All’interno di Scenario Festival si sono svolte le finali dello storico premio dedicato alle realtà teatrali emergenti, under 35. Una riflessione in forma di intervista.
Abbiamo chiesto a Stefano Casi, critico, studioso e codirettore di Teatri di Vita, di riflettere su questa nuova generazione di artisti selezionati dal Premio Scenario a partire da una serie di interrogativi che potessero stimolare una panoramica e un ragionamento critico sugli studi presentati alle finali di Bologna.
Le compagnie e gli artisti presenti nelle finali di questa ultima edizione del Premio Scenario come affrontano il concetto di “nuovo” nei confronti del linguaggio scenico, del rapporto con lo spettatore e del contesto di realtà che accoglie la loro forma teatrale?
Credo che quella del “nuovo” non sia una questione presente in sé e per sé nei giovani artisti. Nel senso che un giovane artista non si interroga (e comprensibilmente) sul “nuovo” per diverse ragioni. Anzitutto perché per questioni anagrafiche non conosce il “non nuovo”, se non magari per averlo studiato un po’, ma in un modo che ha più a che fare con il nozionismo che non con un vissuto verso cui opporsi. E poi perché è tutto “nuovo” ciò che fa, perlomeno dal suo punto di vista: altrimenti, banalmente, non si impegnerebbe certo per cercare di assimilarsi a una tradizione per incarnare una continuità. Il “nuovo” lo cerchiamo o lo vediamo noi da una prospettiva anagrafica ed esperienziale che ci consente di percepire i movimenti, anche se spesso ci porta sciaguratamente a volerli forzare, e cioè a incasellare la fluidità artistica in categorie o ondate, a giudicare i giovani in base a percentuali di “novità” su parametri pregiudiziali, o ad attendere messianicamente il “Nuovo” e conseguentemente a criticare tutti coloro che non sono abbastanza “nuovi”, equivocando platealmente tra “nuovo” e “mai visto” (che è il concetto che sembra davvero ossessionare talvolta gli osservatori professionali). Insomma, il “nuovo” è un concetto complesso che secondo me andrebbe usato con attenzione e sempre con una grande capacità di contestualizzazione. In questo senso i giovani di Scenario credo che rappresentino il “nuovo” anzitutto nella spinta che li porta a individuare temi o narrazioni, a studiare e approfondire sensi e linguaggi, a cercare di comunicare provando a sintonizzarsi sul presente da cui vengono e che li circonda. Il “nuovo” è anzitutto questo. E poi c’è anche la ricerca di modalità innovative, anche se da questo punto di vista sarebbe assurdo pensare di aspettarsi il famigerato “mai visto” da parte di giovani che portano ancora con sé la forte impronta di una determinata formazione o di esperienze precedenti particolarmente ‘illuminanti’ e plasmanti.
Detto questo, possiamo tentare comunque di vedere nei finalisti di Scenario alcuni elementi riconducibili al “nuovo”, anche se probabilmente diverso dalle aspettative, ricordando che nelle precedenti tappe semifinali la varietà “innovativa” era sicuramente più ampia, ma anche evidentemente più debole. Insomma, le esperienze artistiche maggiormente solide sono state quelle capaci di confrontarsi con il linguaggio scenico non in termini di sperimentazione più o meno ‘pura’, ma semmai in termini di funzionalità del discorso. Difficilmente riuscirei a trovare linee formali generazionali, mentre riesco con grande facilità a vedere una comunanza nella necessità di lasciare un segno forte nella società e nella realtà che circonda il lavoro di questi artisti. Il “nuovo” sta forse in questa lucidità, in una caparbietà ‘politica’ che li porta ad affermare la loro voce nella complessità del presente scegliendo il teatro come veicolo principe e strategico di comunicazione. Probabilmente non è un caso se, per la prima volta nella storia recente di Scenario, la categoria ‘pura’ è stata superata numericamente da quella ‘impegnata’ (uso le virgolette per entrambe). Ricordo che per molte edizioni sono stati presentati in parallelo il “Premio Scenario” e il “Premio Scenario per Ustica” su tematiche civili. Quest’anno la categoria ‘civile’ è stata quella del “Premio Scenario Periferie”, che alla finale ha portato per la prima volta più progetti dell’altra. È il segno di una maggiore maturazione di artisti che scelgono la strada dell’impegno, cosa che peraltro non ha affatto impedito anche agli altri di essere portatori di tematiche forti.
Aggiungo un’ultima cosa sul rapporto con lo spettatore che, in un periodo di pieno consolidamento del teatro partecipativo, si ritrova invece qui a un livello completamente diverso, molto ‘tradizionale’ mi verrebbe da dire. Attitudine non necessariamente di retroguardia se si pensa invece che lo spettatore è coinvolto, eccome, a un livello di chiamata intellettuale di conoscenza e responsabilità.
