“Gioia Salvatori nasce a Roma, dove manifesta i primi fastidi”, dice la biografia dell’autrice e attrice di Cuoro, non proprio un “cuore” delle cose, ma “un tentativo di”. Intervista.
Seduta di fronte, inizia a fumare, lascia una traccia di rossetto sul filtro della sigaretta, mi guarda: «Prendi pure le mie, io ho già cenato» (punta il pacchetto di sigarette e poi il menù con la stessa connessione logica usata per l’invito che mi ha appena rivolto) e io penso a come l’impiego dell’aggettivo “stralunato” derivi proprio da occhi pieni e tondi così come i suoi che fissano il registratore.
Gioia Salvatori è nata a Roma, è un’attrice autrice dei testi che mette in scena ed è proprio a partire dalla scrittura che è nato il suo lavoro: ha scritto il suo primo spettacolo attraverso il blog Cuoro, un contenitore di resoconti, spazi, indignazioni, istruzioni e psicopatologie della vita quotidiana. Ma rispetto alle puntualizzazioni sulle diverse tipologie di presenza del genere umano più vario e all’uso più o meno esplicito delle sue competenze attoriali, all’interno dei monologhi arriva prima l’elemento linguistico: una stralunata combinazione di arcaismi e sintassi deformante, infarcita di elementi classicistici adattati su misura per un solo e unico tempo, quello scritto sui social. Le stesse piattaforme da cui andiamo ad attingere per scrivere enciclopediche critiche al contemporaneo e in cui il riferimento a un linguaggio aulico e fitto di aggettivazioni come il suo stride (fino a far ridere) ancor più che nel parlato. Gioia predilige tutti quegli scrittori «che fanno suonare le parole», è divertita dalla possibilità ficcante di esternare l’energia verbale che hanno i personaggi antagonisti di alcune fiabe: storti, vacillanti e captivi perché «prigionieri» di una condizione ristretta, una rabbia fantastica, che tutti sentiamo la necessità di annientare quando questi con una certa vigoria minacciano la distruzione dello stato di quotidiana assuefazione dei protagonisti buoni determinando il caos.
Cuoro è quindi anche la destrutturazione della fiaba, un caleidoscopio dove a parlare è sempre una verità che mantiene la maschera in un corpo che si sacrifica in favore della comunità ed è saltimbanco per se stesso, fragile di quelle imperfezioni che pertengono a tutti.
«La scrittura comica è un modo di poter parlare nel mondo come una che ci sta dentro e combatte fino al punto in cui c’è la risata – dice – dopodiché il mio compito è finito, dopodiché vivo. Perché il teatro non è quello che vivo». Così, mentre prende le distanze dal meccanismo dalla praticamente neonata, in Italia, stand up comedy per mettere al centro della sua produzione il corpo-comico fino a trasformarlo in una zona sacrificale, impiega l’antico castigat ridendo mores servendosi proprio dei costumi e degli artifici che ha ereditato dallo studio della Commedia dell’Arte, quelli impiantati nello spettacolo a uso e costruzione di un mondo altro rispetto alla vita, che però la vita la legge. Una forma poetica condivisa anche con i colleghi di Sgombro, il varietà tragicomico del Nuovo Cinema Palazzo nel quartiere di San Lorenzo a Roma, che hanno preso a ragionare sulla ricerca dei meccanismi di comicità ancora possibili nel teatro, lungi dalle derive cabarettistiche oltre la quarta parete.
«Il comico mostra la morte, la maschera, però la mostra. Arriva la morte, siamo umani! Essere umani vuol dire che non abbiamo controllo su niente e domattina moriamo e siccome il grande rimorso della società è la morte di se stessa, il comico ti ricorda che muori, che cadi, che ti fai male, che lui ti lascia, che tu sei sola, che non c’è rimedio, ti ricorda che sei fallibile, ed è importante perché ti dà la possibilità di una precondizione che predispone alla risata: la de-lusione, l’essere fuori dall’illusione. In questo senso è necessario il “corpo-comico”, perché il corpo è la prima cosa che si deteriora, ma se è travestito, no».
Allora, individuata la chiave di volta di una comicità che vuole stare, camminare e autorappresentarsi nelle umane storie e nel modo in cui vengono comunicate, avviene che ci riconosciamo nelle esigenze sociali che i personaggi di Gioia Salvatori denunciano. Ricordiamo di essere tutti un po’ demofobici, intolleranti verso l’ultima trovata che si è fatta immediatamente costume e in un baleno diventiamo cavie sue e di quel Bergson a cui piaceva dire che ridere prevede qualcosa come un’anestesia momentanea del cuore; facciamo un passo indietro dalla dimensione empatica verso gli altri e verso noi stessi e finiamo per darle ragione, ridendo per la disperazione.
