Rispondendo a qualche domanda lanciata da Andrea Porcheddu su Gli Stati Generali, un ragionamento sul ruolo e sulla funzione della critica teatrale oggi.
Non è la prima volta che dalle colonne de Gli stati generali Andrea Porcheddu lancia ragionamenti sulle varie facce del prisma di quelli che egli chiama «teatri possibili». Lo fa sempre aprendo il discorso verso l’esterno, puntando il faro su questo evento di attualità o quell’aspetto specifico, in particolare sulla qualità e la densità di pensiero da rivolgere alla scena. E, come in questo caso, alla critica. Si parla innanzitutto del peso che devono avere, nello svolgimento di questa pratica, libertà e verità, due capisaldi del buon giornalismo che non è sempre scontato né semplice proteggere quando il soggetto scrivente si pone di fronte a un frutto della creatività altrui. Ci viene da rispondere che, sommandoli nel campo della critica d’arte, questi due termini danno come risultato un misto di imparzialità e oggettività, di fronte alle quali è lo stesso Porcheddu a posizionare come ostacolo più pericoloso quello della prevalente natura volontaria del compito della critica di oggi. Non è sempre vero, ancora si riesce a scrivere di critica dietro piccoli compensi, ma di certo chi fa critica lo fa innanzitutto per vocazione culturale.
È giusto convocare nel ragionamento le questioni di libertà e verità, anche laddove il giornalismo non si occupi di cronaca di conflitto o reportage sociale: non serve avere necessariamente per le mani la vita o la dignità di un soggetto o di una causa, ché l’arte stessa una causa l’ha sempre incarnata e sappiamo bene che, nel fare scenico, soggetto e oggetto si scambiano di posto con decisa intenzione. Ma è vero che libertà e verità, nel giornalismo, debbano sempre e comunque esprimere «una voce fuori dal coro»? Debbano sempre essere “contro”?
Di certo chi scrive di critica occupa una posizione scomoda fin dall’inizio: tra lo sguardo diffidente dell’artista e il confronto diretto con quello dello spettatore, che giustamente rifiuta di sentirsi “non all’altezza” di leggere un’opera d’arte. Restando sul binomio libertà-verità, vero è che il teatro è l’arte forse più libera di esprimersi, non vincolata da dispositivi tecnico-realizzativi canonizzati (la macchina da presa per il cinema o gli strumenti per la musica), né – purtroppo o per fortuna – dalle logiche brutali di un mercato (come accade alle arti visive). Per quanto non possa mai dirsi pacificata – pensiamo al rinnovato e arcigno dibattito tutto italiano intorno a “che cosa è danza e che cosa non lo è” – proprio la naturale ibridazione dei linguaggi forse invita la critica a misurarsi con diverse possibili posture.
Questa opportunità si apre se ci si allontana dall’idea che la critica si esprima soltanto attraverso una recensione. Non che sia una novità, anzi: se in altri paesi essa è stata sempre identificata (e continua a esserlo) principalmente come strumento di valutazione e, a volte, di sostegno o veto nei confronti delle creatività, proprio l’Italia è stata d’esempio nell’elaborare modelli di discorso critico ben più versatili, che hanno spinto – epoca dopo epoca – i praticanti a espletare un’ampia gamma di funzioni.
Almeno due caratteristiche, tuttavia, sono rimaste costanti pur nel deformarsi di un orizzonte culturale comune, scalfito e indebolito dai processi dell’informazionalismo e del mercato digitale. E ciascuna fa riferimento a verità e libertà.
Innanzitutto la posizione di intermediazione tra palco e platea. Parrebbe scontato, ma non è così: se si vuole mantenere un posizionamento equilibrato nei confronti di entrambi i destinatari occorre, anche oggi, senza dubbio rispettare il lavoro degli artisti raccontandolo con minuzia e con una netta consapevolezza dell’importanza del contesto (geografico, produttivo, dunque creativo) nella presentazione e nella ricezione di un’opera. A salvaguardare la verità di un discorso critico su un oggetto specifico – come nella forma recensione – è il suo inserimento all’interno di un più ampio discorso che è quello culturale, che respira l’aria viziata dell’emergenza strutturale e della carenza di risorse, ma anche quella fresca di un coinvolgimento attivo e partecipe come quello della comunità reale degli spettatori. Se è vero che l’attenzione al teatro si raccoglie in cerchie sempre più definite e a rischio di asfissia, lo è anche che i luoghi del teatro, mai come ora, offrono la libertà di sperimentare tanto accostamenti di diversi linguaggi, quanto un reale contatto tra gli spettatori.
