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Professione dramaturg. Intervista al Leone d’Oro Jens Hillje

La Biennale di Venezia ha assegnato il Leone d’Oro alla Carriera 2019 per il Teatro all’artista e studioso Jens Hillje, attualmente condirettore artistico e chief dramaturg al Gorki Theater di Berlino. Un’intervista sulla sua carriera, sul ruolo del dramaturg e sulla concezione politica del teatro.

Jens Hillje ©Hoch

I Leoni della Biennale, tra i maggiori riconoscimenti al mondo per il risultato raggiunto nelle arti, quest’anno hanno premiato con l’Argento il teatro per ragazzi firmato da Jetse Batelaan, che abbiamo intervistato qualche settimana fa, e con l’Oro il condirettore artistico e chief dramaturg del Maxim Gorki Theater di Berlino, Jens Hillje.
Un estratto della motivazione recita: «[Jens Hillje] riassume nella sua figura professionale tutte le caratteristiche che oggi definiscono il ruolo del drammaturgo, non più solamente artefice della scrittura o dell’elaborazione di testi teatrali come in un recente passato».
In questi ultimi anni anche in Italia il termine «dramaturg» si sta distanziando sempre di più da quello di «drammaturgo», volando via dalla pagina scritta per definire un ruolo ben più complesso. In particolare questo abbiamo discusso, al telefono, interloquendo con la voce squillante e precisa di Jens Hillje, tedesco classe 1968, con qualche anno di studio a Perugia e soprattutto molta attività “sul campo” in Germania, come attore, autore, regista e, appunto, dramaturg. Una parola, quest’ultima, che ancora unisce due termini greci, drama e ergon, in un «lavoro sull’azione».

Come hai cominciato la tua carriera? Come sei diventato quello che sei ora?

Ho iniziato a fare teatro all’età di quattordici o quindici anni e sono cresciuto a Milano. La mia prima esperienza è stata con un collettivo: in una birreria, mentre la gente beveva, noi portavamo una versione bavarese de Il Croguiolo (The Crucible) di Arthur Miller e riuscimmo ad attrarre l’attenzione della folla. Da lì ho capito che il teatro è qualcosa che può lavorare in ogni direzione, in grado di cambiare profondamente le persone che lo praticano e quelle che lo guardano, perché si tratta di un’esperienza che ti pone in presenza di qualcosa che accade. Questo evento è stato per me una sorta di iniziazione. Così ho cominciato a recitare, a scrivere, a dirigere e l’ho fatto per circa dieci anni. Ho studiato a Perugia e stavo per proseguire verso il DAMS di Bologna, ma ho poi deciso di tornare in Germania. Là ho completato i miei studi, a Hildesheim, in una piccola università il cui metodo di insegnamento e di pratica delle arti promuove gli ideali del Bauhaus. Il programma di studio si pone a metà tra teoria e prassi: la produzione dell’arte si basa molto su concetti teorici, ma la sua applicazione si pone in ascolto dei reali bisogni delle persone a cui ci si rivolge. L’esperienza a Hildesheim è stata di grande ispirazione per me, nel momento in cui ho cominciato a lavorare con Thomas Ostermeier, appena arrivato a Berlino nel 1995. Lì sono diventato dramaturg, perché avevo un’esperienza decennale sia nella teoria, attraverso lo studio, che nella pratica, avendo lavorato come attore, scrittore e regista.

Die Hamletmaschine – foto di Ute Langkafel

Il termine dramaturg sta cominciando a farsi strada anche in Italia, con un ritardo che probabilmente dipende da una diversa concezione dei ruoli, da una diversa tradizione, da un diverso funzionamento dei sistemi creativi e produttivi. Rispetto a questo, saresti in grado di definire con precisione la funzione del dramaturg?

