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Tom Walker, The Living Theatre oggi

All’interno del progetto Overlap sull’isola dell’Asinara abbiamo incontrato Tomas Walker, con lui abbiamo parlato di come continui a vivere oggi l’esperienza di Julian Beck e Judith Medina

www.livingtheatre.org

Tomas Walker è parte del Living Theatre dal 1970. Lavora con il suo fondatore Julian Beck per quindici anni fino alla sua scomparsa nel 1985; da quel momento collabora con Judith Malina nelle produzioni del Living fino alla sua scomparsa. Incontro Walker sull’isola dell’Asinara, è partecipante e conduttore di uno dei laboratori del progetto Overlap. Ciò che colpisce è la spinta che a più di ottant’anni muove il corpo di Walker, questa energia è palpabile nell’overtrekking al quale partecipa da performer insieme al team multidisciplinare e a cinque ventenni dell’Africa subsahariana. Gli accordi del Living Theatre e la dimensione politica del corpo continuano a animare le parole e il corpo di chi ha vissuto più di mezzo secolo di trasformazioni del teatro.

Dalla scomparsa di Judith nel 2015 chi e come sta portando avanti il lavoro del Living Theatre?

Strike Support Oratorium, The Living Theatre, 1976, Italy

Abbiamo un gruppo composto da me, come veterano, e una quindicina di persone con le quali  ci raduniamo periodicamente; tutti hanno lavorato con Judith negli ultimi anni, tra questi ci sono Dennis Yueh-Yeh, Philip Santos Schaffer, Leah Bachar, Soraya Broukhim e Brad Burgess che è stato l’aiutante di Judith negli ultimi anni della sua vita. Burgess è stato il direttore artistico per un periodo dopo la morte di Judith, ora stiamo sperimentando una co-direzione con più direttori artistici con tutti i punti di forza e i problemi che questa soluzione comporta. Garrick Beck, il figlio di Judith Malina e Julian Beck, è il presidente; lui non è coinvolto molto nella direzione artistica ma si occupa dell’amministrazione finanziaria. È stato lui a trovare questa grande fondazione, la Lurie Foudation, che ci sostiene ora per tre anni. Io personalmente, e tutti gli altri, per lavorare e vivere facciamo parte anche di altri progetti individuali e di altri gruppi. Io ho lavorato con tre o quattro altre realtà a New York, mi chiamano per interpretare ruoli di anziani e cantanti.

Il lavoro artistico è più incentrato sulla nuova creazione o sulla circuitazione di spettacoli storici del Living?

Electric awakening, foto Taba Benedicto

Abbiamo fatto una tournée revival di Seven Meditations on Political Sadomasochism, uno degli spettacoli di stampo politico degli anni ’70. Poi c’è stata una grossa nuova creazione collettiva, Electric Awakening, fatto con un seminario di venticinque ragazzi in Brasile nel 2017. Poi sempre nel 2017, con una collaborazione con il Grusomhetens Teatr di Oslo,  abbiamo messo in scena Venus and Mars, uno spettacolo basato sugli ultimi appunti di Judith. Recentemente in marzo abbiamo dato vita a una nuova versione di Electric Awakening a Città del  Messico, ma il progetto messicano è stato completamente autofinanziato da noi. Poi, recentemente, c’è stato questo invito al Festival TAC di Valladolid per ricevere un premio due settimane fa e con Leah Bachar abbiamo tenuto lì due masterclass; poi un seminario a Sassari e questo progetto a l’Asinara.

L’esperienza del Living è stata caratterizzata da un nomadismo artistico che state continuando a praticare; cosa significa ancora per te oggi questo teatro politico di strada?

Fare un teatro che tocchi la gente, la classe media, i poveri, le persone che non vengono e non verrebbero a vedere il teatro borghese. Per portare avanti un teatro anarchico pacifista progressista è necessario uscire dai teatri stabiliti. Una volta a Julian Beck è stato chiesto: “Lei parla sempre di questa beautiful non-violent anarchyst revolution; capiamo l’anarchia, la non violenza e la rivoluzione, ma bella? Perché?”. E Julian ha risposto: “Se non è bella non mi interessa”. Si deve andare a portare questa bellezza dove stanno le persone, e questo è stato il pensiero di Judith e Juliane nel 1970 quando abbiamo fatto il lavoro in Brasile e ancora oggi è il nostro pensiero, perché così i nostri messaggi incontrano la gente.

Spettatore partecipante, rottura della quarta parete sono concetti che ormai fanno parte della scena teatrale contemporanea. Oggi, qual è la rivoluzione che il teatro deve riuscire a fare?

