Al Festival Colline Torinesi ha debuttato un nuovo monologo di Michele Sinisi, visto nel teatrino anatomico del Museo Lombroso di Torino. Recensione
Edipo è un enigma. Il teatro greco per noi è un enigma. Qualcosa è accaduto più di 2500 anni fa, qualcosa che in gran parte rimane misterioso: una città, un rito e delle storie da raccontare a un pubblico che si raccoglieva sul declivio di una collina. Dove finisce il rito e comincia il teatro? Quando la religiosità dell’evento lascia spazio all’intrattenimento? Non è un caso che gli studi su questo capitolo della storia del teatro, quella che per alcuni è la culla del teatro occidentale, siano costellati di verbi al condizionale, di periodi ipotetici. Theatron per i greci era il luogo della visione, dello sguardo, spazio in cui essere osservati, lo ribadiscono Michele Sinisi e Francesco M. Asselta nella drammaturgia di questa creazione in cui l’attore e regista pugliese si spende in una riflessione concettuale e performativa, a ritroso, sull’Edipo di Sofocle.
Edipo. Il corpo tragico, questo il titolo del nuovo capitolo di Sinisi dedicato agli assoli drammatici, prodotto da Elsinor e Festival delle Colline Torinesi/TPE. Aveva cominciato con Amleto, proseguito con un violentissimo Riccardo III in lingua originale per arrivare fino alla radice del tragico, quel personaggio scritto nei primi decenni del V secolo a.C., che per noi è anche matrice culturale. Edipo, figlio di Laio, è simbolo di conoscenza, di uno svelamento in negativo, oggi diremmo portatore di una distopia interiore dato che nel giro di una giornata il percorso di consapevolezza che intraprende racchiude il senso stesso del tragico: da Re di Tebe diventa assassino di suo padre, scopre di essersi unito carnalmente alla madre e si esilia accecandosi.
Ma prima del disvelamento, prima degli indovini e degli oracoli c’è un’infezione: Tebe è sopraffatta dalla peste, Sinisi la chiama la contaminazione. Edipo ne è la sorgente, il cosiddetto paziente zero, quello che tiene in sé anche la possibile guarigione. Ma qui la contaminazione parte dal corpo, dal corpo tragico appunto. Quello del performer, al quale il suo assistente/servo di scena (lo scenografo Federico Biancalani) appone un gambaletto di metallo, di quelli che si usano per la gestione dei gravi traumi dopo gli incidenti (Edipo ebbe uno scontro, nel quale uccise Laio…), a questa gamba ferita viene collegata una pompa da cui fuoriescono copiosi fiotti di una melassa prima giallognola, poi più scura e infine tendente al verde. È il corpo di Edipo a essere infetto, la contaminazione va espulsa.
Si comincia dalla fine, dalla cecità. In questa sequenza a ritroso, quando entriamo nel teatrino anatomico del museo Lombroso di Torino, Sinisi è di spalle, rivolto verso un telo di nylon che pende dal soffitto e scende fino a coprire il pavimento; una voce registrata ossessiona l’ascolto: Mind the Gap, Mind the Gap, Mind the Gap… il momento in cui si gira verso il pubblico è uno dei pochi momenti in cui l’artista spettacolarizza la propria presenza drammaturgica, cerca l’effetto disturbante e grandguignolesco: una maschera grigia, qualche spruzzo di capelli bianchi, un naso adunco e un pallore cadaverico. È un Edipo post mortem, gli occhi tumefatti e incrostati di sangue sono penetrati da due spuntoni di legno, che Sinisi rimuove lentamente mentre su un display appare il titolo di questo primo episodio: “cecità”.
Anche la maschera verrà asportata, proprio nel momento in cui la voce registrata spiegherà la funzione dell’oggetto nel teatro antico. L’auore/performer gioca a carte scoperte, un confine tremendamente sottile divide l’ironia dal kitsch, lo splatter fine a sé stesso dalla citazione colta. «Guardatemi, vi faccio schifo mentre spruzzo pus da una gamba o mentre di schiena mi masturbo? Vi imbarazza la mia nudità?» sembra dire Sinisi. «Eppure è tutto finto e i meccanismi di questo gioco ve li sto mostrando sin dall’inizio».
L’ultimo atto di quello che vorrebbe essere un rito laico – dunque una contraddizione in termini, in un’epoca ormai secolarizzata – ha a che fare proprio con il capro, l’animale sacro simbolo della nascita della tragedia (dall’etimologia trago(i)díao, canto del capro). Allora è ancora il corpo a dover accogliere il rito utilizzando quella melassa collosa, che era il pus infetto – evidenziando ancora una volta l’artificio – per tentare maldestramente di far aderire ciuffi marroni di pelo alla pelle glabra. Qui, mentre una musica pop ancor di più fa in modo che il mito precipiti nel kitsch, Sinisi ripete in loop stralci di uno dei monologhi di Edipo: il Re è di fronte al proprio popolo e chiede di fare luce sulla morte di Laio, è qui che inizia il sacrificio, inconsapevolmente.
Edipo d’altronde è il capro espiatorio di tutti i mali: è un Cristo prima del cristianesimo, colui che per bonificare la città/umanità dalla contaminazione ha dovuto sacrificarsi. Il paziente zero che distrugge il paziente zero, colui che toglie i peccati dal mondo.
Andrea Pocosgnich
Palazzo degli Istituti Anatomici, Torino – giugno 2019
EDIPO. IL CORPO TRAGICO
di Sofocle
regia Michele Sinisi
con Michele Sinisi, Federico Biancalani
collaborazione alla drammaturgia Francesco M. Asselta
scene Federico Biancalani
prodotto da Elsinor – Festival delle Colline Torinesi / TPE
sostegno alla produzione MAT, laboratorio urbano, Terlizzi (BA)
progetto FARSA