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HomeArticoliTeatrosofia #92. Teatralizzare la storia e storicizzare il teatro

Teatrosofia #92. Teatralizzare la storia e storicizzare il teatro

IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. Il numero 92 esplora i rapporti tra storia e teatro in Tucidide.

foto historybooks.com

Può la storia aspirare ad assimilarsi al teatro? Questa domanda complessa non trova una risposta intuitiva, né sicura. Di certo i poeti hanno pensato e pensano tuttora di poter attingere alla storia per evocare il teatro e la poesia. Drammi storici come il Riccardo III di Shakespeare o Lehman Trilogy di Stefano Massini mirano a ricavare, dallo studio del passato e dalla sua rappresentazione sulla scena, una visione poetica che possa risultare efficace nel presente e per il futuro. Chiameremo questo gesto come l’atto di “teatralizzare la storia”. È poi possibile osservare che gli storici hanno tentato e tentano ancora, per converso, di ricavare la storia dall’analisi razionale di un testo di teatro. Chi leggesse ad esempio l’Orestea di Eschilo in questo modo potrebbe ricavare delle informazioni storiche su eventi, usi, costumi e credenze del V secolo a.C., o persino di epoche ancora anteriori. Potremmo definire questo processo come l’atto di “storicizzare il teatro”. In entrambi i casi, però, non si sta davvero rispondendo alla domanda che abbiamo posto all’inizio. Ciò che questa pone è, infatti, il problema se possa esistere una disciplina sia storica che teatrale, ossia che mira ad evocare sia la storia che il teatro in un colpo solo. Detto in altri termini: può lo “storicizzare” coincidere con un “teatralizzare”?

Risposte negative sulla possibilità stessa di questa pratica sono state fatte sin dall’antichità. Si può citare in merito la Poetica di Aristotele, che separa nettamente la tragedia dalla storia, affermando che le due discipline si rivolgono a due scopi diversi e incompatibili. L’una mira a raccontare “quel che potrebbe accadere” (= il probabile e il possibile), quindi qualcosa di universale, mentre l’altra narra “quel che è accaduto”, ovvero degli eventi particolari. La Poetica di Aristotele precisa, peraltro, che un tragediografo che rappresentasse degli eventi storici non starebbe facendo storia, bensì poesia. Egli racconterebbe quei fatti come esempi di “quel che potrebbe accadere”, dunque guarderebbe al particolare in senso universale. Applicando il linguaggio da cui siamo partiti, questo tragediografo non avrebbe fatto altro che anticipare il gesto di Shakespeare e di Massini di “teatralizzare la storia”.
Eppure, prima di Aristotele, sembra che i confini tra teatro e storia fossero più labili. Prenderò in considerazione in questo intervento La guerra del Peloponneso di Tucidide e la loro ricezione in due critici antichi: Dionigi di Alicarnasso, autore di un saggio Sul carattere di Tucidide, e il biografo giustinianeo Marcellino, che scrisse una Vita di Tucidide. Pare che dai libri tucididei emerga, infatti, un tipo di scrittura storica che a volte sconfina nella costruzione teatrale.

Tucidide inaugura un modo all’epoca nuovo e più critico di fare storia: non considerare i miti che raccontano i poeti antichi (inclusi quelli che scrivevano per il teatro) come eventi davvero accaduti, dunque come storici. “Storici” in senso proprio saranno quei fatti per i quali è possibile fornire prove, testimonianze e conferme del loro accadimento. Su questo punto, sia Dionigi che Marcellino si trovano a essere d’accordo. Entrambi gli autori contrappongono Tucidide a Erodoto, che esprime ai massimi livelli la tendenza di molte altre opere di storici a lui antecedenti o contemporanei (oggi purtroppo perdute) a mescolare la storia con il favolistico. Gli otto libri delle sue Storie raccontano, infatti, per usare le parole di Dionigi, delle «peripezie» o «imposture da teatro», quali l’incontro tra Eracle e Lamia, o le avventure di Arione a cavallo di un delfino, che possono affascinare gli sciocchi, ma non convincere coloro che cercano di dare una ricostruzione oggettiva del passato. E anche laddove Tucidide sembra abbandonarsi a digressioni mitico-teatrali, come quando parla di Tereo trasformato in upupa e dei Ciclopi, egli starebbe in realtà cercando di istruire i suoi lettori su qualcosa di diverso dal mito, per esempio sui luoghi in cui questi presunti eventi favolosi sarebbero accaduti e sulle credenze degli abitanti del posto. L’interpretazione dei due critici trova conferma nelle parole stesse di Tucidide, che si oppone spesso agli storiografi e ai poeti che lo hanno preceduto, sostenendo come questi non intendevano davvero raccontare la storia, bensì dare piacere al loro pubblico con delle false invenzioni.

