IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. Proseguiamo l’APPROFONDIMENTO col secondo dei tre appuntamenti dedicati a Gorgia e nel #98 la dinamica e gli scopi cui tende la sua tragedia.
Il gioco è un inganno alto, una maniera
fantastica di manifestarsi dell’uomo
(Vasil’ev, Ho quarant’anni, ma sono di aspetto giovanile,
in A un unico lettore, p. 251)
Lo studio dei termini “giustizia”, “sapienza”, “inganno” nella prospettiva di Gorgia ha consentito di definire che cos’è la tragedia. Non ne ha però chiarito la dinamica e lo scopo a cui dovrebbe mirare, o, più di preciso, perché l’attore che inganna sia “giusto” e lo spettatore che partecipa allo spettacolo sia “sapiente”. Anche su questo versante, le testimonianze su Gorgia e i frammenti delle sue orazioni permettono di colmare il vuoto.
Per quel che riguarda la dinamica della tragedia, si possono isolare due punti. Il primo è che Gorgia descrive una costruzione poetica che coinvolge una collettività. Ritorniamo, infatti, a un confronto tra l’inganno della tragedia gorgiana e l’inganno di Paride verso Elena, descritto nell’Encomio di Elena. Nel secondo caso, Gorgia riconosce che a mancare sia la reciprocità. Solo Paride ha la volontà di ingannare Elena, mentre questa non accetta né ha consapevolezza di essere ingannata. Parliamo così di un inganno ordinario, dove c’è una triste vittima che è ingannata e un ingannatore aggressivo che cerca di strappare un minimo vantaggio. La dinamica della tragedia prevede, invece, il dischiudersi di un inganno eccezionale, in cui entrambe le parti hanno consapevolezza di poter ricavare qualcosa di arricchente per entrambi. Quando è presente questa collaborazione, si determina un “gioco”, in cui si fa finta di riconoscere come reale quel che si sa essere in fondo irreale.
Il secondo punto della dinamica della tragedia è più tecnico: riguarda il modo in cui si determina la complicità tra l’attore e lo spettatore. Un indizio può essere ricavato dal giudizio che Gorgia diede dei Sette contro Tebe di Eschilo come «pieno di Ares». Stando a un parallelo con le Rane di Aristofane, l’espressione comunicherebbe che tale tragedia desta il desiderio di combattere – quello stesso desiderio che il sofista considera nel suo Epitaffio come una delle prerogative lodevoli degli Ateniesi caduti in guerra. Ciò implica che la dinamica che porta all’esperienza del tragico è quella dell’immedesimazione. I Sette contro Tebe destano la voglia di guerreggiare, del resto, perché rappresenta eroi che guerreggiano. L’inganno tragico può essere allora alimentato se l’attore sa costruire una finzione scenica che genera la passione dell’animosità e, viceversa, se lo spettatore accetta di lasciarsi affascinare dal gioco.
Secondo tale logica, verrebbero allora implicitamente distinti l’attore buono e quello cattivo. L’uno nello spettacolo tragico avverte chi ascolta che quanto sta per fare o dire è un consapevole gioco di suggestioni per cercare di far risuonare qualcosa di vitale. L’altro porta in scena se stesso, cerca la risata o la lacrima facile per ottenere consensi e ammirazione della sua tecnica. Ma verrebbero anche separati lo spettatore buono – colui che accetta il gioco e si mette in vigile ascolto dell’artista – dallo spettatore cattivo, il quale pretende che quanto avviene sulla scena corrisponda esattamente alla vita quotidiana. Se questo è vero, la definizione può essere allora riformulata nei termini che seguono. La tragedia è un inganno collettivo in cui l’attore che inganna con il gioco del teatro è più giusto dell’attore che non inganna e in cui lo spettatore che è ingannato da questo stesso gioco è più sapiente dallo spettatore che non ne viene ingannato.
