Dopo l’allestimento de Il sindaco del Rione Sanità portato in scena con la compagnia Nest e debuttato nel 2017 a Napoli, Mario Martone ha presentato alla 76° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il film sul testo di Eduardo De Filippo. La recensione.
Un mondo un po’ meno rotondo e un po’ più quadrato. È questa l’immagine che torna alla conclusione de Il sindaco del Rione Sanità, testo di Eduardo De Filippo che dopo la messinscena insieme ai ragazzi del Nest di Napoli nel 2017 oggi Mario Martone porta al cinema in una pellicola con gli stessi interpreti, prodotta da Indigo, Malìa e Rai Cinema e presentata all’ultima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Quello di Martone è nome conosciuto tanto al teatro quanto alle cronache degli schermi, regista cardinale per il palcoscenico (rispetto al quale basterà citare Falso Movimento) che, a partire dagli anni Novanta con Morte di un matematico napoletano – passando per L’odore del sangue e Il giovane favoloso tra gli altri – sino al più recente Capri-Revolution, si è voluto consegnare anche alla storia del cinema italiano.
Antonio Barracano, il sindaco di Eduardo, ricci biondini su una figura attempata intorno alla maschera di zigomi spioventi nella delimitazione della cassa della voce contenuta e modulata dal mestiere ogni volta uguale e diversa, lo ricordiamo grazie alle registrazioni a colori delle commedie per la RAI negli anni Settanta. Boss della vecchia camorra, ispirato a un personaggio realmente esistito, sullo scorcio della propria residenza estiva Don Antonio mostra la moralità familiare di un santo spurio, che prova ad arginare insieme a un medico di buona famiglia la gittata delle faide intestine al rione, salvando a modo proprio, e secondo un sistema normativo parallelo a quello istituzionale, «chi non ha santi in Paradiso». Salvatore di coscienze con la coscienza di chi ha ammazzato per un senso atavico di giustizia e autodifesa, quasi per un’inevitabile legge del taglione, un incontenibile moto di riequilibrio e sopravvivenza verso il sopruso di tale Gioacchino a incarnare la vessazione dell’ignoranza su un ignorante, la stigmata grezza dell’abuso sull’abitudine alla non reazione: «O isso o io. O isso o io».
Come per l’allestimento teatrale di un paio di anni fa, l’Antonio di Martone (un efficace Francesco Di Leva) è invece un quarantenne a cui non tutti si rivolgono con il Voi reverenziale, che dorme in tuta con gli addominali ipertrofici, con gli anfibi, il gilet e il giubbotto di pelle, con una piscina nella sua casa abusiva dove spedisce la figlia durante i pestaggi mentre alza la musica dello stereo del soggiorno. La ventilazione graffiata della voce tra il naso e la laringe si riverbera in alcuni momenti in una pupilla attonita, che deve a uno stile smaccatamente gomorriano più di quanto non ricordi le palpebre strette e l’analfabetismo filosofico ben arrotato tra le consonanti del personaggio eduardiano. Boss odierno che si staglia tra un paio di panoramiche urbane e gli affreschi da paranza, tra il Maradona sfregiato di San Giovanni a Teduccio, le pistole, i Cayenne e gli arredi oro bianco e nero, tra le scene di interno e qualche frame di esterni a compensare senza lemmi gli omissis narrativi che la drammaturgia è tenuta a raccontare a parole. Il montaggio si alterna fuori e dentro le mura di casa del sindaco e restituisce la dignità autoriale di Martone attraverso una ritmata e ben congegnata interpolazione di inquadrature. Tale giustapposizione di immagini rispetta la naturale temperatura di ambientazione del testo originale, mentre una fotografia misurata si fa carico della trasposizione contemporanea.