Questa comparazione può forse risultare un po’ ingiusta verso Erodoto, che spesso ha ben chiari i confini che separano il mito dalla storia. Le sue Storie sembrano anzi in due casi manifestare una concezione razionalistica e storicistica della tragedia (altro esempio di un “storicizzare il teatro”). Il libro V mostra come Erodoto credesse che la tragedia nacque non dal culto di Dioniso, bensì da una celebrazione pubblica della morte di Adrasto, re dei Sicioni. Il libro VI racconta invece l’aneddoto della messa in scena de La caduta di Mileto del tragediografo Frinico, che destò nel pubblico di Atene un dolore e un pianto talmente intenso per il ricordo di questo evento della loro storia al punto che gli Ateniesi vollero infliggere al poeta una multa di mille dracme. Se Erodoto avesse potuto leggere la Poetica di Aristotele, forse avrebbe potuto opporre che questo è un chiaro esempio di tragedia che narra eventi particolari senza trasfigurarli in senso universale. Gli Ateniesi non piansero per aver visto “quel che potrebbe accadere”: lo fecero per il ricordo di un avvenimento infausto della loro storia recente. In ogni caso, la contrapposizione tra Erodoto e Tucidide è sufficientemente fondata per sostenere che il secondo storico rimosse del tutto la tendenza a mitizzare il passato che il primo assecondava in alcune occasioni.

L’accordo di Dionigi e Marcellino si ferma tuttavia qui. Per il resto, i due critici dissentono sulla loro concezione della scrittura tucididea. Dionigi è convinto che Tucidide respingesse sì la teatralità dei miti dei poeti, e tuttavia conservasse, purtroppo, una tendenza a rendere “teatrali” le vicende storiche e umane. Ciò avviene anzitutto nel linguaggio, che è spesso inutilmente enfatico e pomposo perché era possibile usare un’espressione più piana o semplice. Ma accade anche nel racconto dei fatti, che a volte presentano un’autentica struttura drammatica. È il caso, secondo Dionigi, del dialogo tra gli Ateniesi e i Melii, che precede la decisione dei primi di sterminare i secondi per aver deciso di astenersi dal partecipare alla guerra del Peloponneso. Marcellino respinge invece questa idea, negando la dimensione “teatrale” della scrittura tucididea e riconducendola dalla poetica alla retorica. Tucidide è un grande retore e autore di discorsi retorici, mentre quello che Dionigi crede essere un linguaggio enfatico e pomposo è in realtà alto/sublime. Marcellino ne è persuaso a tal punto da rovesciare la prospettiva. Uno storico “teatrale” in senso deleterio è di nuovo Erodoto, che a suo dire «scrisse brevi orazioni simili più a caratterizzazioni di personaggi che a discorsi», non orazioni in senso proprio come fece invece Tucidide.

