La Compagnia dell’Accademia presenta in questi giorni quattro spettacoli diretti da ex studenti e aspiranti registi. Li abbiamo incontrati durante le prove per un confronto. Intervista
Prossimità al percorso professionale di molti aspiranti lavoratori del mestiere, questa la tensione che ci conduce spesso a entrare nelle maglie, intricate e non troppo lineari, delle scelte che compiono le nuove generazioni per entrare, o sopravvivere, nel “sistema teatro contemporaneo”. Strade distinte, delineate in parallelo, deviate all’improvviso, ci guidano in un’analisi sempre meno irregimentata e aperta alla fluidità di impensate svolte, attraverso la quale poter comprendere cosa muove un’idea e perché. Tra un montaggio e l’altro, ne abbiamo parlato con tre dei registi (Marco Fasciana, Tommaso Capodanno e Federico Gagliardi) dei quattro spettacoli facenti parte della Compagnia dell’Accademia e che sono in scena al Teatro India fino alla prossima domenica. Una sinergia, questa, portata avanti congiuntamente dal Teatro di Roma insieme all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’amico, alla quale si unisce anche il Festival Contaminazioni autogestito interamente dagli studenti e che la scorsa settimana ha anticipato i quattro spettacoli.
Perché avete scelto la formazione accademica?
Marco: Curiosità innanzitutto e poi, io che sono sempre stato senza disciplina, mi sono detto: “voglio una regola!”. Vero è che da una parte dobbiamo fare i conti con il rischio che la scelta di questo mestiere può comportare, e entrare in un ambito accademico può sicuramente fornirti più tutele e sicurezze; ma è l’insegnamento a fare la differenza, la docenza di persone che ti possono passare il testimone, la loro esperienza. E di scoperte felici, che mi hanno poi confermato il valore della strada intrapresa, ne ho avute eccome. L’accademia è la summa di varie maestranze che possono fornirti degli strumenti, da assumere e affrontare cercando sempre di far riferimento al proprio percorso, facendo coincidere la metodologia dell’insegnante con quella mia, dell’allievo. Diventa così una concentrazione di diverse spinte che ti formano come artista e creatore.
Tommaso: Venendo dagli studi universitari di psicologia, mi trovavo in una fase in cui cercavo di capire se fare l’attore o il regista; quando la scelta è ricaduta su quest’ultimo ho sentito il bisogno di chiudermi da qualche parte, sperimentare un po’ e sperimentarmi, imparando. Quello del teatro è un mestiere che si può imparare ma forse non si può insegnare… La possibilità di frequentare un’accademia è un’esperienza variegata: un contenitore che varia a seconda del contenuto, gli insegnanti variano come di conseguenza variano le classi ogni anno: Cirillo, Corsetti, Civica… Tutti, nella loro particolarità, mi hanno aiutato a focalizzare la mia strada e a sperimentare linguaggi diversi.
Federico: Dopo aver provato tre volte, sono entrato come attore e poi sono passato a regia. Quello accademico è un brulicare di persone in movimento, avere l’occasione di poter entrare in contatto con loro è sicuramente un’opportunità. L’accademia è un luogo di incontro non esclusivo che, rispetto al resto delle possibilità che ti si possono aprire, è sicuramente più protetto e predisposto al confronto: “valgo non valgo?”, “è quello che voglio fare?”. Nei miei lavori di regia, non ho mai pensato di dover fare il meglio che sapevo fare, sono stato sempre consapevole di avere la possibilità di poter rischiare in un posto sicuro che ammette l’errore.
Da futuri addetti ai lavori, qual è la vostra idea della scena contemporanea, sia romana che nazionale? E come pensate di inserirvici?
Federico: Dopo questi tre anni pieni, la prima cosa che ho pensato di fare è stata quella di andarmene. Ho proprio voluto tagliare la corda, e lasciare gradualmente che ciò appreso si sedimentasse per poter trovare qualcosa da dire. Per trovare quindi un mio spazio all’interno di questo orizzonte, ho ritenuto opportuno avere un tempo di distacco, riallinearmi e poi reinserirmi.
