Amore intriso di disperazione e violenza nel Love di Susie Dee, in prima europea per la Biennale Teatro 47 di Venezia. Recensione.
Ci sono case, vite, in cui nessuno accende mai la luce, gli uomini e le donne che le abitano vivono una penombra asfittica che non solo non ha finestre d’aria, ma nemmeno quasi è permesso loro di immaginarle; ci sono case, vite, corrose dal tempo prima che l’erosione abbia fatto il suo corso naturale, disabitate anche con qualcuno dentro, pervase di un odore di perenne sofferenza, di una lenta continuità di morte. Ci sono case, vite, come quelle di Tanya, Annie e Lorenzo, i tre personaggi della drammaturgia firmata da Patricia Cornelius, dal titolo Love, che Susie Dee – entrambe sono di nazionalità australiana – porta in scena sul palco dell’Arsenale di Venezia, in prima europea per la Biennale Teatro 47.
Una pedana rialzata impone il corpo di tre ragazzi, in piedi contro qualcosa di non visibile ma che c’è, qualcosa contro cui combattono la battaglia di vivere; occupano le dimensioni del quadrato, attorno è una esplosione già avvenuta, coriandoli brillanti sparati in un tempo in cui nessuno era presente, ora inerti a terra come polvere, rifiuto da rimuovere.
E, dunque, Love.
L’amore è il centro della loro relazione, l’amore composto anche da tutte le violenze che hanno subito, l’amore desolato di una privazione permanente, l’amore crudo e crudele, perforato dal dilagare della disperazione. Questi ragazzi, cui manca tutto fuori dalla rabbia, non hanno che il linguaggio e le azioni, attraverso le quali manifestare una presenza nel mondo sempre disagevole, un gradino più in basso della decenza, mai al passo con la comunità umana che gli sta intorno. Eppure, ecco l’amore, una strana forma di malattia endemica che contagia tutti e tre, a loro modo: Tanya (Tahlee Fereday) e Annie (Carly Sheppard) iniziano una relazione sostenute da un forte desiderio reciproco di intimità e protezione, cercano di andare lontano in uno posto dove ricominciare una vita, non hanno niente e cercano di sopravvivere con espedienti più o meno accettabili; Lorenzo (Benjamin Nichol) interviene nella vita di Annie con la sua allegria sballata nell’assenza provocata da una distanza, perché Tanya è di nuovo in carcere per un reato non chiarito, Annie è da sola e il suo bisogno di sostegno spiana la strada al giovane tossicodipendente, parassita di economie che la stessa ragazza gli procura attraverso la prostituzione.
Eh, dunque, Love.
In una dimensione come sospesa, tali le vite dei protagonisti, la musica di Anna Liebzeit si fa elemento linguistico determinante: ora avvolgente, ora sinistra, segue l’andamento isterico del loro ondivago rapporto, dischiude quella penombra intrisa di una smarrita, non durevole, intimità. Il dialogo, complice anche la lingua inglese che ha il pregio dell’essere immediata, non è fatto di racconto o ragionamento, ma fa come sì che le parole siano direttamente azioni, innescate in una sferzata continuità; di conseguenza la recitazione appare molto fisica, il movimento del corpo è del tutto coinvolto nei concetti espressi dal dialogo. Pregevole è la luce di Andy Turner che crea quella condizione di asfissia emotiva, impregnata di aria non respirabile perché troppe volte respirata, aria che aria non è più. La vita dei tre dipende dagli altri, senza che si conoscessero prima, di colpo la loro interdipendenza è una catena inossidabile e perversa, l’amore è una spinta a sopravvivere, da un lato, ma dall’altro non è che un pretesto per non annegare da soli. Chi è più debole, soccombe. Come quando si è innamorati, forse. Ma non poi tanto diverso da quando l’amore, dentro e attorno, non c’è.
Simone Nebbia
Teatro Arsenale, Venezia – Biennale Teatro 47, Luglio 2019
LOVE
testo Patricia Cornelius
regia Susie Dee
con Carly Sheppard, Tahlee Fereday, Benjamin Nichol
scene e costumi Marg Horwell
luci Andy Turner
compositore Anna Liebzeit
direttore di scena Rebecca Moore
manager di produzione Andy Turner
produttore Laura Milke-Garner