La tacita premessa condivisa da Dionigi e Marcellino è che “teatrale” non ha valore positivo. A prescindere che si attribuisca questo aggettivo alle storie di Erodoto o a quelle di Tucidide, esso in realtà inficia la scrittura storica, che in qualche modo perde di dignità e purezza mescolandosi col teatro. Se però accettiamo l’ipotesi di Dionigi e leggiamo “teatrale” senza attribuirgli valore negativo, possiamo riconoscere in Tucidide la capacità di riuscire a presentare alcuni eventi della guerra del Peloponneso come carichi di forza drammatica. Nel modo in cui la scrittura tucididea racconta certi avvenimenti, sembra che la storia diventi teatro, o che la poesia tragica faccia per un lampo la sua apparizione nel divenire storico. I confini delle due discipline sembrano sparire, anche se va forse ammesso che si tratta di casi molto particolari. La strage dei Melii sembra distruggere i confini tra storia e tragedia perché si tratta di un evento eccezionale, che non ha paralleli paragonabili in tutta la guerra del Peloponneso.
Alla domanda da cui siamo partiti (“Può la storia aspirare ad assimilarsi al teatro”?), conviene allora rispondere: forse è possibile, ma non sempre. È solo quando accade a un grande scrittore come Tucidide di narrare un fatto eccezionale che i confini tra la dimensione storica e quella teatrale si sfumano fino a sparire. Gli altri accadimenti meno intensi e normali saranno o solo storia o solo teatro, o vita prosaica o ritmo della scena.

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Da ciò che si è detto risulta evidente che opera del poeta non è dire le cose accadute, ma quali potrebbero accadere e le cose possibili secondo probabilità o necessità. Lo storico e il poeta, infatti, non differiscono per il parlare uno in versi e l’altro in prosa (se infatti le opere di Erodoto si mettessero in versi, nondimeno, metro o non metro, non sarebbero che una narrazione storica), ma differiscono per questo: per dire uno le cose accadute e l’altro le cose quali potrebbero accadere. Perciò la produzione poetica è più filosofica e seria della narrazione storica: la produzione poetica, infatti, dice soprattutto le cose universali, mentre la narrazione storica dice il particolare. (…) Così, dunque, se <al poeta> capitasse di poetare su cose accadute non sarebbe meno poeta; niente, infatti, impedisce che alcune di queste potessero essere com’è probabile che accadano e possibili; e perciò uno è poeta (Aristotele, Poetica, passo 1451a-b; trad. Guastini)

Or dunque gli storici antichi prima della guerra peloponnesiaca fiorirono numerosi e in luoghi diversi: fra questi è Evagone di Samo, Deioco di Proconneso, Eudemo di Paro, Democle di Figele, Ecateo di Mileto, Acusilao di Argo, Carone di Lampsaco, Amelesagora di Calcedonia; furono invece di poco più anziani delle guerre peloponnesiache, ma giunsero fino all’età di Tucidide, Ellanico di Lesbo, Damaste del Sigeo, Xenomede di Ceo, Xanto della Lidia e altri molti. Costoro ebbero la medesima iniziativa nella scelta degli argomenti, e capacità non molto dissimili tra loro; giacché essi registraron le storie or degli Elleni, or dei barbari, senza connetterle fra di loro, ma dividendole per popoli e per città, e pubblicandole separatamente, avendo di mira l’unico e identico scopo di portare alla comune conoscenza di tutti, così come le avevano ricevute, senza nulla aggiungere e nulla togliere, tutte le memorie che s’erano conservate, divise per popoli e per città, presso gli abitanti dei singoli luoghi (…); e, in queste storie, v’erano molte favole, cui l’antichità aveva sempre prestato fede, ed anche alcune peripezie da teatro, che oggi ai moderni sembra che contengano molto di sciocco (Dionigi di Alicarnasso, Sul carattere di Tucidide, cap. 5; trad. Pavano)