Marco: A Palermo, dove vivevo prima, soffrivo un po’ l’irrigidimento dell’istituzione teatrale, per questo sono prima partito per Bologna e poi sono arrivato a Roma. Nonostante al termine del percorso ci sia sempre quella percezione di salto nel vuoto, devo ammettere che la mia posizione è abbastanza ottimista: c’è tanto e in maniera differenziata. Stiamo assistendo al consolidamento di molti legami e nuovi intrecci, penso ad esempio a Short Theatre, Romaeuropa Festival e l’Angelo Mai. Ancora non so come mi inserirò ma per il momento la mia è una tensione fiduciosa; vedo molti spettacoli che mi piacciono e vedo artisti, anche miei coetanei, che stimo e che stanno portando avanti il loro lavoro con coerenza. Intravedo molte possibilità e la voglia di raccontare urgenze forti.
Tommaso: Il territorio romano è sicuramente pieno di gente che c’ha voja de fa’, ecco. E che deve far fronte tuttavia agli impedimenti di una città che sta crollando su se stessa. Credo onestamente però che manchino delle storie nuove, nonostante il fermento. Mi rendo conto che a volte non ci si muove poi molto e credo che il peso più significativo di questa situazione di stallo sia dovuto alla mancanza di una novità drammaturgica. Possibile mai che la nostra generazione non abbia nulla da dire? Faccio il regista, datemi storie da raccontare!
Quanto insegnamento c’è nei vostri lavori presentati? Avete imparato diligentemente la lezione o invece siete già in grado di farla vostra capovolgendola semmai?
Marco: Rispetto al percorso triennale, tutti e tre gli anni sono serviti a raccogliere materiale dal quale ho tratto La ballata dei babbaluci, ovvero il viaggio mancato di un uomo in vasca. Senza gli incontri avuti coi docenti e i compagni di corso, senza quella stratificazione progettuale, non sarei mai riuscito a sviluppare il testo o a pensare una determinata scrittura scenica. Questo lavoro si configura per me come un punto di arrivo dove confluisce tutto il portato dell’esperienza e la conclusione di un percorso.
Tommaso: Io ho cercato di mantenere una mia linearità all’interno del percorso; gli incontri fatti con personalità illustri del teatro italiano sono stati determinanti nella misura in cui, considerato il rilievo professionale, tutti hanno cercato di spostarti dalla loro parte e io, ovviamente, mi sono fatto spostare. Ora sono in scena con un testo quasi inedito di Tennessee Williams – Una bellissima domenica a Creve Coeur – con la supervisione di Arturo Cirillo; ed è stato utile per me saper sfruttare il talento di Cirillo sulla direzione degli attori. Cosa posso imparare da lui, facendo qualcosa che è mio? Ho scelto, nonostante Cirillo non fosse d’accordo, di fare interpretare le figure femminili del testo a degli uomini, le vedevo così, non potevo farci nulla. Arturo ha fatto un passo indietro e ha rispettato la mia volontà registica, è stato un gesto molto importante per me.
Federico: Ho preferito sposare un approccio metodico, che potesse seguire le relative fasi dell’iter accademico. Nel percorso ci sono infatti momenti di affiancamento con la supervisione di un docente, poi al termine di ciascuno anno si accede all’esame finale che si configura come un momento di passaggio, funzionale a permetterti di fare le tue valutazioni. Nell’arco dei due anni, ho avuto due tipologie diverse di supervisione: con una mi sono trovato molto bene, meno con l’altra, quest’ultima sentivo che non parlava la mia lingua. Poco male, anzi! Prendere le distanze da un insegnamento implica conoscersi e non vuol dire assolutamente rifiutare il confronto, ma ricomprenderlo in una scelta d’autonomia.
Presentate ciascuno il vostro lavoro.
Federico: Le lacrime amare di Petra Von Kant è uno spettacolo nato due anni fa con la supervisione di Arturo Cirillo. Non conoscevo l’autore, Rainer Werner Fassbinder, la mia è stata una scelta di pancia perché il testo parlava di una sofferenza d’amore derivata da una dipendenza. Il mio è un mondo femminile abitato da cinque attrici per le quali ho costruito una gabbia registica all’interno della quale essere libere di essere diverse. I costumi sono molto vistosi, ho cercato di insistere sulla caratterizzazione dei personaggi lavorando sulle loro personalità. Ho voluto poi rispettare ciò in cui credo, ovvero che l’attore debba avere dei segreti, mantenersi un proprio spazio di autonomia, senza compiacere le scelte registiche. Il pubblico è sul palco, spazio scenico simile a una passerella dove sfilano le attrici che non possono mascherare il proprio dolore, gli spettatori quindi sono anch’essi nella gabbia e vivono della sofferenza delle cinque donne.
