Intervista a Davide Enia, autore e interprete de L’abisso
C’è una certa sospensione nei quartieri delle metropoli, durante il fine settimana. La caotica e differita isteria di Roma si stempera in una quiete inattesa, misurata passo a passo nelle vie che appaiono accoglienti, proprio nel momento esatto in cui la possibilità di attraversarle si manifesta chiara. Tra parlare e camminare, seguendo il filo di Davide Enia, c’è una distensione comune – ci penso mentre passiamo a conversare da un bar a un marciapiede – che in effetti riconosce le parole nei passi, le frasi nelle strade, il racconto nella direzione. Sta per vincere un premio come miglior monologo, lo saprà tra qualche giorno, ma non sembra gliene importi molto, si vuole muovere ed è la sola cosa che conta, non per irrequietezza, ma come atto concreto e continuativo di conoscenza. L’abisso, che sta per tornare in tournée durante la stagione, è un piccolo capolavoro di un teatro senza rete, capace di dire l’indicibile, di pensare le parole come veicolo di coscienza civile e intima, unite in un racconto che testimonia e confessa, come una preghiera.
Qual è la tua definizione di straniero? Chi o cosa è straniero?
Sono sempre più convinto che esista un doppio movimento: qualcosa che nasce dall’individuo in maniera estroflessa e va verso fuori e qualcosa che invece da fuori va verso dentro. Tutto ciò che è legato alla sfera della paura segue il primo movimento, c’è una tensione a tirare fuori l’angoscia che la condizione sociale, familiare, professionale, accumula; ed è facile avere un bersaglio verso cui indirizzarla. L’altro movimento ha a che fare con uno dei grandi rimossi del contemporaneo che è l’horror vacui, il terrore del silenzio, che ti obbliga a guardarti allo specchio e confrontarti con te stesso e insieme con l’esterno. La condizione di straniero è in questo doppio movimento: ciò che si intromette nel tuo contemporaneo, nella tua geografia, rimarcandone una differenza e al tempo stesso è colui che con la sua presenza, con le sue azioni, con il suo respiro, ti obbliga a rinegoziare te stesso rispetto a quello che ti accade intorno.
A proposito di geografia e l’esperienza che hai fatto a Lampedusa, durante il periodo di elaborazione dello spettacolo. Che rapporto avevi con questo luogo prima – così vicino alla tua terra ma al contempo così tanto esposto dai media – e come si è modificato dopo averlo narrato attraverso il tuo corpo vivo?
Lampedusa è un’isola che è nella placca tettonica africana ma dal punto di vista linguistico, culturale, fa parte della Sicilia. E la Sicilia è casa mia. È un avamposto di qualcosa che mi appartiene. La mia percezione prima era di un luogo lontano di mare, ma allo stesso tempo familiare, un po’ come l’ultima stanza di una casa molto grande; adesso è un luogo che ha funzionato come specchio e microscopio perché, per cercare di processare qualcosa di profondo in me, l’unica possibilità era capire come stavo io mentre mi venivano consegnate quelle testimonianze. Quindi un luogo assolutamente non neutro, in cui non mi è comodo stare, ma che ha la capacità di farmi pacificare con me stesso perché sa dotarmi di una prospettiva per affrontare il dolore, data dall’esperienza personale legata a mio padre e l’amore in comune verso quest’uomo – mio zio e suo fratello – che non è mai stato sull’isola ma che per me è in ogni suo angolo. L’isola stessa, per sua natura, ha una struttura particolare: uno scoglio piatto emerso in cui l’orizzonte del mare è dappertutto, a suo modo anche questo è un invito a non soccombere ma a combattere per capire come varcare l’orizzonte.
Proprio il dolore è un tema molto forte di questa esperienza, per averne portato uno come bagaglio personale, privato, per avene trovato uno esteso e al confine di ciò che è raccontabile, ma allo stesso tempo svilito nella narrazione mediatica, quasi come fosse un sinonimo del nome Lampedusa. Come riescono a dialogare e stare in equilibrio l’esperienza individuale e quella collettiva del dolore? Qual è il punto di contatto?