L’ultima volta che hai riso per la disperazione, hai controllato di aver perso tutte le speranze?
Certamente. La speranza è una cosa che va bene se sei biondo, ti piace guardare il mare e vuoi molto sospirare; io sono nervosa, mi trovo meglio a disperarmi, è più teatrale. Al di là di queste battute, non sono una che spera, né sono una ottimista. No, non me la sento di sperare. Preferisco imbufalirmi, i tramezzini, farmi prendere dal panico. Lo trovo più corretto. Groucho Marx ha detto che l’unica vera risata proviene dalla disperazione. Chi è il più disperato tra te che sai come far ridere e noi che ridiamo? È una domanda non semplice. Vero è che chi scrive cose comiche è perché in sé ha coltivato un giardinetto di rassegnazione al nonsense, forse anche di accettazione del nonsense e, in questa lucidità del sapere che tutto è immerso nell’imperscrutabile, ogni tanto ci si dispera, non tornano i conti, si fatica a comunicare, si è soli. D’altra parte se quello che scrivo provoca la risata in chi ascolta, allora vuol dire che questa sensazione di disperato spaesamento è comune a più persone, che la riconoscono nelle cose che dico. Il fatto di riderne insieme mi pare una bella rivincita del caos sull’ordine. Non v’è certezza, ma una risata ce la potremo almeno fare!? Io direi proprio di sì.
Cuoro è un monologo critico e autocritico, un capitolo della letteratura teatrale, una paranoia epidemica o nessuna delle tre?
Ti vorrei dire che è una paranoia epidemica! In realtà è un contenitore, anzi un esperimento di contenitore con più linguaggi: da quello teatrale ai video, al blog, alla scrittura sui social all’interno del quale mi posso sbizzarrire, è il tentativo di guardare le cose da una prospettiva volutamente storta o distorta, storpiata, esattamente come il nome che porta: non è proprio un “cuore” delle cose, è “un tentativo di”. Nel mezzo ci passa tutto quello che osservo che mi riguarda, che mi sembra che riguardi gli altri: le cose mi fanno molto ridere, le persone pure.
Le cinque cose su cui si dovrebbe discutere di più che caratterizzano questa certa classe media giovanile che noi rappresentiamo e che tu rappresenti a teatro.
La solitudine, la difficoltà a essere sparpagliati su più piattaforme essendo che noi proveniamo dall’era pre-digitale, questo dover essere presenti, sempre, ovunque e performanti, l’impossibilità di sparire, l’abuso del sarcasmo, il grande tema dei soldi e della collocazione nel mondo del lavoro in termini di ricambio generazionale, l’accesso alle risorse, come la nostra generazione stia provando a segnare un certo passo evolutivo nella comunicazione fra i sessi e più in generale fra gli esseri umani, l’abuso dei calzini fantasmino: un oggetto di nessuna bellezza.
E la psicanalisi? Magari la psicanalisi serve.
La psicanalisi serve, non c’è niente di peggio della propria psiche per stare al mondo, almeno indagarla può contenere i danni. Poi la psicanalisi, nonostante il fatto che sia un percorso con delle asperità, è un processo che si fa accompagnati da qualcun altro, certamente sotto compenso (e d’altra parte io non andrei mai a guardare nella profondità di qualcuno non pagata: è pieno di rogne il dentro degli umani), almeno non ci guardi da sola, c’è qualcuno che porta la lampada e che a volte illumina dei pezzi. Poi non lo so, io sono a favore di tutto: la psicanalisi, i riti magici, la dieta del limone, raccomandarsi ai santi. Basta che funzioni.
Che tipologia di personaggio è un attore che diventa un comico?
Non saprei, penso che si tratti di nature e che le persone abbiano delle tendenze istintive verso la dimensione drammatica o quella comica. Parlando per la mia esperienza, io sono primariamente un’autrice, quindi come attrice risento di questo elemento autoriale che inevitabilmente finisce anche nelle interpretazioni e che di solito ha uno sbilanciamento nel comico. Sempre come reazione alla disperazione di cui sopra. Credo. Ma sono pronta anche a sostenere il contrario e il contrario del contrario e così via.
Francesca Pierri
CUORO
di e con Gioia Salvatori
costumi Francesca di Giuliano
progetto fotografico Manuela Giusto
PROSSIME DATE:
Kilowatt Festival – Lunedì 22 luglio, Palazzo delle Laudi, h. 18:00 – Sansepolcro
Nessuno Resti Fuori – Venerdì 26 luglio, largo Giacomo Leopardi h. 21:00 – Matera
Estate Romana – Mercoledì 7 agosto, Giardini della Filarmonica Romana, h 21:30