Al Piccolo Teatro di Milano è in scena fino al 12 maggio Il costruttore Solness di Henrik Ibsen, diretto da Alessandro Serra, con Umberto Orsini e Lucia Lavia. Recensione.
In una annotazione di Carlo Michelstaedter si legge: «[…] nella letteratura internazionale contemporanea, mentre l’arte scende ovunque alla ricerca del dettaglio – da Oscar Wilde a Gabriele D’Annunzio – Ibsen e Tolstoj emergono dalla folla perché non si accontentano di esprimere le sensazioni superficiali della loro anima, ma ne scrutano la profondità per cavarne la nota più alta. Entrambi presero pel petto questa società soffocata dalle menzogne e le gridarono in faccia: verità! verità!».
Questa attenzione dolorosa e inesorabile alla «nota più alta» è un tratto che si ritrova nell’adattamento de Il costruttore Solness di Henrik Ibsen firmato da Alessandro Serra, con Umberto Orsini e Lucia Lavia nei ruoli di Solness, grande costruttore eroso dagli incubi, e della giovane Hilde, che appare nella sua vita per accompagnarlo al cospetto di un giudizio finale che diventa, nel tempo, sempre più simile a un’autocondanna.
La vicenda del protagonista – ossessionato dall’avvento dei giovani e dalla cognizione spaventosa della propria ambizione – è costruita su perturbanti ambivalenze e sembra, pur nella scansione progressiva dell’intreccio, eludere la possibilità di ravvisare un centro preciso dell’intensità, rinviando a un complesso impianto simbolico. La natura difforme e sfuggente del personaggio di Solness, che suggerisce il senso di una mostruosità latente, ha suggestionato persino Judith Malina e Julian Beck che lo hanno introdotto nello spettacolo Frankenstein (1965), sublimandolo nel ruolo del creatore del mostro, colui che persegue con efferatezza la ricerca dell’impossibile.
Umberto Orsini declina la propria levatura attoriale nel rispetto assoluto dell’impostazione registica, dando vita a un Solness in equilibrio tra contrattura e solenne gravità. La sua interpretazione costituisce davvero una prova di maestria nel tratteggio delle sfumature, dei frammenti di variazione emozionale, all’interno di un costante tono medio, denso di rigore.
In un’intervista apparsa alla vigilia del debutto al Teatro Comunale di Narni nel febbraio 2019, Orsini ha dichiarato di portare sulla scena una profonda qualità autobiografica e una lunga meditazione sul personaggio, così vicino alla propria sensibilità esistenziale. Di questa appartenenza si avverte il riverbero: il suo Solness possiede la presenza scenica potente e naturale di chi si muove in un sistema di forze che gli è proprio ma abitandolo, al contempo, con il sacrificio che proviene dalla trattazione di una materia prossima.
Inoltre la necessità di relazionarsi con un disegno registico che fa dell’immagine, prima che della parola, il proprio fondamento genera una speciale tensione di ricerca che, senza essere avvertibile nei suoi aspetti di tecnica e di metodo, consegna però al pubblico una misura di intenso scandaglio, e quasi di agonismo conoscitivo.
La Hilde di Ibsen possiede un marcato tratto di levità che nell’adattamento di Serra è tradotto da una sottigliezza più adulta e austera, la caratura di un dominante pensiero tragico che Lucia Lavia fa proprio con naturalezza e vitalità, restituendo così al personaggio la sua giovinezza, entrando spesso in scena introdotta da un rintocco che ne enfatizza l’incedere, librato ma fatale.
Gli «studi» e i «salottini ammobiliati» dell’originale lasciano qui il posto a una scenografia imponente e lineare, segnata dalla verticalità di pannelli scuri, movimentata da alcuni elementi di organizzazione pittorica dello spazio e di gioco illuminotecnico che definiscono la riconoscibilità della cifra di Alessandro Serra (recentemente apprezzata in Macbettu e Frame). La scena, pur nella monumentalità essenziale delle strutture, appare costantemente animata da un brulichio equivoco, un’atmosfera che opera nelle penombre e nei controtempi, suggerendo – accanto alla leggibilità degli eventi, che avanzano con chiarezza nelle interpretazioni piuttosto classiche degli attori – la presenza del sommerso.
È infatti attraverso il suono e la luce, elementi immateriali per eccellenza, che sembra definirsi, pur nel mantenimento di una qualità di baluginio, il paesaggio interiore del protagonista, conservando quella tonalità onirica e surreale già presente nell’originale.
L’impianto prettamente scenografico, nella sua imponenza, si presenta invece come un habitat sovrastante nel quale i personaggi sono calati, un linguaggio di retroscena che sembra non dialogare mai davvero con l’azione (neppure quando i dispositivi sono manovrati a vista) ma che ne “duplica” e ne esalta le simbologie.
Esiste inoltre, nella pièce, un grado di dispersione dell’intensità che, quasi ironicamente, si accorda alla fissità che soggiace alla definizione stessa di “monumento”. Il racconto di una vita consacrata al progetto di costruire – all’ambizione di segnare il mondo edificando qualcosa che tenda all’eternità – è sviluppato attraverso un continuo, pur se privo di giudizio, rimando di linguaggio alla qualità ambigua, quasi di latenza, di un tempo presente che, proiettandosi nel futuro, fatalmente si smarrisce.
Ilaria Rossini
Teatro Comunale di Narni – febbraio 2019.
Lo spettacolo è in scena al Piccolo Teatro di Milano – Teatro Grassi fino al 12 maggio 2019.
IL COSTRUTTORE SOLNESS
di Henrik Ibsen
regia Alessandro Serra
con Umberto Orsini, Lucia Lavia e Renata Palminello, Pietro Micci, Chiara Degani, Salvatore Drago
e con Flavio Bonacci
produzione Compagnia Orsini e Teatro Stabile dell’Umbria