Ed è qui che si allaccia la seconda condizione: la critica, in quanto espressione di pensiero, avrà sempre bisogno di uno strumento di diffusione dedicato, che tende oggi a minare il campo della libertà. È sempre stato fondamentale che quello strumento, nel suo mutare, venisse lasciato libero, ma anche conosciuto al meglio e al meglio impiegato. Di certo però la morfologia della comunicazione digitale ha imposto regole complesse proprio perché assunte a controllo non tanto e non solo dei formati in cui un sapere viene comunicato, ma più in generale delle modalità di circolazione delle idee sulla realtà, in un habitat comunicativo dominato dalle opportunità di mercato.
Ragionando sul ruolo e sulla funzione della critica sul Web 2.0, si fa i conti con dati storici (vent’anni sono già passati dai primi esperimenti), con dati oggettivi, volendo spingersi oltre, pure con una vasta bibliografia intorno alle culture digitali, ai processi editoriali a esse legati e al campo della retorica critica del discorso online. Questa complessa interrogazione restituisce almeno un risultato preciso: se il mutamento dei sistemi di produzione ha influenzato profondamente il linguaggio della critica giornalistica in Rete, il suo necessario processo di diffusione verso le comunità virtuali è riuscito a piegare il ragionamento sulla funzione della critica come parte del sistema delle arti sceniche, come atto di interlocuzione, di sostegno o contraltare alla scena. E come atto di militanza politico-culturale.
Oggi, coloro che agiscono nel sistema teatrale reale dialogano sempre di più attraverso strumenti virtuali, che offrono una potenza di fuoco superiore, ma innescano anche una rimediazione quasi incontrollata degli stessi contenuti: una buona recensione può (con molta più efficacia e capillarità di prima) fungere da strumento promozionale; una cattiva recensione accende la miccia di un’esplosione dialettica prima inaudita per ampiezza di raggio. E per numero di feriti.
Anche la critica, che in quello stesso campo agisce, possiede allora i mezzi tecnici per operare una nuova autodefinizione, avendo modo di rivolgersi ai propri destinatari in modo più agile ma non per questo meno problematico. Critica pura e critica impura, critica accademica e critica militante; tra quelle che in passato sono state espressioni estreme in grado di generare veri e propri scismi, oggi sono le forme di comunicazione a edificare possibili ponti.
Nel tentativo di restituire una verità e però di proteggere una libertà, il primo ostacolo sembra stare nella chiarezza degli intenti, che in un sistema comunicativo come quello odierno non chiede soltanto alla critica di autodefinirsi, ma al suo sistema di riferimento di rinnovare per essa le domande, di ridiscutere le aspettative, a essa di dettare una lista di necessità operative. E allora, occorre spingersi oltre un’idea della critica come termometro qualitativo o quantitativo a disposizione delle arti sceniche, magari anche oltre la limitazione alla scrittura come “destinazione d’uso”, rimettendosi alla ricerca di esperimenti “in vivo” che, tra occasioni di incontro e produzione di cultura sul territorio, affermino la necessità dell’argomentazione accanto a quella di un sano e umano stupore.
Così la critica può risultare utile proprio in quanto espressione pratica di quel critical thinking che non è solo un titolo per corsi universitari, ma un’urgenza storicamente necessaria in ogni genere di “tempi interessanti”. Con questo termine, il filosofo Slavoj Žižek, riprendendo l’accezione cinese dell’aggettivo, definisce quei momenti di crisi, i momenti di cui si riconosce la difficoltà.
Forse, per rispondere alle domande lanciate nell’articolo a cui ci riferiamo, occorre guardare alla critica innanzitutto come uno strumento di memoria del teatro contemporaneo; come un archivio di aporie di quella scena che tutt’ora lotta per la sopravvivenza; come un generatore di significati complessi, non pacificati e non per forza – a mio vedere – “contro” un sistema. La scomodità di quel ruolo si misura forse sul grado di consapevolezza che si ha della sua funzione.
Sergio Lo Gatto