Korach_The Living Theatre, 2015

Oggi abbiamo molti teatri che fanno belle cose per la borghesia bianca, abbiamo anche i nostri grandi attori neri in America che sono cruciali nella scena artistica statunitense, ma è molto importante continuare a fare un teatro per tutti. Non dobbiamo suicidarci con la prova di rompere sempre una quarta parete ma possiamo continuare a fare un lavoro progressista di teatro di strada. Per esempio, abbiamo fatto questo seminario – sperimentato già centinaia di volte –  Un giorno nella vita di una città a Sassari; abbiamo mostrato tre scene create dai seminaristi mescolate con vecchi rituali del Living che sono molto utili, il linguaggio dell’accordo armonico, del suono e movimento o del tableaux vivant, tutto il nostro linguaggio degli anni Sessanta. E ancora una volta abbiamo creato uno spazio; mi piace molto il termine “zona temporaneamente autonoma” coniato da Peter Lamborn Wilson nel saggio T.A.Z.: The Temporary Autonomous Zone, Ontological Anarchy, Poetic Terrorism. Ecco, il teatro oggi deve creare continuamente questo, zone temporaneamente autonome, è un’operazione molto utile per la società.

Qual è un’esperienza da spettatore che ti ha colpito?

Un’importante esperienza da spettatore è stata, oltre ovviamente alla prima volta che ho visto il Living, la visione di Tight right white (performed by Dar A Luz in New York City) del regista iraniano Reza Abdoh, che purtroppo è morto di AIDS nel ’95, che ha portato un lavoro molto lacerante, molto creativo. C’è tutta una corrente di attori newyorkesi e internazionali che sono stati influenzati dal lavoro di Reza, un giovane iraniano di grande passione e rabbia. Poi questa orribile piaga dell’AIDS lo ha portato via; io ho perso venticinque, forse trenta amici per l’AIDS, è stata una distruzione, specialmente nel mondo artistico.
In Italia, avendo collaborato con i Motus per l’ultimo spettacolo di Judith Malina, ho visto MDLSX con Silvia Calderoni, incredibile. E sono molto affascinato anche dal lavoro del Teatro delle Albe, di Marco Martinelli e Ermanna Montanari.

Qual è il tuo rapporto con l’Italia?

foto Gaia Squarci, da facebook Thomas S. Walker

Non ho mai pensato che sarei stato così tanto legato all’Italia. Ho cominciato gradualmente con il desiderio di Judith e di Julian di lavorare in Italia e poi dopo un po’ ho sentito di essere a casa in Italia; ho vissuto sei anni a Roma e ho continuato sempre questi seminari, questi legami, queste residenze e ormai sono abituato ad essere qui spesso. È facile perché posso parlare la lingua, posso insegnare in lingua, una lingua un po’ macerata ma che va bene.
Agli italiani è piaciuto il Living, magari perché erano americani non verbali, il “teatro delle grida” come lo ha chiamato Pasolini. Julian amava l’Italia da morire, non amava molto New York e la cultura americana imperialista. Eravamo molto vicini a un mondo in cui si può parlare di anarchia, di comunismo, di fascismo senza essere considerati pazzi. Negli Stati Uniti c’è una grande limitazione sul vocabolario. Purtroppo ora in Italia con Salvini la situazione è davvero strana, la storia sembra sia ciclica.

Cosa sarà del Living Theatre nel prossimo futuro?

Nell’ultimo periodo della sua vita Judith Malina ha venduto tutto l’archivio del Living Theatre alla fondazione Giuseppe Morra, all’Università di Yale, tutti i quadri di Julian Beck sono stati venduti a Morra; Judith avrebbe potuto vivere la sua pensione e invece ha speso tutto per realizzare l’ultimo periodo della sua lunga vita creativa. Ci saranno sempre quindi componenti del Living che faranno seminari per portare avanti la tradizione del Living Theatre e parallelamente ci sarà il lavoro di archivio. A trent’anni dalla sua morte non c’è ancora una biografia di Julian Beck ma arriverà. Sarà pubblicato un libro nel prossimo anno, un’edizione di una selezione di tutti i diari di Judith; a Napoli ci sarà la pubblicazione dei diari di Julian Beck. Finché io e altri veterani siamo vivi, continuerà questa tradizione, perché è nel nostro sangue e nel nostro cuore.

Luca Lòtano

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Luca Lòtano
Luca Lòtano
Luca Lòtano è giornalista pubblicista e laureato in giurisprudenza con tesi sul giornalismo e sul diritto d’autore nel digitale. Si avvicina al teatro come attore e autore, concedendosi poi la costruzione di uno sguardo critico sulla scena contemporanea. Insegnante di italiano per stranieri (Università per Stranieri di Siena e di Perugia), lavora come docente di italiano L2 in centri di accoglienza per richiedenti asilo politico, all'interno dei quali sviluppa il progetto di sguardo critico e cittadinanza Spettatori Migranti/Attori Sociali; è impegnato in progetti di formazione e creazione scenica per migranti. Dal 2015 fa parte del progetto Radio Ghetto e sempre dal 2015 è redattore presso la testata online Teatro e Critica.

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