Che rapporto costruiscono con il concetto di realtà e finzione?
Il rapporto realtà-finzione mi sembra uno degli snodi-chiave della generazione esplorata da Scenario. Proprio quella spinta di cui parlavo prima porta necessariamente i giovani artisti a rapportarsi con la realtà in modo meditato, soprattutto lavorando sulla sua compresenza con la finzione, o meglio sulla ricerca di come la finzione possa essere veicolo di realtà. Proprio i quattro della Generazione Scenario mi sembrano esemplari in questa ricerca, e mi limiterò solo a questi con l’avvertenza che anche tutti gli altri sono fortemente implicati nella ricerca su compresenza di realtà e finzione. Una vera tragedia di Riccardo Favaro e Alessandro Bandini (vincitore del Premio Scenario) porta fin dal titolo l’enunciazione di realtà, salvo poi procedere sistematicamente nella sua demolizione. Si tratta di un meccanismo drammaturgico complesso, in un continuo slittamento di conoscenza dei fatti narrati e dell’identità dei personaggi: tutto è dichiarato nella sua verità e al tempo stesso negato. L’impianto rassicurante della famiglia borghese riunita viene solcato da crepe che trasportano la vicenda su un piano da thriller polanskiano, nel quale i personaggi smarriscono le coordinate, e noi con loro; mentre la percezione di una sorta di ineluttabilità divina data dalla proiezione delle battute in diretta si rivela ben presto come la rivelazione (apocalittica direi, sfruttando il nesso etimologico) di una sorta di copione da sit-com. D’altra parte il rapporto tra realtà e finzione entra in pieno anche in Il colloquio del Collettivo lunAzione (vincitore del Premio Scenario Periferie), dove l’apparente semplicità e tradizionalità dell’impianto scenico e drammaturgico nasconde ben altri trabocchetti. Qui tre donne sono in fila per entrare a visitare i rispettivi mariti o congiunti nell’ora di colloquio in un carcere. Ma realtà e finzione sono immediatamente relativizzate nel momento in cui gli interpreti sono maschi (quasi a voler interiorizzare l’assenza maschile nella quotidianità di donne private dell’altro da sé), e soprattutto nel momento in cui ci si rende conto che sono le donne libere le vere recluse, incatenate concettualmente a una dittatura maschile che continua a essere virtualmente esercitata dai carcerati. Ancora con realtà e finzione giocano i due progetti segnalati: Mezzo chilo di Serena Guardone, racconto autobiografico sui disturbi alimentari, condotto su un insistito doppio filo della confessione e della trasfigurazione simbolica, che porta gli spettatori a una soglia di turbata pietas mescolata a leggerezza; e in un certo senso anche Bob Rapsodhy di Carolina Cametti, sorta di poema verbale-fisico apparentemente autobiografico in cui la trasfigurazione costante dei dati di realtà risucchia gli spettatori in una compartecipazione alla confusione epocale ed esistenziale nella quale viviamo.
Quanta coscienza politica c’è nelle scelte tematiche e di linguaggio?
L’aspetto politico mi sembra molto importante in pressoché tutti o quasi i progetti finalisti. Anzitutto le scelte tematiche ci parlano davvero di questa epoca in maniera evidente, più o meno esplicitamente. Penso al discorso sulle politiche securitarie contro i migranti affrontato da Usine Baug Teatro (Calcinacci) e a quello di Ivano Picciallo – I Nuovi Scalzi su come quegli stessi migranti siano sfruttati (Sammarzano), al discorso di Alessandro Gallo – Caracò sulla camorra come humus formativo delle giovani generazioni (L’inganno) e a quello di bolognaprocess sulla fascinazione dei giovani europei nei confronti dell’estrema destra (Anticorpi), al racconto in presa diretta di Emilia Verginelli sulle case famiglia con bambini rom e disagiati (Io non sono nessuno) e a quello trasfigurato in versi da Le Scimmie per raccontare le bande giovanili nelle periferie (Sound sbagliato), fino all’impressionante ritratto di un vuoto generazionale compiuto da Mind The Step che in modo delicato ma deciso racconta al tempo stesso la spirale disumanizzante dei social e la violenza sessuale (Fog).