Compresa la dinamica dell’esperienza del tragico, procurata da un atto di creazione collettiva e da processi di immedesimazione, resta da capirne il fine. Si potrebbe a prima vista supporre che Gorgia non ne individuasse uno e che si limitasse solo a descrivere l’esperienza del tragico. La sua indagine poteva allora essere solo erudita, come lo era in fondo quella del suo contemporaneo Glauco di Reggio, che scrisse l’opera Sugli argomenti di Eschilo dedicata solo alla ricostruzione delle trame delle tragedie eschilee e non alla loro funzione. Conviene tornare però di nuovo a Plutarco che, dopo aver citato la definizione di Gorgia, aggiunge che la tragedia è importante proprio per i suoi effetti. Grazie alle rappresentazioni tragiche, infatti, Eschilo, Sofocle, Euripide consentirono di risolvere molte difficoltà e di portare la città di Atene al successo.
Non è chiaro se questa aggiunta di Plutarco rispecchi ancora la prospettiva gorgiana, oppure se sia un suo personale corollario. La prima ipotesi è tuttavia resa plausibile dall’interesse di Gorgia almeno verso il testo Sette contro Tebe perché «pieno di Ares», che, come si è visto puo essere apprezzato per il suo carattere politico: quello di spingere gli Ateniesi ad acquisire l’animosità in guerra. Flavio Filostrato recupera peraltro questo spunto per sostenere che il sofista fu nel suo ambito un “nuovo Eschilo”. Come infatti questi creò la tragedia e introdusse delle innovazioni superiori a quelle dei suoi colleghi, così Gorgia de facto ideò la sofistica e si distinse rispetto ai suoi colleghi. Se insomma accettiamo l’integrazione di Plutarco, la giustizia e la sapienza consegnate dagli attori tragici allo spettatore hanno allora la funzione politica di condurre le città al benessere, dunque alla felicità. Questa ulteriore deduzione è confermata dall’incipit dell’Elogio agli Elei di Gorgia «Elide, città felice!». La felicità è il tratto più importante della città, ed è presumibilmente questa che la tragedia cerca di raggiungere con le sue visioni poetiche.
Ne segue che l’estetica di Gorgia è improntata a quella che potremmo chiamare la “responsabilità del tragico”. Abbiamo visto, infatti, che il discorso poetico è potenzialmente sia costruttivo che distruttivo. Come Gorgia scrive nell’Encomio di Elena, è un «farmaco» o «veleno» che può tanto guarire, quanto avvelenare l’ascoltatore. È per tale ragione che, nel Gorgia, Platone fa dire all’alter ego letterario del sofista che il retore deve riconoscere questa ambiguità del discorso poetico e usare la sua capacità persuasiva a fin di bene. Ora, se la tragedia è un gioco ingannevole ma serio che porta alla felicità, essa è di fatto un modo di depurare la poesia dai potenziali infelici e di esaltare quelli felici. L’inganno di Paride verso Elena va solo a vantaggio del suo benessere ed è incurante di quello della donna, mentre quello tragico va a vantaggio di tutta la collettività. Usando la debita cautela, potremmo paragonare la tragedia di Gorgia che innesca gli effetti positivi del veleno o farmaco della poesia alla peste benefica che Artaud auspicava ne Il teatro e il suo doppio (capitolo Il teatro e la peste): un contagio che faccia scaturire dall’essere umano le sue energie più vitali esaltandone, con crudele ossia inesorabile precisione e rigore, il suo benessere più autentico.