Una delle insidie più grandi, il rischio che si corre quando si tratta un tema del genere, è la strumentalizzazione dei corpi degli esseri umani. Il primo passo, il romanzo [Appunti per un naufragio, Sellerio, 2017], è il tentativo di mettere a fuoco il tempo presente nel momento della crisi, lì io prendo atto del fallimento della parola perché scrivo un romanzo che dichiaro in forma di appunti e porto poi in scena i mancamenti, i silenzi del corpo, l’impossibilità di stare nel limite, anche a rischio di reazioni emotive forti. All’interno di una vicenda, che costituisce come dici il luogo stesso, io provo a raccontare una storia molto intima che suo malgrado si trova a essere testimonianza di un momento storico; ma il movimento che porta avanti tutto il racconto è un elemento incredibilmente semplice, ossia l’ascolto dei primi interpreti di quel luogo ai quali garantire la fedeltà all’incastro esatto delle parole che hanno utilizzato per testimoniare, anche perché ero proprio io che riuscivo a vedere in quale modo il loro corpo le pronunciava, le soffriva, in quale punto il discorso si chiudeva o si spalancava per dare spazio ai frammenti del trauma. Proprio per questo motivo una delle voci assenti dal racconto, assenti anche dal palco, è quella di coloro che affrontano il viaggio, un po’ perché è un errore da mentalità coloniale paternalista quello di imporre un pensiero, un po’ perché bisogna aspettare che siano loro a costruire la struttura di un racconto che abbia il peso giusto per ogni parola.
Pronunci la parola viaggio, vogliamo intenderlo come esperienza non solo fisica ma spirituale, sensibile, metaforica, in tutto e per tutto umana. Considerando ogni accezione di questa dislocazione quindi come attraversamento spaziale ed emotivo, cosa metti nel tuo bagaglio? E per cosa lasci spazio da riportare indietro?
Prima di tutto metto il cortisone e gli antidolorifici [ride] perché una delle grandi conquiste dell’uomo è che le medicine permettono di ripararci. Non porto neanche i libri in viaggio, perché mi sposto moltissimo e la lettura diventa questo trascorrere con lo sguardo tutti i singoli luoghi che vedo, gli occhi si stancano con altri mezzi; quindi porto un paio di scarpe comode, un costume da bagno perché se c’è la possibilità voglio bagnarmi nel mare. Bisogna iniziare ad accettare che non tutto può essere musealizzato, che alcune cose finiranno, perché viaggiare è un atto fortemente carnale e l’uomo è finito in sé stesso, l’ho capito in Cappadocia quando c’era da poter prendere la mongolfiera e mi sono rifiutato, perché stare nei luoghi, arrampicarsi, è diverso che vederli dall’alto, seguendo una logica coloniale del capitalismo che vuole guardare le cose come dentro un acquario e che crea distanza tra il corpo, l’esperienza e l’oggetto in sé.
Qual è, se c’è, un confine tra la dedizione umanitaria e la retorica del naufragio, della salvazione?
Al di là della retorica, io credo che gran parte delle azioni che compiamo siano tese a salvare noi stessi, sciogliere i nodi dell’angoscia e dell’affanno che fatalmente ci crocifiggono a questa vita. Poi c’è da farlo con grande equilibrio, altrimenti ci si chiude fino all’odio. Io provo una grande pena, una sorta di misericordia, per tutte le persone che odiano, perché riconosco il concreto disagio di vita di quella fetta di umanità dalla quale provengo, dato dalla cattiveria del capitalismo e dalla miopia della politica sociale che produce un arroccamento verso figure forti, una infelicità visibile soprattutto nei luoghi della marginalità.
Con il cambiare nel tempo del tuo stile espressivo, com’è cambiato il tuo rapporto con il pubblico?
All’inizio mi venivano a fare i complimenti, mi dicevano che avevo talento, poi pian piano, più ancora con L’abisso, è cambiato qualcosa, il pubblico ha iniziano a riconoscere di fronte una persona che rivivifica costantemente un dolore cercando di uscirne vivo ogni volta; ci fermano per abbracciarci, per raccontare una loro esperienza che diventi la retta parallela dell’esperienza che è stata mia, che ognuno cioè processi la propria storia personale, la propria memoria o il contatto con l’oltre, con la morte, provando – ed è l’unico consiglio che mi sento di dare – a nominare ciò che ci fa male e ci ferisce, perché è di grande aiuto.
Un grande poeta franco-egiziano, Edmond Jabès, scriveva “Tu sei qui, ma il luogo è così vasto che essere l’uno accanto all’altro è già essere tanto lontani da non riuscire né a vederci né a sentirci”. Cosa ti evocano queste parole?
A colpirmi sono le prime tre parole: tu sei qui. Segnano una presenza, nell’unico tempo che davvero esiste, il presente, un tempo in cui sentirsi parte del tutto, ché è infinito perché ha in sé tutte le facoltà della grammatica della speranza, il futuro, e tutta la distorsione degli accadimenti che è il passato, tutte le diverse possibilità narrative di nominarlo. Qui è proprio la distanza tra gli esseri umani, ma è altresì il medesimo movimento che porta il fiore a cercare la luce, quando c’è il sole.
Simone Nebbia
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