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La mappa della memoria di Juan Mayorga

Qual è la relazione tra la memoria e il segno dell’uomo che la conserva? Il Cartografo di Juan Mayorga sulla scena di Inequilibrio 2019. Recensione.

Foto Antonio Ficai

C’è una relazione stretta tra il passaggio di tempo e i segni che si lascia alle spalle, come sassi smangiucchiati di un fiume che, almeno in apparenza, non si cura del terreno sul quale corre, veloce, fino alla foce di un qualunque mare. Il tempo appare distratto, privo di tumulti se non quelli degli uomini che ne vivono gli effetti, durante o dopo il suo passaggio. Eppure è proprio questo il mistero, la meraviglia: gli uomini, che in esso distinguono ciò che non è vita da ciò che non è morte, che in esso misurano quel che non possono conoscere, attraverso la memoria provano il brivido inconsapevole di diventarne interpreti, forse meschini, certo temerari nel dirsene parte. È in questa riflessione che si articola Il Cartografo, drammaturgia dello spagnolo Juan Mayorga che il gruppo Bischi/Campolo/Scarpari/Torrini/Trillini, formato all’interno della fertile esperienza del Teatro Rossi Aperto di Pisa, ha portato sul palco di Inequilibrio 2019 a Castiglioncello.

Foto Antonio Ficai

Una città. Varsavia. Una storia, dentro la storia, ossia il mondo com’è diventato, com’è accaduto fino a quel momento. Il Novecento ci parla di Varsavia attraverso uno spartiacque definito dalla Seconda Guerra Mondiale, evento che ha ridotto in macerie la città, precisamente il ghetto ebraico e con esso il popolo più radicato della capitale polacca; una donna spagnola (Daniela Scarpari), giunta a Varsavia per motivi di altra natura in un tempo che appare presente, si trova pian piano assorbita dal desiderio confuso ma deciso di rintracciare una memoria, attraverso una leggenda di cui viene a conoscenza, quella del cartografo che ha segnato in una mappa cifrata i confini interni ed esterni del ghetto come era allora, consegnando il segreto a sua nipote, una bambina di cui ora si ignora l’identità. Il desiderio della donna cresce e si alimenta oltre una misura spiegabile, l’uomo (Tazio Torrini) per il quale è a Varsavia – marito e collaboratore dell’Ambasciata di Spagna – non riesce a comprendere il progressivo interesse e cerca con ogni mezzo di dissuaderla, di capirla, di offrirle spazi di fuga da quel pensiero ossessivo, ma la donna non recede perché in quella storia sono i segni di un’altra, una figlia scomparsa e della quale non si parla, una storia rimossa proprio come il ghetto di Varsavia. Per la donna ristabilire l’ordine di quei confini è una missione che in qualche strano modo potrebbe riordinare in lei quella memoria con cui non riesce ad avere contatto e che resta, come un sottile spessore, nel tempo di dopo.

Foto Antonio Ficai

La regia collettiva del gruppo, abbastanza riuscita ma ancora da asciugare per raggiungere un maggiore equilibrio e una identità più riconoscibile, rivela una lettura affascinante del testo originale, scomposto in scene come apparizioni evocate in un contesto di luce tenue; complice di questa intenzione è anche la scelta di far dialogare le parole e le azioni della vicenda, in una omogenea recitazione dolorosa, con alcuni accenni coreografici e con il disegno dal vivo (di Alessio Trillini) proiettato in diretta sul fondale o, con maggiore densità sensibile, proprio sul corpo della donna che dunque si rende interprete concreta, corporea, di quell’operazione di scavo, in sé stessa e nella memoria – che si vorrebbe – condivisa. Non si tratta banalmente di una mappa, ma di una continua ridefinizione di spazio, che appare e si cancella poco dopo, senza avere corrispondenza a un ordine architettonico, ma frutto di una intima determinazione di esistenza di un luogo e, con esso, degli uomini che lo vivono e lo rendono tale. Perché «una mappa non è una foto», dirà la donna anziana (Valentina Bischi), anch’essa cartografa, che la protagonista scambierà per quella bambina di allora, ma la ricerca del rimosso impossibile dentro il possibile, di una emozione soppressa come se quel fiume, il tempo, lasciasse che alcuni sassi finissero sotto il greto, inabissati in uno spazio di terra. E la terra non è acqua. Non corre verso il mare.

Simone Nebbia

Auditorium, Castello Pasquini, Castiglioncello – Inequilibrio Festival – Luglio 2019

IL CARTOGRAFO
drammaturgia Juan Mayorga
traduzione Enrico Di Pastena
realizzazione collettiva Valentina Bischi, Giovanni Campolo, Daniela Scarpari, Tazio Torrini
disegno dal vivo Alessio Trillini
musiche originali Elektronauti
costumi Annalisa Galli
foto Vittorio Gargiuolo
produzione Armunia
con il sostegno di Teatro Rossi Aperto (Pisa), Festival Internazionale delle Ombre di Staggia Senese (SI), Ex-Macelli di Certaldo (SI), Armunia Residenze Artistiche Castiglioncello (LI)

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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