Per arrivare a una definizione bisogna partire da due diverse prospettive. La prima è una prospettiva storica, che risale al Diciottesimo secolo, all’inizio della nuova concezione dell’arte, della letteratura e del teatro tedesco. Un momento in cui la Germania tentava di stabilire dei principi di riconoscibilità nazionale attraverso la produzione artistica e un’idea nazionale di teatro di lingua tedesca. Il dibattito riguardava la spinta a seguire la tradizione francese o quella inglese; quindi c’erano Racine e Shakespeare come modelli principali di due diverse concezioni del teatro, influenzate dalla forte presenza dei drammaturghi. In che modo esse potevano conciliarsi con l’idea di una tradizione tedesca?
In particolare Lessing e coloro che si occupavano di organizzare questo dibattito e di sviluppare un concetto autonomo, dunque, avevano queste altre due tradizioni europee come controparte. Qui nasceva l’idea di una drammaturgia del teatro, veniva creata una convenzione (un modo di scrivere, un modo di recitare, più tardi un modo di dirigere). Alla fine il modello shakespeariano forse ebbe la meglio, ma non senza una forte influenza del canone francese, che proponeva nozioni intorno alle modalità narrative, di costruzione dei personaggi, ai modelli linguistici. Dunque quella tedesca viene dalla fusione di diverse tradizioni europee. È interessante, d’altra parte, come il teatro inglese di oggi, molto basato sulla produzione di testi, abbia preso forma come impostazione a partire dalla visita del Berliner Ensemble diretto da Bertolt Brecht, che riportò in Inghilterra, a Londra in particolare, una concezione e una tradizione tedesca. In fondo è così che si è sempre sviluppato il teatro in Europa, tramite un continuo scambio attraverso il quale si accettano alcuni canoni, li si integra nella propria tradizione, facendo caso a che cosa possa risultare interessante e puntuale in un altro contesto nazionale. Questo processo va sempre riferito, evidentemente, al tipo di società che in quel momento innesca quella forma di negoziazione: che cosa si aspetta la società dal teatro? Quali storie si dovrebbero raccontare? Da quale prospettiva? Ed è così che arriviamo al tempo presente, in cui ancora discutiamo su come debba essere realizzata una produzione teatrale. In Germania diciamo che il dramaturg è il “pensatore”, il “cervello del teatro”, il che significa che è colui o colei che vede, ascolta, riflette e restituisce alle altre persone: gli attori, il regista, il pubblico.

Perché sia possibile esercitare questa funzione, però, occorre che il dramaturg sia una figura fissa per ciascun teatro, che sia integrato nella macchina artistica e produttiva di uno spazio teatrale.

È così per ogni teatro nel sistema tedesco, austriaco e svizzero in particolare, perché esso è basato su una concezione di ensemble. Al Gorki Theater abbiamo una compagnia di venti attori, tre registi residenti, altri dieci registi e registe che lavorano con la nostra compagnia e uno staff di cinque dramaturg che seguono la compagnia.

Die Hamletmaschine – foto di Ute Langkafel_MAIFOTO

Non essendo un sistema di teatri nazionali basato su compagnie stabili, al momento, nella nostra concezione il dramaturg è una figura che, più che lavorare all’interno di uno spazio teatrale, si lega piuttosto alle compagnie singole, ai singoli artisti, addirittura a precisi segmenti del lavoro creativo (assiste la traduzione o l’adattamento di un testo, la costruzione del movimento coreografico, etc.).

Per noi è invece proprio un rappresentante della direzione artistica del teatro, con cui lavora a stretto contatto: insieme sviluppano la politica artistico-culturale dello spazio e selezionano le figure da coinvolgere nella produzione. Dunque è un ruolo che accompagna ogni fase della costruzione dello spettacolo, nel periodo di prove. È il dramaturg, ad esempio, a suggerire alla direzione artistica il regista da chiamare a lavorare con la compagnia e svolge un ruolo di produzione esecutiva per il titolo in cartellone, discutendo con il regista la distribuzione dei ruoli agli attori e proprio le tematiche e le idee che si vuole far passare attraverso il lavoro. È così che si dà forma a una politica artistica propria di un teatro, diversa da ogni altra.