La presenza, teatrale, e la riproducibilità, cinematografica: conflitto e discrasia insanati, strumenti di distanza, a volte di pregiudizi vicendevoli, oppure occasioni di compenetrazione, per i più acuti solo emblemi di una maggior ampiezza di possibilità. Ma cosa accade quando la matrice testuale è la stessa, o almeno così simile per istinto primario del linguaggio da fondere a tratti i campi dell’azione? L’intelligenza e lo spessore di Martone insieme ad un omogeneo equilibrio interpretativo del cast portano il testo fuori dal calco impossibile e lontano da qualsivoglia confronto avvilente. Della vicenda, delle parole nulla o quasi si perde fatta eccezione per il monologo finale del dottor Della Ragione che, visto sacrificato il proprio compagno sull’altare di una causa destinata a sussistere rimanendo persa ancora e ancora, si asterrà dall’annunciare la stesura di un referto medico firmato finalmente “In fede”, e per il breve monologo di Rafiluccio Santaniello sul concetto lirico e univoco di «’a femmena mia». Visto che oggi la “femmina” di Rafiluccio è una gravida tardoadolescente in minigonna a cui Antonio parla faccia contro faccia, fiato nel fiato, dando per scontato di poterle infilare una mano tra le cosce tornite senza crediti di maniera.
«La spinta è quella di calare il tessuto nella contemporaneità, considerando Eduardo come un classico, come uno Shakespeare, un Cechov, un Molière. Credo sia arrivato il momento di sottrarre questi testi a uno stile di recitazione “eduardiana”. Per questo il boss nel film è ringiovanito e anche i codici di riferimento sono quelli che gli spettatori associano a, ma che purtroppo si ritrovano in tante periferie di Napoli»: questa la volontà dichiarata del e dal regista. Avvicinare, attraverso un canone o un modus estetico ormai riconosciuto e assorbito da un ampio e variegato bacino di pubblico, un testo così da renderlo conoscibile, conosciuto e fruibile al maggior numero di persone possibili. Operazione acuta, che si vorrebbe attestare in una sorta di processo di filologia critica, la cui verifica starebbe nell’innegabile assenza di stridore, nella dimostrata efficacia del testo in una contestualizzazione integralmente diversa, tutta contemporanea. Come a prendere tra le mani la nuca di Antonio Barracano, tempie pulsanti per la contrazione del collo, schiacciando forte la fronte contro la fronte per chiedergli se oggi, anche oggi, il risultato vale il processo, il messaggio passa sempre e comunque per il riconoscimento, per la visibilità dei più, se l’ignoranza si combatte attraverso sfasature inaspettate o si seda centellinata nell’assuefazione.
Ci si chiede dunque se le ottime intenzioni registiche e la volontà di smarcarsi da una recitazione eduardiana (comunque voglia intendersi l’espressione) non rischino però di riversarsi nell’ennesimo clichè di una Napoli da tour turistico a stampo cinematografico-satellitare. Forse l’unica via possibile per tentare di decostruire un clichè è annientarlo per consunzione. Forse, insistere su una certa epica camorristica – che dalla strada è arrivata a consacrarsi sugli schermi – non solo rischia di depauperare la piaga sociale che a tale epica corrisponde nella realtà, ma confina pure la scelta estetica al mero mainstream. Dire il teatro in un modo e con un linguaggio trasversalmente comprensibile, queste d’altronde croce e delizia di Eduardo dentro e dopo il suo tempo. Per un mondo un po’ meno quadrato e un poco più rotondo.
Marianna Masselli
INDIGO FILM e RAI CINEMA
presentano
Eduardo De Filippo
IL SINDACO DEL RIONE SANITÀ
Un film di MARIO MARTONE
solo il
30 settembre – 1-2 ottobre
al cinema
con
FRANCESCO DI LEVA, MASSIMILIANO GALLO, ROBERTO DE FRANCESCO
ADRIANO PANTALEO, DANIELA IOIA, GIUSEPPE GAUDINO, GENNARO DI COLANDREA, LUCIENNE PERRECA, SALVATORE PRESUTTO, VIVIANA CANGIANO, DOMENICO ESPOSITO, RALPH P, ARMANDO DE GIULIO, DANIELE BASELICE, MORENA DI LEVA
e con l’amichevole partecipazione di ERNESTO MAHIEUX
una produzione INDIGO FILM con RAI CINEMA
MALÌA
distribuzione italiana NEXO DIGITAL