Per questo, dunque, egli [Tucidide] si distinse anzitutto dagli storici anteriori a lui, dico per avere scelto un argomento né costituito al tutto da un sol membro, né diviso in molte e irricongiungibili parti; e poi per non aver aggiunto nulla di mitico alla sua storia, e per non avere rivolto il suo scritto ad inganno e ad impostura della moltitudine, come avevano fatto tutti gli scrittori anteriori a lui, narrando di certe Làmie in selve ed in boschi che vengon su dalla terra; e di Naiadi anfibie che escon dal Tartaro e nuotanti per il mare e miste di ferine membra e che pur vengono in relazione con uomini, e [narrando] di semidivine proli [nate] da mortali e divini accoppiamenti, ed altre storie ancora che alla nostra epoca sembrano indegne di fede e piene di grande stoltezza. (…) A Tucidide, invece, che scelse un solo argomento, cui egli stesso era stato presente, non si addiceva mescolare alla narrazione le imposture da teatro o adattarsi alla frode contro i lettori, che quelle compilazioni solevan produrre, ma piuttosto all’utilità [dei lettori], come egli stesso ha spiegato nel proemio della sua storia scrivendo letteralmente così: «E il carattere non leggendario di queste storie le rende men dilettevoli ad udirsi; a me però basterà che le giudichino utili quanti vorranno veder chiaro nei fatti avvenuti ed in quelli che potranno presentarsi, secondo l’umano costume, o tali e quali o simili a questi: perché fosse un acquisto per sempre, piuttosto che un certame per una breve audizione, è stata composta l’opera mia» (Dionigi di Alicarnasso, Sul carattere di Tucidide, capp. 6-7 = Tucidide, Guerra del Peloponneso, libro I, cap. 22, § 4; trad. Pavano)

Tucidide è nemico dei miti, perché ama la verità. Infatti non fece come gli altri scrittori e storici che mescolarono favole alle loro storie, cercando più di dilettare che di attenersi alla verità. E mentre quelli agivano in questo modo, il nostro storico non si preoccupò di scrivere per il diletto degli ascoltatori, bensì per la precisione di coloro che vogliono sapere. E infatti chiamò le sue Storie «certame». Omise perciò molte cose che avrebbero suscitato piacere ed evitò digressioni cui sono soliti indulgere i più, come se ne trovano anche in Erodoto, nella cui opera compaiono il delfino che ama il suono e Arione che, quale nocchiero, lo dirige con la musica: in generale, il secondo libro delle sue Storie tradisce l’argomento dell’opera. Viceversa, se il nostro storico ricorda qualcosa di superfluo, lo narra per necessità e lo racconta solo per giungere a istruire gli ascoltatori. Infatti il racconto di Tereo narra unicamente le sofferenze delle donne, e la storia dei Ciclopi fu rammentata per dar conto dei luoghi e, quando viene ricordato Alcmeone che rinsavisce, allora si rammenta il suo senno; sul resto Tucidide non entra in particolari (Marcellino, Vita di Tucidide, §§ 48-50; trad. Piccirilli)

Tereo abitava a Daulia, che è nella terra ora chiamata Focide, ma che allora era abitata da Traci; e fu in questa terra che le donne compirono il misfatto contro Iti; e anche da molti poeti, quando parlano dell’usignolo, esso è chiamato l’uccello daulio (Tucidide, Guerra del Peloponneso, libro II, cap. 29, § 3; trad. Donini)

Questo è il modo in cui l’isola [= la Sicilia] fu colonizzata nei tempi antichi; e le popolazioni che complessivamente la occuparono furono queste. Si dice che la gente più antica che abbia abitato una parte del paese siano stati i Ciclopi e i Lestrigoni, dei quali io non so indicare né la razza né donde vi arrivarono o per quale destinazione ripartirono: sia sufficiente il racconto che ne è stato fatto dai poeti e il parere che ognuno in qualche modo può esprimere su di loro (Tucidide, Guerra del Peloponneso, libro VI, cap. 2, § 1; trad. Donini)

Dunque non è ragionevole essere increduli né è il caso di considerare l’aspetto delle città piuttosto che la loro potenza, ma bisogna ritenere che quella spedizione fu più grande delle precedenti, ma inferiore a quelle del giorno d’oggi, se anche in questo caso dobbiamo prestare fede alla poesia di Omero: questi è un poeta, ed è probabile che abbia abbellito ed esagerato la sua grandezza (Tucidide, Guerra del Peloponneso, libro I, cap. 10, § 3; trad. Donini)

