HomeArticoliIl mio amico Hitler. Melò per un eterno nazismo

Il mio amico Hitler. Melò per un eterno nazismo

Ha debuttato a Bologna, Teatri di Vita, Il mio amico Hitler di Yukio Mishima con la regia di Andrea Adriatico. Festival Cuore di Tokio. Recensione

Foto GiapponeItalia.org

All’età di quarantacinque anni, il 25 novembre del 1970, Kimitake Hiraoka, al secolo Yukio Mishima, con i più fidati membri del Tate no Kai, l’associazione paramilitare da lui fondata, occupa il quartier generale delle forze dell’autodifesa giapponesi. In diretta televisiva, con le telecamere puntate sul balcone dell’edificio tiene il suo ultimo discorso. Lo scrittore non riusciva più a tollerare l’incedere degli Stati Uniti nella politica interna giapponese e la soggezione alle Nazioni Unite, che piegarono la sacralità della figura dell’imperatore rendendolo al pari di ogni uomo, così come rivoluzionarono le usanze trasformandole in tradizioni. I valori più nobili della vita, non la libertà, non la democrazia, ma la perdita dello spirito del Giappone imperiale si erano estinti con il trattato di San Francisco che aveva sancito la subalternità della patria alla potenza americana. Yukio Mishima compì il suicidio rituale dei samurai, il seppuku, dopo aver inneggiato all’Imperatore, trafiggendosi il ventre e facendosi decapitare.

Foto Web

Un idealista, un nazionalista che intendeva recuperare l’etica Giapponese trasformando il suo messaggio in un manifesto di rivolta, sancendo con il suicidio, la scomparsa dell’ultimo erede della tradizione nipponica. «Il problema “Hitler” si ricollega da un lato all’essenza stessa della civiltà del XX secolo, e dall’altro agli oscuri abissi della natura umana» scrive l’autore due anni prima del gesto eclatante, giustificando la pubblicazione del volume “il mio amico Hitler” che aveva attratto le critiche sia di quei progressisti che lo avevano considerato vicino al Fascismo, per le sue idee nazionaliste nipponiche in chiave nostalgica, sia dei conservatori, per via della sua presunta bisessualità e dell’astratta apoliticità, o antipoliticità, come egli stesso l’aveva definita.
Oggi li dramma torna in teatro e debutta per la regia di Andrea Adriatico a Teatri di vita, Bologna, nell’ambito del festival “Cuore di Tokyo”, Adriatico che non è nuovo alle regie dell’autore giapponese, vent’anni fa aveva allestito anche Madame de Sade.