Queste scelte solo in parte portano i giovani artisti a scegliere linguaggi che le ultime tendenze ci portano a qualificare di per sé ‘politici’, come per esempio l’impostazione documentaria fra testimonianze e spiegazioni (alla Rimini Protokoll) recepita da bolognaprocess, o l’autobiografia altrettanto documentaria con uso di oggetti e video e il ‘caos organizzato’ del plurilinguismo policentrico usato da Emilia Verginelli. Tutti gli altri puntano decisamente sull’uso di linguaggi meno ‘sperimentali’ ma avvertiti probabilmente come più efficaci rispetto all’obiettivo: e anche questa, in fin dei conti, è una scelta politica. Per esempio, il recupero della pantomima o della maschera per raccontare i migranti (rispettivamente in Calcinacci e Sammarzano) crea un contatto forse più diretto, offrendo al tempo stesso un modo differente di percepire un argomento così stereotipato, per non parlare dei versi vagamente rappati che accomunano Sound sbagliato e Bob Rapsodhy nel restituire da una parte una straniante tranche de vie napoletana (in barba al verismo ‘gomorriano’) e dall’altra una visione apocalittica della contemporaneità e dei sentimenti. Così come mi piace ricordare il minimalismo espressivo di Fog che nasconde eventi sconvolgenti che proprio grazie a una elementarità scenica esplodono in modo emozionalmente potente, e all’opposto la raffinatezza scenico-visiva di L’inganno che sostiene un flusso verbale monologante in dialogo dialettico con simboli, visioni, colori e (ancora) maschere.
Quanta importanza ha ancora l’atto narrativo, il racconto di una storia?
Direi centrale, molto più centrale di un tempo. Non sono ancora sicuro che sia una reale tendenza, visto che parliamo comunque da una prospettiva estremamente limitata, ma si tratta pur sempre di una prospettiva autorevole: una finale con 12 progetti di giovani artisti arrivati dopo dura selezione grazie alla maturità e alla forza delle loro proposte. Ecco, se devo basarmi su questo (ma anche con la memoria delle due tappe semifinali di Napoli e Genova che ho seguito), devo riconoscere che il peso del ‘drammatico’ nell’era del ‘postdrammatico’ è forte più che mai, e forse – come dicevo prima – è inutile ragionare troppo per categorie. Sta di fatto che, sia pure con l’inevitabile sensibilità teatrale di questa epoca e con le necessarie differenze sceniche e drammaturgiche, 8 progetti su 12 raccontano una storia. E gli altri raccontano processi nei quali emergono storie, e che anzi fanno della narrazione delle varie storie il loro cardine di senso. Se si pensa ad alcuni nomi importanti della scena italiana usciti dal Premio Scenario in passato e invitati con i loro spettacoli a Bologna allo Scenario Festival, che è stata la cornice della finale di questa edizione, si capisce meglio cosa intendo: Made in Italy di Babilonia Teatri, Rivelazione di Anagoor, Drammatica Elementare dei Fratelli Dalla Via e perfino il più recente Un eschimese in Amazzonia di Liv Ferracchiati mi sembra rispondano a intenti e percorsi diversi, quelli – diciamo così – di una enunciazione di affermazioni rivolte alla riflessione degli spettatori, attraverso micro-scene intese come altrettanti tasselli di un mosaico pop della nostra epoca o attraverso una sorta di lectio concettuale. La finale di quest’anno ci ha mostrato invece tutt’altro: il bisogno di raccontarsi in prima persona attraverso un’autobiografia vera (Guardone, Gallo, Verginelli e in parte bolognaprocess) o apparente (Cametti o Margherita Laterza che in Forte movimento d’animo con turbamento dei sensi ripercorre il classico rapporto tra uomo e donna), e il bisogno di costruire trame o giocare con esse (Mind The Step, Picciallo, Favaro/Bandini, Le Scimmie, lunAzione) portano nuovamente il discorso sullo sviluppo narrativo come dispositivo strategico per l’efficacia del discorso teatrale. Con una battuta direi che Scenario quest’anno ha evidenziato proprio l’aspetto ineludibile dello “scenario” cinquecentesco inteso come traccia narrativa che sostiene lo spettacolo e ne rende significativa ogni possibile sovrastruttura.
Stefano Casi
A cura della Redazione
Qui una riflessione sul Premio Scenario 2013
SEGUE IL COMUNICATO STAMPA CON I NOMI DEI VINCITORI E LE MOTIVAZIONI
SCENARIO FESTIVAL 2019
2a edizione
BOLOGNA, MANIFATTURA DELLE ARTI, 1-6 LUGLIO
Generazione Scenario 2019
i vincitori e i segnalati del
Premio Scenario e del Premio Scenario Periferie
Premio Scenario 2019 a “Una Vera Tragedia” di Favaro/Bandini
Premio Scenario Periferie a “Il colloquio” di collettivo lunAzione
Segnalazioni Speciali a
“Bob Rapsodhy” di Carolina Cametti
“Mezzo chilo” di Serena Guardone
BOLOGNA – Nell’ambito della seconda edizione di Scenario Festival, venerdì 6 luglio al DAMSLab di Bologna, la Giuria del Premio Scenario, presieduta da Marta Cuscunà (teatrante e femminista, vincitrice del Premio Scenario per Ustica 2009) e composta da Gianluca Balestra (presidente di Elsinor e direttore del Teatro Cantiere Florida di Firenze), Stefano Cipiciani (vicepresidente dell’Associazione Scenario, presidente di Fontemaggiore), Elena Di Gioia (direttrice artistica Agorà), Cristina Valenti (presidente e direttore artistico dell’Associazione Scenario, docente di Storia del Nuovo Teatro e Teatro sociale, Università di Bologna), ha decretato i vincitori e i segnalati della Generazione Scenario 2019.