Questa interpretazione dell’estetica gorgiana che mira alla felicità collettiva ci consente di tornare un’ultima volta alla definizione della tragedia e di precisare meglio di quale giustizia / sapienza si stia qui parlando. L’attore che inganna è più giusto di colui che non inganna perché rende gli altri più felici con le sue finzioni estetiche. Per converso, lo spettatore che si lascia ingannare è più sapiente di colui che non si lascia ingannare perché è attraversato da visioni poetiche che lo fanno stare meglio, che lo portano al benessere puro. Non si tratta, certo, di un sapere scientifico e impersonale, perché si è visto che Gorgia non crede all’attingibilità o alla comunicabilità di una simile sapienza. Chiunque ragionasse in questi termini potrebbe certo sempre replicare che i Sette contro Tebe di Eschilo non dicono nulla di concreto e reale, che l’animosità che esso desta è il frutto di un’illusione. Ma se è vero che il mondo di per sé forse non esiste, né è conoscibile o comunicabile, questo gioco illusorio è – per riprendere il linguaggio di Vasil’ev citato in epigrafe – la forma di inganno più alto tra quelle possibili, il manifestarsi più autentico della nostra umanità. L’obiettivo della tragedia è la conoscenza della felicità, non la felicità della conoscenza.
Si potrebbe dire che l’inganno su cui si fonda la tragedia (ovvero quello che sia i buoni attori sia i buoni spettatori vogliono alimentare) è “sincero”. La suprema finzione estetica è al tempo stesso la migliore espressione di autenticità passionale e intellettuale, che produce in chi si raduna a teatro felicità e amicizia. Il fatto che questa esperienza non abbia nulla di concreto, che sia una pura chimera o una nuvola senza sostanza, poco importa. Ombre e illusioni impalpabili noi siamo. La poesia del tragico è dunque un modo di abitare le nuvole: la tensione a creare un mondo felice, comprensibile e incomunicabile, in luogo di quello incomprensibile, incomunicabile e infelice delle quotidiane apparenze.
Enrico Piergiacomi
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Al contrario fiorì e raggiunse grande notorietà la tragedia, spettacolo straordinario per gli occhi e per l’udito degli uomini d’allora, capace di ingannare con i miti e le passioni. Come asserisce Gorgia: «Chi inganna è più giusto di chi non inganna e chi è ingannato è più sapiente di chi non è ingannato». Chi inganna è infatti più onesto poiché ha fatto quanto promesso, mentre chi è ingannato è più accorto: ciò che non è insensibile si lascia ammaliare dal fascino delle parole. Quale giovamento procurarono queste splendide tragedie ad Atene? Da una parte l’accortezza di Temistocle concepì mura a protezione della città, la cura di Pericle adornò l’acropoli, Milziade liberò la città, Cimone ottenne il governo, dall’altra la saggezza di Euripide, l’eloquenza di Sofocle, la poesia di Eschilo mutarono ogni difficoltà e assicurarono ogni genere di successo: allora è corretto mettere a confronto i drammi con i trofei ed elevare il teatro di fronte alla carica di stratego e paragonare gli atti di valore agli insegnamenti (Plutarco, Sulla gloria di Atene, passo 348B11-D8 = 82 B 23 DK; trad. Marco Fanelli, modificata)