Tommaso: Ho sempre avuto un problema con Tennesee Williams, mi ha sempre molto inquietato la sua scrittura, è molto reale per me: i suoi non sono personaggi ma persone in carne d’ossa. Quando ho letto Una bellissima domenica a Creve Coeur, nella sua assurdità che è stata prossimità, mi ha fatto pensare alla mia famiglia, mia nonna, mia zia, persone care che non ci sono più o che non stanno bene. Mi ha fatto riflettere sulla condizione di queste donne sole e impossibilitate a realizzarsi se non attraverso il matrimonio…
Marco: Io invece sono supervisore di me stesso, ho scritto e diretto La ballata dei babbaluci, che sono, in dialetto siciliano, le lumache di terra. Il mio è un viaggio a ritroso alla scoperta del passato di un uomo che arriva, attraverso racconti e storie della tradizione, a scoprire cosa gli mancava. È un grande paese dei balocchi, un meccanismo che lo aiuta a costruirsi la sua storia, una sorta di ritorno all’origine. C’è tutto quello che avevo nel cuore: i racconti di mio padre, le frasi di mia nonna, la cultura di Pitré, del personaggio di Giufà e dei pupi della famiglia Cuticchio, che rappresentano il mio primo incontro col teatro. Andare là e pescare nel passato della tradizione orale, è stato un po’ come riabilitare il mio presente, attraverso la fantasia.
E adesso, come pensate di proseguire, cosa vi manca?
All’unisono: dateci uno spazio!
Marco: Sì quello dello spazio è un tema ricorrente e condiviso in tutti i nostri discorsi. Dateci uno spazio ma soprattutto lasciatecelo usare, non lo chiudete, fate sì che possa diventare luogo.
Tommaso: Un luogo in cui discutere delle idee politiche, incontrarsi, mangiare qualcosa, leggere, invitare persone, organizzare eventi… Io non credo che la nostra generazione non abbia idee politiche, le abbiamo ma mancano i luoghi di aggregazione. Viviamo sui social che non sono affatto luoghi di incontro, non sono contesti in cui discutere, non ci può essere dialogo nella virtualità.
Lucia Medri
Ottobre 2019, Teatro India, Roma
5-6 ottobre Teatro India – UNA BELLISSIMA DOMENICA A CREVE COEUR
di Tennessee Williams
regia Tommaso Capodanno supervisione Arturo Cirillo
con Matteo Berardinelli, Alessandro Businaro, Dario Caccuri, Tommaso Paoluccitraduzione Masolino d’Amico – scenografia Dario Gessati coordinamento costumi Gianluca Falaschi – disegno luci Luigi Biondi – supervisione suono Hubert Westkemper
coreografia Francesco Manetti – assistente scenografa Eleonora Ticca – fonico Luca Gaudenzi Ufficio stampa Marina Saraceno
5-6 ottobre Teatro India – LE LACRIME AMARE DI PETRA VON KANT
di Rainer Werner Fassbinder
regia di Federico Gagliardi
con Flaminia Cuzzoli, Jessica Cortini, Elisa Novembrini, e le allieve del 2 anno Anna Bisciari, Ilaria Martinelli musiche Roberto Ribuoli – scenografia Dario Gessati – disegno luci Pasquale Mari costumi Gianluca Falaschi – assistente alla regia Danilo Capezzani
1-2 ottobre Teatro India LA BALLATA DEI BABBALUCI Ovvero il viaggio mancato di un uomo in vasca
regia Marco Fasciana
con Federico Brugnone, Mauro Lamantia, Giorgio Sales, Barbara Venturato, Tommaso Capodanno, Domenico De Meo – supervisione alla drammaturgia Ugo Chiti – scene Massimo Troncanetti – disegno luci Pasquale Mari – costumi Manuela Stucchi – creazione video Lorenzo Bruno – musiche e suono Luca Gaudenzi – assistente alla regia Tommaso Capodanno