Tuttavia se ci si basa sugli argomenti da me presentati, non si sbaglierà a ritenere che I fatti che ho narrato si siano svolti all’incirca così; e non si presterà maggior fede a ciò che intorno ad essi hanno cantato i poeti esagerandoli con i loro abbellimenti, né alle versioni che i logografi hanno composto con l’intenzione di essere più gradevoli all’ascolto che veritieri, trattandosi di fatti che non si possono provare, la maggior parte dei quali con il passare del tempo sono sconfinati nel mitico diventando incredibili: si riterrà invece che i risultati delle mie ricerche, basati sulle indicazioni più chiare, siano sufficientemente attendibili, considerando che si tratta di avvenimenti antichi (Tucidide, Guerra del Peloponneso, libro I, cap. 21, § 1; trad. Donini)

I Sicioni erano soliti onorare Adrasto con grande solennità: il loro paese era infatti appartenuto a Polibo, di cui Adrasto era nipote, in quanto figlio di una sua figlia, e Polibo, morendo senza figli maschi, gli aveva lasciato il potere. I Sicioni rendevano dunque ad Adrasto vari altri onori, e in particolare ne celebravano le sventure con cori tragici, venerando non Dioniso, bensì Adrasto. Ma Clistene assegnò i cori a Dioniso e il resto della cerimonia a Melanippo (Erodoto, Storie, libro V, cap. 67, §§ 4-5; trad. Colonna-Bevilacqua)

Allorché i Milesi soffrirono questi mali a opera dei Persiani, i Sibariti che, privati della loro città, vivevano a Lao e a Scidro non ricambiarono ciò che in passato avevano fatto i Milesi: infatti, quando Sibari era stata conquistata dai Crotoniati, tutti i Milesi adulti si erano rasata la testa e si erano imposti un lutto severo, poiché Sibari e Mileto erano le due città più legate da vincoli di ospitalità che conosciamo. Gli Ateniesi invece si comportarono in maniera ben diversa: manifestarono in molti modi il loro grande dolore per la presa di Mileto: in particolare, quando Frinico compose e mise in scena una tragedia sulla presa di Mileto, tutto il teatro scoppiò in lacrime; al poeta fu inflitta una multa di mille dracme, per aver rievocato le sciagure della propria stirpe, e fu proibito a chiunque di rappresentare in futuro quel dramma (Erodoto, Storie, libro VI, cap. 21 = Frinico, T2 Snell; trad. Colonna-Bevilacqua)

Egli [Tucidide] infatti non fa uso di molti discorsi deliberativi o di dibattiti oratori, e non è nell’appassionare gli animi e nel rendere drammatici gli avvenimenti che ha vigore (Dionigi di Alicarnasso, Sul carattere di Tucidide, cap. 23; trad. Pavano)

E presso di lui [Tucidide] si possono trovare non poche anche di quelle teatrali figure – dico le misurate corrispondenze di parole, le rime, le paronomasie, le antitesi – nelle quali passarono la misura Gorgia di Lentini, gli scolari di Polo e di Licinnio, e molti altri che fiorirono al tempo di Tucidide (Dionigi di Alicarnasso, Sul carattere di Tucidide, cap. 24; trad. Pavano)

E a queste parole aggiunge figure teatrali in questa maniera: «infatti l’audacia sconsiderata fu chiamata coraggiosa devozione al partito, e la cauta lentezza, viltà ben mascherata». Infatti entrambe queste proposizioni contengono rime e misurate corrispondenze di parole, e gli aggettivi vi stanno per abbellimento. Infatti la forma non teatrale ma necessaria di espressione sarebbe stata di tal genere: «chiamavano infatti coraggio l’audacia, e viltà la lentezza» (Dionigi di Alicarnasso, Sul carattere di Tucidide, cap. 29 = Tucidide, Guerra del Peloponneso, libro III, cap. 82, § 4; trad. Pavano)