Se poi essa con la violenza fu rapita, vale a dire contro la legge subì violenza e contro giustizia subì oltraggio, evidentemente il rapitore per aver esercitato un oltraggio si rese colpevole; la rapita invece per aver subito un oltraggio fu colpita da sventura. Dunque, è condannabile il barbaro che barbara azione intraprese, con la legge, con la parola, con l’azione, in modo da ottenere in causa della legge perdita dei diritti civili, in causa della parola un’accusa,, in causa dell’azione una pena. Colei, invece, che subì violenza e fu privata della patria e orbata dei suoi cari, come mai non dovrebbe a ragione essere oggetto di compassione piuttosto che di mala fama? L’uno, infatti, si decise a un’azione perversa, l’altra la subì; di conseguenza è giusto, di questa aver compassione o quello odiare. Se fu la parola quella che persuase e ingannò la sua mente, neppure di fronte a questa possibilità è difficile fare una difesa e disperdere l’accusa nel modo seguente. La parola è un potente sovrano, poiché con un corpo piccolissimo e del tutto invisibile conduce a compimento opere profondamente divine. Infatti essa ha la virtù di troncare la paura, di rimuovere il dolore, d’infondere gioia, d’intensificare la compassione. Che questo potere si attui cosi, lo dimostrerò. Bisogna anche dimostrarlo all’opinione degli ascoltatori. La poesia nella sua universalità io giudico e definisco come parola con metro. In coloro che la ascoltano s’insinuano un brivido pieno di terrore, una pietà grondante di lacrime e un rimpianto che accarezza il dolore. Ne segue che, di fronte a vicende liete o a eventi avversi di attività e di persone estranee, l’anima, per mezzo dell’arte della parola, prova un’esperienza propria. Suvvia, io devo passare successivamente a un ulteriore argomento: gli incantesimi che per mezzo dell’arte della parola riescono ispirati accostano il piacere, scostano il dolore; infatti, con l’immedesimarsi nell’opinione dell’anima il potere dell’incantesimo la seduce, la persuade, la trasforma mediante una malia fascinatrice. Della malia fascinatrice e della magia si sono trovate due arti, che valgono come traviamenti dell’anima e inganni dell’opinione. Quanti riuscirono a persuadere – o ancora persuadono – innumeri persone su innumeri argomenti, con l’inventare un discorso ingannevole! Se infatti tutti di tutti gli eventi passati avessero ricordo, di quelli presenti cognizione, di quelli futuri previsione, il discorso pur senza mutazioni, non ingannerebbe come ora fa. In realtà, invece, non esiste una via né per ricordare il passato, né per approfondire il presente, né per divinare il futuro. Di conseguenza, intorno alla massima parte dei problemi i più offrono all’anima come consigliera l’opinione. Ma l’opinione è malsicura e priva di fondamento e, perciò, nel viluppo di deviazioni malsicure e prive di fondamento getta coloro che a essa ricorrono. Orbene quale ragione impedisce che anche a Elena possano essere giunte in modo analogo incantagioni quando non era più giovane, come se fosse stata rapita con la violenza? Infatti la forza della persuasione, dalla quale ebbe origine il modo di pensare di costei – ed effettivamente ebbe origine per necessità – non subisce biasimo, ma possiede un potere che s’identifica con quello di questa necessità. E appunto la parola, che persuade la mente, costringe la mente che essa riesce a persuadere, tanto a lasciarsi sedurre da ciò che viene detto quanto ad approvare ciò che viene fatto. Quindi, chi persuade, in quanto esercita una costrizione, si rende colpevole; la mente che si lascia persuadere, in quanto è costretta dalla parola, a torto gode mala fama (Gorgia, Encomio di Elena, § 7-12 = 82 B 11 DK)
Gorgia disse che uno dei drammi di Eschilo, i Sette contro Tebe, è pieno di Ares (Plutarco, Questioni conviviali, libro VII, passo 715D11-E3 = Gorgia, 82 B 24 DK)
ESCHILO: Ho composto un dramma pieno di Ares
DIONISO: Quale?