Vincitore del Premio Scenario 2019 è “Una Vera Tragedia” di Favaro/Bandini (Milano) con la seguente motivazione: «Una Vera Tragedia è un’originale sperimentazione del dispositivo drammaturgico in cui il testo incombe sulla scena in forma di proiezione e procede con sorprendente autonomia scardinando il rapporto fra testo e azione drammatica. L’identità biografica e psicologica dei personaggi è continuamente resettata e messa in crisi in un interno borghese che richiama l’immaginario lynchiano e le atmosfere sospese e inquietanti dei dipinti di Hopper. In un momento in cui cinema e serie televisive propongono modalità narrative sempre più efficaci, Una Vera Tragedia è un thriller torbido e feroce che apre un discorso critico sulla prosa teatrale, ne scardina con radicalità i meccanismi rilanciando il teatro oltre i suoi codici».
Vincitore del Premio Scenario Periferie è “Il colloquio” di collettivo lunAzione (Napoli) con la seguente motivazione: «Nella liminalità di un’attesa che è condivisione di un tempo sospeso, tre donne si contendono un territorio ristretto, dove i legami spezzati dal carcere si riflettono inesorabilmente in una reclusione altra, introiettata eppure reale. Fra legami negati e solidarietà imposta, Il colloquio è la fotografia spiazzata e spiazzante di un’antropologia indagata nelle sue ragioni sociali e culturali profonde e apparentemente immodificabili, dove il femminile è restituzione di un maschile assente e quindi fatto proprio, con efficace scelta registica, da tre attori capaci di aggiungere poesia all’inesorabilità di storie già scritte e aprire spiragli onirici imprevisti».
Due le Segnalazioni Speciali.
Al progetto “Bob Rapsodhy” di Carolina Cametti (Milano) con la seguente motivazione: «Un linguaggio che irrompe, come pioggia intrisa di poesia. In scena un corpo moltiplica le vite, i flussi, i desideri, taglienti e affilati, di un noi che spalanca un urlo, poetico e politico sulle ferite del nostro oggi. Con una originale e innovativa partitura drammaturgica e interpretativa, Carolina Cametti dimostra una intensa capacità di raccontare il presente, di far incontrare e scontrare paesaggi, di farsi carico di molte voci inanellandole nel gancio affilato della rima, del ritmo, del respiro che accelera, contrae, ferma, rincorre una inquieta rapsodia del dolore, una corsa accelerata in un possibile canto del mondo oggi. Bob Rapsodhy manifesta la cifra personale di una artista che ci sorprende come autrice e come interprete».
Al progetto “Mezzo chilo” di Serena Guardone (Capezzano Pianore, Lu) con la seguente motivazione: «Mezzo chilo racconta e interpreta il privato con coraggio e verità. Un diario che si fa narrazione civile nella capacità di infrangere con ironia il tabù della vergogna celata nella patologia. Riuscendo a costruire un affresco di momenti scenici, veicolati da una fragilità emotiva che si fa partitura fisica, Serena Guardone ci offre un teatro che esplora con consapevolezza e rigore il tema del disturbo alimentare».
La Giuria ha assegnato due premi di 8.000 euro ai vincitori rispettivamente del Premio Scenario e del Premio Scenario Periferie, come sostegno produttivo ai fini del completamento degli spettacoli. Un riconoscimento di 1.000 euro è stato invece conferito alle due compagnie segnalate.
Scenario Festival è un progetto dell’Associazione Scenario, direzione artistica di Cristina Valenti, realizzato con DAMSLab – Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna, nell’ambito di Bologna Estate 2019, il cartellone di attività promosso e coordinato dal Comune di Bologna e dalla Città metropolitana di Bologna – Destinazione Turistica, con il contributo di Mibac, Regione Emilia-Romagna, Comune di Bologna e Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna (che sostiene in particolare il Premio Scenario Periferie), in collaborazione con Cassero LGBTI Center, Cronopios, Il Cameo, Mercato Ritrovato.
ridicoli,
spettacoli inutili e già visti decine di volte.