Paragoniamo ora a questo dialogo, che è così nobile ed elevato, un altro dialogo di Tucidide, di cui fanno le più grandi lodi gli ammiratori di cosiffatto stile. Introduce egli, dopo che gli Ateniesi ebbero inviato una spedizione contro i Meli, coloni degli Spartani, e prima di dare inizio alle operazioni belliche, lo stratego degli Ateniesi e i consiglieri dei Meli 5 che vengono a colloquio per la risoluzione del conflitto; e da principio dichiara in persona propria le cose dette dagli uni e dagli altri, ma avendo osservato questa forma, la narrativa per una sola risposta, dà al resto del dialogo dei personaggi, e ne fa un dramma (…) E dopo di ciò, avendo stornato il dialogo dalla forma di narrazione alla forma drammatica, introduce l’Ateniese a rispondere (Dionigi di Alicarnasso, Sul carattere di Tucidide, capp. 37-38; trad. Pavano)

Avendo gli scrittori e gli storici anteriori a lui composto opere quasi prive di vita ed essendosi generalmente limitati alla mera esposizione dei fatti, senza attribuire ai personaggi alcuna orazione e comporre discorsi, cosa che invece tentò di fare Erodoto, tuttavia senza riuscirvi (infatti egli scrisse brevi orazioni simili più a caratterizzazioni di personaggi che a discorsi), Tucidide fu l’unico storico a inventare i discorsi e a perfezionarli con sommari e distribuzioni delle parti, sicché anche i suoi discorsi rientrano in un genere; il che è il modello dei discorsi perfetti. E poiché gli stili sono tre (il sublime, il piano e il medio), messi da parte gli altri, Tucidide scelse il sublime, perché era conforme alla sua propria natura e si confaceva all’importanza di una così grande guerra: infatti era conveniente che il discorso su coloro le cui gesta erano grandi si addicesse alle gesta compiute. (…) Quanto all’insieme della sua opera, alcuni osarono sostenere che il suo modo di scrivere non attiene alla retorica, bensì alla poetica. Ma è evidente che non attiene alla poetica, poiché esso non soggiace ad alcuna norma metrica (Marcellino, Vita di Tucidide, §§ 38-41; trad. Piccirilli)

Talvolta ricorre al genere elogiativo nel quale compone le orazioni funebri, introducendo ironie variegate, facendo domande e parlando in modo filosofico: infatti laddove usa il dialogo filosofeggia. Tuttavia, i più gli rimproverano il modo d’esprimersi e il coordinamento delle parole, e fra costoro c’è Dionigi d’ Alicarnasso: infatti egli biasima Tucidide perché è incapace di esprimersi in un linguaggio prosaico e comune, ma costui ignora che tutto ciò è indice di forza straordinaria e di un temperamento superiore (Marcellino, Vita di Tucidide, § 53; trad. Piccirilli)

[Il dialogo tra gli Ateniesi e i Melii (in Guerra del Peloponneso, libro V, capp. 84-113) è troppo lungo per essere citato nella sua interezza. Si consiglia la lettura della pubblicazione separata di Luciano Canfora (a cura di), Tucidide: Il dialogo dei Melii e degli Ateniesi, Venezia, Marsilio, 1991. Le fonti su Frinico sono nel cap. 3 Bruno Snell (ed.), Tragicorum Graecorum Fragmenta. Band 1, Gottingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1971. Le traduzioni usate sono infine le seguenti:
1) Aristide Colonna, Fiorenza Bevilacqua (a cura di), Le storie di Erodoto. Volume secondo: libri V-IX, Torino, UTET, 1996;
2) Daniele Guastini (a cura di), Aristotele: Poetica, Roma, Carocci, 2010;
3) Giuseppe Pavano (a cura di), Dionisio d’Alicarnasso: Saggio su Tucidide, Palermo, G. Priulla Editore, 1952;
4) Guido Donini (a cura di), Le storie di Tucidide, 2 voll., Torino, UTET, 2000;
5) Luigi Piccirilli (a cura di), Storie dello storico Tucidide, edizione critica, traduzione e commento delle Vite tucididee, Genova, Il Melangolo, 1985]

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

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