La storia è ambientata nel giugno del 1934 e racconta, facendo dialogare direttamente i protagonisti in lunghi e fittissimi periodi narrativi che sono il vanto degli attori, le vicende antecedenti alla “notte dei lunghi coltelli”: quella tra il 29 e il 30 giugno 1934, che rappresenta il culmine di un conflitto interno al partito nazista nella quale la compagine sinistrorsa delle SA, guidata da Ernst Röhm e difesa da Gregor Strasser, viene trucidata. Era questo l’inizio delle leggi che di fatto hanno autorizzato, senza possibilità di giudizio posteriore, qualunque azione che Hitler ritenesse necessaria “a difesa dello stato”, la concretizzazione dei punti programmatici espressi nel “Mein Kampf”, l’inizio della campagna repressiva (che in realtà aveva avuto inizio in modo ufficioso fin dal 1933).
Sono Strasser e Röhm i due protagonisti del testo di Mishima e della rappresentazione di Adriatico, interpretati rispettivamente da Francesco Baldi e Giovanni Cordì, che impiega un intero atto di 55’ per sfuggire ai tentativi di persuasione dell’altro di non cedere alla strategia tutta hitleriana, volta alla costruzione di un regime totalitario, di creare l’illusione di una politica moderata, annientando destra e sinistra con la forza. Sia la recitazione che la caratterizzazione dei protagonisti, però, vanno in un’unica direzione: quella di connotare quanto più aderentemente possibile da una parte l’estetica stilistica dell’autore, dall’altra la sua “mistica omosessualità”. Se la scrittura è infatti molto estetizzante, ricca di artifici linguistici e retorici, la resa recitativa non fa che enfatizzarne l’ampollosità, facendo sicuramente notare l’incredibile capacità mnemonica degli attori ma non quella dello spettatore che viene fagocitato da interi capitoli monocordi e esasperati.
Se, di fatto, sia lo scrittore che il colonnello generale delle SA erano accomunati dall’aver represso per obblighi sociali, ma anche per una radicata idea di dignità e di onore, il loro orientamento sessuale, dalla visione dello spettacolo non emerge questo tipo di conflitto interiore, che potrebbe essere un dato piuttosto rilevante rispetto a uno dei temi cardine, ovvero la fedeltà verso i rapporti amicali, affettivi. Dopotutto, l’intera vicenda è incentrata sulla volontà di Rohm di non tradire in alcun modo “il suo amico Hitler”, Gianluca Enria, e sullo stesso Hitler che rassicurava il capo delle SA: «Quando diverrò presidente, sarà facile trovare il modo per affidarti l’intero esercito. È necessario avere pazienza fino a quel giorno: vorrei che tu affrontassi insieme con me anche le situazioni più critiche. All’apparenza siamo un cancelliere e il suo brillante ministro, ma poiché condividiamo un indicibile tormento, è come essere tornati al 1923, all’epoca delle fatiche di Ercole». Ma si percepisce neanche troppo velatamente una spettacolarizzazione di atteggiamenti stereotipati, un melò che, invece, Mishima stesso, rifugge categoricamente, affidando l’intero scheletro della trama agli intricati giochi di potere di quello che considera uno stratega senza precedenti. Persino il tavolo delle trattative è portato al parossismo: le macchinazioni militari, le rivelazioni di pericolose ideologie e gli strazianti tentativi di arginamento, vengono tutti compiuti all’interno di una piscina, che il pubblico accoglie con un estemporaneo “ooooooh!”, costruita di tutto punto dentro un piano scenico elevato che ospita la vasca e la nasconde completamente lasciando focalizzare l’attenzione sui giochi d’acqua degli attori che nell’atto di prendersi per il collo dalla foga della propria arringa, trovano indispensabile riavviarsi i capelli. Un coup de théâtre, quello della scatola acquatica, che però rimane fisso in scena dopo il suo svelamento per due atti e costituisce sul finale una cornice costituita da tre uomini immersi, silenti e seriosi nell’atto di divagarsi dalle fatiche militari mentre il genio politico hitleriano si disvela in un’autopsicanalisi condotta alla presenza del diplomatico tedesco Gustav Krupp, in scena Antonio Anzillotti De Nitto.
Chi è “il mio amico” Hitler? Perché emana fascino e seduzione? E quali sono le suggestioni che legano gli ultimi scampoli della Repubblica di Weimar con i nostri tempi? Sono i quesiti che il testo di sala pone al pubblico, e che spaventano fino all’inorridimento: perché Hitler è stato il mandante di un numero di assassini talmente alto al punto di non essere pienamente quantificabile e non potrebbe che emanare fascino e seduzione soltanto in quelle personalità psicotiche dominate da un sistema delirante che li avvicina suggestivamente a degli antisemiti demonologici, violentemente razzisti, fedeli al proprio antisemitismo culturale e che considerano giusto il massacro. E nonostante il pubblico sappia che l’aver messo in scena un dramma che lo riguarda non significa necessariamente considerarlo un eroe o amare la sua figura al punto da volerne invidiare le sue doti di stratega; nonostante sappia che il messaggio è indirizzato a tutti coloro che pensano che il vero dramma sottenda a tutte quelle posizioni politiche neutre e non ben identificate, vogliamo credere anche che questa messa in scena non individui nei nostri tempi un qualche tratto comune con gli ultimi scampoli della Repubblica di Weimar.
Proprio perché l’instaurazione di quella Repubblica fu il tentativo di stabilire una democrazia liberale che si concluse con l’effettiva distruzione di tutti i meccanismi forniti da un ordinario sistema democratico, ponendo le basi per quel governo totalitario di estrema destra dalle forti connotazioni nazionalistiche, militaristiche e antisemite, che sfociò nello sterminio di tutte le categorie di persone ritenute “sub-umani indesiderabili” per motivi politici o razziali.

Francesca Pierri

Teatri di Vita, Bologna, Settembre 2019

Leggi altri articoli su Yukio Mishima

IL MIO AMICO HITLER
di Yukio Mishima
traduzione Guanda Editore

uno spettacolo di
Andrea Adriatico

con
Antonio Anzilotti De Nitto
Francesco Baldi
Giovanni Cordì
Gianluca Enria

e con la partecipazione amichevole e straordinaria di
Francesco Martino, Lorenzo Pacilli, Damiano Pasi

scene e costumi: Andrea Barberini, Michela De Nittis, Giovanni Santecchia
trucco: Enea Bucchi
cura e aiuto: Saverio Peschechera, Giorgia Brignani
immagine e grafica: Daniela Cotti
tecnica: Micol Vighi, Mohamed Mouilhi

produzione
Teatri di Vita

con il sostegno di Comune di Bologna, Regione Emilia-Romagna, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali

Telegram

Iscriviti gratuitamente al nostro canale Telegram per ricevere articoli come questo

Francesca Pierri
Francesca Pierri
Laureata in Filologia Classica e Moderna con una tesi magistrale in Letteratura Comparata all'Università degli Studi di Macerata, frequenta il master in Critica Giornalistica con specializzazione in Teatro, Cinema, Televisione e Musica presso l'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" a Roma. Ufficio stampa e comunicazione, continua la sua attività redazionale collaborando con la Rai - Radiotelevisione Italiana. Vive a Roma e da gennaio 2017 è redattrice di Teatro e Critica.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Pubblica i tuoi comunicati

Il tuo comunicato su Teatro e Critica e sui nostri social

ULTIMI ARTICOLI

Orecchie che vedono: la danza che si ascolta a Gender Bender

Al festival bolognese Gender Bender molte sono state le proposte di danza, tra le quali sono emerse con forza il corpo resistente di Claudia...