio in scena e col sacrificio della scrittura. Il punto è avere sempre paura: quando uno come me, quando io e Antonio Della Ragione sentiremo di non avere più paura di non essere capaci, ogni sera, anche con uno spettacolo rodato come Napucalisse, sarà finita.
Terminata la scrittura quando entra in scena il dramaturg? Nel processo creativo quando arriva la definizione estetica generale dell’opera(movimento/gesto/azione, suono/musica, spazio/dimensione scenica, costruzione dell’immagine)?
Collaboro quasi sempre con le stesse persone, come lo scenografo Luigi Ferrigno con cui ci intendiamo molto. Matematica, il teatro per me è prima di tutto questo. Per La Cupa ho lavorato circa cinque anni, al terzo ho chiamato Luigi. Quando inizio a fare il dramaturg, taglio tutto in pezzi, perché una descrizione della scena di tre pagine per cinquecento versi (e io ne sono capace) deve essere tagliata, resta nel testo letterario, ma in scena può trasformarsi in un gesto, un’azione. Con Luigi pensiamo dunque a come convertire gli elementi, scena per scena, come la sceneggiatura di un film. Il dramaturg verticalizza così e interviene anche nel suono, per una scena troppo lunga o troppo verbosa. Ne La Cupa la successione è rimasta pressappoco la stessa, diverso è stato per ‘A Sciaveca e considera che per tagliare dei versi devi concatenarli strutturalmente con le rime e le chiusure. Se di me c’è qualcuno che può rimanere alla storia è l’autore, lui sa tutto, tutti gli accadimenti, è un mistero ma è così. Il dramaturg ha il compito di essere feroce, di non permettere al regista di distruggere la storia con troppe invenzioni, solo quelle di cui c’è bisogno concretamente. Questo processo accade sempre prima di andare in prova, perché allora devo sapere già tutto. Arrivo così alla regia sui movimenti: faccio degli schemi per degli spazi di due metri in modo che l’attore abbia un contenimento naturale. In quasi tutti i miei spettacoli c’è una profondità enorme perché io amo quella linea di movimento e allo stesso tempo una grande prossimità, una vicinanza necessaria. È fondamentale un equilibrio, un bilanciamento, come la zattera che si abbatte, come nel calcio, a pensarci bene il teatro è anche come un fenomeno anche sportivo. Un insieme di processi da cui pian piano si arriva all’estetica, ma l’estetica non deve mai perdere di vista la verità e diventare fine a sè stessa, puro gusto dell’immagine.
Come lavori con gli attori su testi come i tuoi, così complessi anche solo nella struttura?
Dipende. La costruzione di un corpo non deve invadere il personaggio, parto da un esercizio che si chiama la pianta: c’è Mimmo, c’è la relazione e c’è Amleto; Mimmo deve arrivare ad Amleto e Amleto deve arrivare a Mimmo, in questo sta il cosiddetto correlativo oggettivo. Prendo cose personali da dimenticare e formalizzare in un suono, poi c’è il suono di Amleto che è già scritto e si deve interpretare. Elaboro tutte le costrizioni che impongo, lavoro sui correlativi oggettivi degli stati di coscienza, su come ogni cosa debba essere organica senza superare l’altra. “Quando la parola è forte il corpo tace”: in una tirata o un monologo, il corpo deve avere una postura, essere fermo ma sempre in tensione, come nelle statue di Michelangelo; questo costringe a concentrarsi su quanto si sta facendo. Prendi il mare ne ‘A Sciaveca: se il mare è alimentato da un suggeritore che è il vento e il vento cambia umore a seconda del meteo, allora dovrò guardare il mare in risacca per il monologo iniziale. E concretamente come parla il mare? I pescatori dalle mie parti iniziano i loro racconti sempre con “‘Nzomma” (insomma). Il trascinamento nasale delle prime lettere entra in bocca e nella gola e somiglia molto al napoletano “onna” (onda). L’ho portato circolarmente nella cassa della voce, funzionava. Una risacca con le consonanti adatte nell’endecasillabo, che serve all’inizio del racconto anche se poi uso l’alessandrino che è ampio e mi permette di elaborare dei discorsi più facilmente. Usando altre consonanti interne che aiutano il suono…ho il mare, diamine se ce l’ho! Con Davide Iodice abbiamo inventato un’andatura circolare con un remo, lì ho trovato il mare non pensandolo, un mare morto, lo trovavo urtando contro le cose, e avevo in mente The Undertaker, un wrestler alto due metri, funzionava perfettamente anche quello. La messa in serie degli elementi deve richiedere anche una sorta di creatività dovuta al gioco. Ne La Cupa avevo una postura precisa, avevo un tumore al polmone e una mano lì vicino, respiravo male; pensammo all’Oriente e la mano ha cambiato postura, Scippasalute è tutto judo perché deve atterrare i personaggi e ammazzare la vicenda. Il lavoro è anche molto fantasioso, certo per farlo devi avere un attore straordinariamente presente. Ed è nei guai con me, divento molto esigente. Faccio prestissimo le filate, lo spettacolo deve essere pronto per gli attori almeno venti giorni prima, perché poi mi dedico all’allestimento che è un’altra cosa. Nelle filate de La Cupa scrivevo duecentocinquanta note e riprendevo scena per scena, nota per nota: tre ore e mezzo per spiegare tutto. Si arriva a una forma che l’attore deve seguire pedissequamente, certo può capitare un errore, la prova deve essere il pericolo. Sennò davanti al pubblico sbaglieremo, faremo la televisione che si muove male e i nervosismi dell’attore si riverseranno nel personaggio. Bisogna vincere la tensione con la forma, una forma precisa. Capisco con gli attori se la struttura corporea iniziale aderisce alla parola e come questa parola venga articolata. Il verso aiuta, una costrizione che mnemonicamente poi non è difficile come sembra, leggendo la parte ad alta voce per una decina di giorni si fissa in mente perché il suono dà già una strada. Faccio la regia e scrivo sempre per l’attore, se è contento, se è più bravo di me, io sono felice. La regia vera è in questo, non nell’allestimento.
Sei stato di recente protagonista della pellicola L’equilibrio di Vincenzo Marra. Da attore, quale differenza hai percepito rispetto alla tua immagine e alla tua “seconda natura” alla luce di un differente processo interpretativo?
Il teatro è esplosione, segui il processo di estrinsecazione emotiva delle azioni nel momento in cui devi agire. Al cinema no, devi agire prima. Nel teatro devi commentare, formalizzare le azioni. Se lo fai al cinema diventa finto. Mi arrabbio con gli attori se cambia il patto collettivo di espressione che avevamo, se non fanno le cose sempre uguali. Accade perché ho un problema con la morte, il mio rapporto con la morte mi porta a volere che tutto sia perfetto, perché ho paura, non voglio morire. Un tentativo di fissare me stesso come una pietra. Forse molte mie cose finiranno con me e questa è la mia condanna. Ma la condanna è il teatro, l’arte più soggetta all’assenza di giudizio possibile, qualcosa di ingiudicabile, che magari è bello oggi e domani non lo sarà più, in cui però tutto deve avere un motivo, con delle regole precise, fisse. La verità che diventa forma inequivocabile ed esatta e il personaggio come strumento per raccontare l’umanità che vive nell’interprete, altrimenti è tutto inutile. Cercando di non fingere mai e di donarsi sempre. Perché, per me, un’altra cosa fondamentale è il dono, e manca troppo spesso.
Marianna Masselli