ESCHILO: I Sette contro Tebe. Chiunque lo abbia visto è stato preso dalla voglia di combattere (Aristofane, Rane, vv. 1021-1022; trad. Mastromarco-Totano)
Quale mai pregio era assente da questi eroi fra quelli che devono essere essenziali per eroi? e quale anche era presente fra quelli che non devono essere essenziali? Dire io possa quello che voglio, ma possa voler quello che devo in modo da rimaner ignoto al divino risentimento e sfuggire all’umana invidia. Questi infatti ispirati da dio possedevano il valore, di umana natura il destino di morte; ed effettivamente spesso valutarono la bontà del vero giusto più dell’arroganza del diritto positivo e spesso più del rigore della legge la perfezione del ragionamento, poiché credevano che questa fosse legge divina e universale in modo assoluto: il dire e il tacere, il fare e <il tralasciare> ciò che si deve nel dovuto momento; e, quindi, due soprattutto fra le facoltà che il dovere impone, misero in pratica: la ragione <e la forza>, in modo da prendere decisioni con quella, o ottenere un risultato pratico con questa; da curare coloro che contro il giusto sono sfortunati; e punire coloro che contro il giusto sono fortunati, arroganti di fronte all’utile, appassionati di fronte alla virtù che si richiede; capaci di eliminare con l’assennatezza della ragione la dissennatezza <della forza>, prepotenti coi prepotenti, saggi con i saggi, intrepidi con gli intrepidi, tremendi nelle situazioni tremende. Come testimonianza di questi loro pregi eressero trofei per la vittoria sui nemici, quali monumenti in onore di Zeus, offerto votive da parte loro, essi che non erano inesperti di un innato impeto guerresco, né di amori legittimi, né di contesa armata, né di pace amante del bello, rispettosi di fronte agli dèi in virtù della giustizia, pii di fronte ai genitori in virtù delle loro attenzioni, giusti di fronte ai loro concittadini in virtù dell’eguaglianza, devoti verso gli amici in virtù della lealtà. Per conseguenza, di costoro che sono morti il rimpianto non è morto insieme, ma immortale in persone non immortali vive sebbene essi non siano vivi» (Gorgia, Epitaffio, 82 B 6 DK)
Glauco, nella sua opera Sugli argomenti di Eschilo, dice che i Persiani sono imitati dalle Fenicie di Frinico. E cita anche l’inizio del dramma che è questo: «Questo è dei Persiani da tempo partiti» (Anonimo, Sintesi dei «Persiani» di Eschilo, p. 3 = Glauco di Reggio, fr. 9 Gostoli; trad. Giuliana Lanata)
La Sicilia ci ha dato a Leontini Gorgia, al quale crediamo debba riportarsi, quasi come a padre suo, l’arte dei sofisti; perché se si pensa ad Eschilo, di quante cose arricchì la tragedia, provvedendola di costumi, di palcoscenico, di figure di eroi, di messaggeri, di nunzi, e di un’azione da svolgersi sulla scena e nel dietroscena, si vede che Gorgia tiene lo stesso posto rispetto ai suoi compagni d’arte (Filostrato, Vite dei filosofi, libro I, cap. 9, §§ 1-2 = Gorgia, 82 A 1 DK)
Sì breve esordio ha l’Encomio degli Elei di Gorgia: senza alcun atteggiamento minaccioso e preludi, incomincia sùbito: «Elide, città felice!» (Aristotele, Retorica, libro III, passo 1416a1-3 = Gorgia, 82 B 10 DK)
Identico rapporto ammettono la potenza della parola di fronte alla condizione dell’anima e la prescrizione di farmaci rispetto alla natura del corpo. Infatti, come alcuni farmaci eliminano dal corpo alcuni umori, altri altri, e certi strappano alla malattia, altri alla vita, cosi delle parole alcune affliggono, altre dilettano, altre atterriscono, altre dispongono chi ascolta in uno stato di ardimento, altre infine con un’efficace persuasione maligna avvelenano e ammaliano l’anima (Gorgia, Encomio di Elena, § 14 = 82 B 11 DK; trad. modificata)