Più cresce l’influenza nei confronti di una produzione, più aumenta l’autorialità e dunque la responsabilità nei confronti del pubblico. Ma è anche un modo per tramutare una semplice competizione in un dialogo tra diverse idee che viaggiano all’interno di un sistema teatrale comune. È forse così che si rende più chiara e leggibile la funzione politica di uno spazio teatrale. Tu come ti confronti con questa idea?

Torniamo a una prospettiva storica, allora. La nostra tradizione trova le radici nel pensiero rinascimentale e dunque nella ricezione dell’idea greca classica del teatro. Il teatro è parte della polis e in un certo senso una parte dell’agorà, uno spazio pubblico in cui la società può e deve rispecchiarsi, confrontandosi con ciò che è e con ciò che dovrebbe essere. Questa discussione non si limita al discorso strettamente politico, ma riguarda anche le modalità con cui si consegna al pubblico una narrazione del presente. Per esempio, tutti i teatri a Berlino sono pieni e se la passano bene: abbiamo molte nuove forme di comunicazione, ma nessuna è diretta come quella del teatro ed è davvero qualcosa di speciale. Se si chiede al pubblico tedesco perché frequenti il teatro, l’ottanta per cento risponde che va a teatro per pensare. Vogliono vedere gli spettacoli e vogliono pensare. Dunque metà dell’esperienza di visione è costituita dalla discussione intorno a ciò a cui si è assistito. Il teatro allora diviene parte di ciò che potremmo chiamare un processo di auto-educazione e auto-riflessione. Certo, c’è anche l’intrattenimento, ma forse il pubblico tedesco non ammetterebbe mai questa come prima motivazione (ride, ndr). In fondo è l’idea di base del teatro di Brecht: intrattenere il pubblico per spingerlo alla riflessione. Oggi, ad esempio, è molto importante considerare l’incredibile varietà della società tedesca, e Berlino può essere vista come un simbolo di quella società in termini di “campione di umanità”. Lo stesso Gorki Theater in qualche modo finge di essere uno spazio rivolto alla microcomunità e si interroga se sia o meno un teatro nazionale, ma di fatto viene percepito come uno spazio dedicato a tutto il pubblico tedesco. Allora la situazione che vede cinque teatri nazionali agire in contemporanea li vede sì in competizione, ma impegnati nella proposta di cinque diverse idee su che cosa un teatro nazionale dovrebbe rappresentare oggi.

Die Hamletmaschine – foto di Ute Langkafel

Come si costruisce un lavoro collettivo attorno al teatro? Qual è il valore aggiunto?

Per me sta nel momento del confronto tra tutti i membri del collettivo che lavorano in una produzione: con registi, scrittori, attori e tecnici ci interroghiamo sulle storie che raccontiamo, su come esse riflettano la realtà che ci circonda. Quando dico società intendo soprattutto la città a cui ci rivolgiamo, quella in cui viviamo e per la quale lavoriamo. Nel mio compito ciò che non manca mai è proprio una discussione di natura politica: di che cosa dovremmo parlare? Da quale prospettiva? Quali nuove modalità narrative dovremmo usare? Questa continua discussione coinvolge tutto il comparto artistico, perciò un dramaturg deve essere il motore che permette a quella discussione di funzionare. Che cosa significa, ad esempio, vivere in una società aperta o in una società chiusa? Come una società aperta si confronta con il tema della giustizia? Come raccontare il ruolo delle donne in questa società? Come affrontare quello dei “perdenti”? Si affrontano tutte le domande che rappresentano la discussione politica all’interno della vita cittadina e a volte tentiamo di provocare ragionamenti, a volte di sposarne altri. Proprio perché il pubblico ama confrontarsi e parlare degli spettacoli, entrare in quel dibattito. Una delle maggiori manifestazioni a Berlino contro la nuova destra e contro il razzismo è stata organizzata proprio dai club e dai teatri ed è diventata un’azione molto estesa, diventando parte di un più ampio movimento a favore di una società aperta.

Sagt Mir Nichts – foto di Thomas Aurin

Dunque il teatro può avere un reale valore politico.