Se tu sapessi tutto, Socrate, riconosceresti che, per così dire, essa [la retorica] raccoglie e tiene sotto di sé tutti i poteri. Te ne darò una grande prova: spesso ho accompagnato mio fratello e altri medici da qualche malato, che rifiutava di bere una medicina o di mettersi a disposizione del medico per incisioni o cauterizzazioni e, quando il medico non riusciva a persuaderlo, lo persuadevo io con la sola tecnica della retorica. Io affermo che se un retore e un medico, giunti insieme nella città che vuoi, dovessero dibattere a parole nell’assemblea o in qualche altra riunione per decidere chi dei due deve essere scelto come medico, il medico scomparirebbe assolutamente e sarebbe scelto, se lo volesse, colui che è capace di parlare. E se disputasse con qualsiasi altro artigiano, il retore saprebbe persuadere più di ogni altro a scegliere lui: non vi è cosa su cui il retore non possa parlare davanti alla folla in modo più persuasivo di qualunque uomo del mestiere. Tale e così grande è il potere della tecnica retorica. Tuttavia, Socrate, bisogna far uso della retorica come di ogni altra tecnica competitiva. Di ognuna di queste non bisogna far uso contro tutti gli uomini: il fatto che si sia imparato a fare a pugni, a lottare al pancrazio e a combattere con le armi in modo da battere amici e nemici, non è un motivo per colpire gli amici, ferirli o ucciderli. Così, per Zeus, se uno, a forza di frequentare la palestra, è diventato robusto nel corpo e buon pugile e si mette quindi a picchiare il padre, la madre o qualcun altro dei suoi familiari o degli amici, ciò non è un motivo per odiare e cacciare dalla città i maestri di ginnastica e quelli che insegnano a combattere con le armi. Costoro hanno trasmesso la loro tecnica perché ne fosse fatto un giusto uso contro i nemici e quanti commettono ingiustizia, per difendersi, non per sopraffare. Quelli che la pervertono ad altri scopi fanno un uso scorretto della forza e della tecnica. La tecnica non è colpevole né cattiva per tale motivo, e malvagi, dunque, non sono i maestri ma coloro che ne fanno un uso scorretto, credo. Lo stesso discorso si applica alla retorica. Il retore è capace di parlare contro tutti e su ogni argomento, sicché in breve riesce alla folla più persuasivo di ogni altro rispetto a tutto ciò che vuole: nondimeno, non deve togliere la reputazione ai medici, per il fatto che potrebbe farlo, né agli altri artigiani. Deve, invece, usare la retorica, come ogni tecnica competitiva, con giustizia. Se un uomo, credo, divenuto abile retore, si serve in seguito di questo potere e di questa tecnica per commettere ingiustizia, non si deve odiare il suo maestro e cacciarlo dalle città: quest’ultimo ha trasmesso la sua tecnica per il e giusto uso, l’altro invece ne fa un uso contrario. È giusto, dunque, odiare, esiliare e uccidere chi ne fa un uso scorretto, ma non chi l’insegna (Platone, Gorgia, passo 456a7-c1 = 82 A 22 DK; trad. Giuseppe Cambiano)
Gorgia di Leontini apparteneva alla medesima categoria di coloro che hanno annullato il «criterio», non per altro secondo quell’ordine di idee che è analogo a quello di Protagora e dei suoi seguaci. Nell’opera intitolata Intorno al non essere o della natura dimostra tre proposizioni fondamentali, nel loro reciproco svolgersi. Una e la prima è che «nulla esiste», la seconda che «se anche vi è un’esistenza, non può venir rappresentata»; la terza che «se anche può venir rappresentata, non può certamente essere comunicata e spiegata agli altri» (Gorgia, 82 B 3 DK = Sesto Empirico, Contro i matematici, libro VII, § 65; trad. modificata)
[La traduzione dei frammenti di Gorgia e delle testimonianze sul suo pensiero è citata da Mario Untersteiner (a cura di), I sofisti: testimonianze e frammenti. Vol. 2: Gorgia, Licofronte, Prodico, Firenze, La Nuova Italia, 1949. Gli altri testi sono tratti da:
- Antonietta Gostoli, Glauco di Reggio musico e storico della poesia greca nel V secolo a.C., in «Quaderni urbinati di cultura classica», 110 (2015), pp. 125-142;
- Giuliana Lanata (a cura di), Poetica pre-platonica: testimonianze e frammenti, Firenze, La Nuova Italia, 1963;
- Giuseppe Cambiano (a cura di), Platone: Dialoghi filosofici. Vol. 1, Torino, UTET, 1995;
- Giuseppe Mastromarco, Piero Totano (a cura di), Aristofane: Commedie. Vol. 2, Torino, UTET, 2006]