Tornando alla domanda sul come e il perché sono diventato dramaturg, c’è un termine per me molto importante, Politik der Blicke («politica dello sguardo»). Alcune parole in tedesco hanno, al contempo, un significato molto concreto e tanti altri di natura filosofica e ci si può giocare: Blick può essere tradotto come sguardo, prospettiva, vista, come guardi le persone, come guardi a certi temi. Come le persone si guardano a vicenda definisce il modo in cui si costruisce la società, poiché le persone devono necessariamente identificare chi è a favore e chi contro di loro. Qui torna la questione della varietà: chi è tedesco e chi non lo è? C’è un tipo di sguardo che ci portiamo dentro, quello che rivolgiamo alla società e che ci detta un certo comportamento. Allora, osservando coloro che agiscono in scena, ci domandiamo: sono attori o personaggi? Sono qualcosa che sta nel mezzo e che contribuisce a costruire un’idea di società di quel preciso momento. Se parliamo dell’opportunità di cambiare la visione delle persone, il teatro agisce sulla possibilità di trovare una forma riflessiva per quello sguardo che ci portiamo dentro. E questo processo riguarda tutti i principali dibattiti politici: se riesci a cambiare il modo in cui una persona guarda gli altri, riesci a cambiare il suo modo di pensare, anche se di poco. Il modo in cui guardi le persone è alla base del pensiero politico.

Sagt Mir Nichts – foto di Thomas Aurin

Specialmente quando si usa l’arte – un’arte come il teatro – per affrontare questi temi si ha davvero l’opportunità non solo di cambiare uno sguardo, ma di negoziarlo con un’influenza collettiva. Quei paesi che non stanno riuscendo a conferire questo tipo di funzione alle arti sono anche quelli che restano ingabbiati in un discorso politico unidirezionale e autoritario. Qual è l’antidoto?

Quel che cerchiamo di fare con il nostro teatro è di costruire un’esperienza gioiosa in grado di spalancare lo sguardo, di aprire al suo interno degli spazi per lavorarlo. Questo permette alle persone di guardarsi attorno da una nuova prospettiva. È un’idea davvero basilare del riuscire a educare te stesso e confrontarti col mondo attraverso l’arte, anche se non sempre ci si riesce ed è possibile. Il ruolo del dramaturg è quello di comprendere la costruzione di uno sguardo in modo da poterlo decostruire e così renderlo comprensibile alle persone con cui lavora. In questo modo si chiarisce il processo da seguire per agire sul modo in cui lo spettatore osserva il mondo che abita.

Sergio Lo Gatto

L’intervista è stata condotta in inglese. Traduzione in italiano a cura dell’autore.

Jens Hillje incontrerà il pubblico a Ca’ Giustinian, Venezia, il 2 agosto 2019

 

Alle Tese dei Soppalchi
3 agosto 2019, ore 21

ES SAGT MIR NICHTS, DAS SOGENANNTE DRAUSSE
prima italiana (2013, 75’)

di Sibylle Berg
regia Sebastian Nübling
coreografia Tabea Martin
con Nora Abdel-Maksoud, Suna Gürler, Rahel Jankowski, Cynthia Micas
drammatugia Katja Hagedorn
scenografia Magda Willi + Moïra Gilliéron
costumi Ursula Leuenberger + Moïra Gilliéron
produzione Maxim Gorki Theater in collaborazione con junges theater basel

Al Teatro Goldoni
4 agosto 2019 ore 18

Jens Hillje
Cerimonia di consegna del Leone d’Oro alla carriera

a seguire

DIE HAMLETMASCHINE

prima italiana (2018, 75’)

di Heiner Müller
un progetto di Exile Ensemble
regia Sebastian Nübling
con Maryam Abu Khaled, Mazen Aljubbeh, Karim Daoud, Tahera Hashemi, Kenda Hmeidan, Kinan Hmeidan, Yousef Sweid
drammaturgia Ludwig Haugk
testi Ayham Majid Agha
scene e costumi Eva-Maria Bauer
musica Tobias Koch
produzione Maxim Gorki Theater

 

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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