Abbiamo raccolto nello stesso articolo la visione di First Love di Marco D’Agostin e Joie de vivre di Simona Bertozzi. Recensione da Vie Festival a Bologna.
Con una formidabile e contrastante doppietta, Vie Festival 2019 non solo ha dedicato una bolognese serata alla danza ma, astutamente, ha fatto in modo che le due proposte fossero testimonianza diretta di altrettante, opposte, modalità d’essere della danza odierna. Da una parte il trentaduenne Marco D’Agostin ha aperto la serata, con l’assolo First Love (Premio Ubu 2018 come Miglior Performer Under 35), dall’altra la più matura Simona Bertozzi ha mostrato la propria ultima fatica, Joie de vivre, condivisa con il compositore Francesco Giomi, quattro danzatori, due cantanti. Il primo lavoro, di facile ricezione, ha fatto esultare il pubblico nel piccolo e gremito DAMSLab; il secondo, invece più complesso, ha ricevuto plausi (nella più vasta Arena del Sole) e una prevedibile dose di freddezza. La cosa non ci ha stupito affatto.
Il bravo e intelligente coreografo veneto Marco D’Agostin, che conosciamo dai tempi del suo primo assolo Viola (2010), qui racconta a parole in una serrata quanto partecipe cronaca, non priva di movimenti attinenti, di una leggendaria impresa di Stefania Belmondo, campionessa piemontese di sci di fondo a tecnica libera. Nel 2002 Belmondo vinse, nella sua disciplina, le Olimpiadi di Salt Lake City, battendo con incredibile tenacia fisica campionesse, russe soprattutto, e molto più titolate di lei. Il D’Agostin bambino, appassionato di questo sport, rimase talmente folgorato da quella prodezza da erigere la Belmondo a suo mito. Ripescando nella memoria questo più volte dichiarato «primo innamoramento» infantile, ha così confezionato First Love, con la consulenza scientifica della stessa Belmondo, di Tommaso Custodero e quella drammaturgica di Chiara Bersani.
Nello spazio teatrale vuoto, il “cronista”/danzatore ci regala, all’inizio, una canzone pop in playback; poi dà subito vita parlata alla partenza «classica anzi libera», come egli definisce, forse con un doppio senso riferito alla danza, la sua sciata. Per far ciò non ha bisogno di particolari costumi, solo di un paio di scarpe da ginnastica e di vestiario casual. Entriamo nel clima della gara con una miriade di particolari: dalla temperatura climatica al numero di chilometri da percorrere (15); dal numero delle partecipanti alle differenze tra sci di fondo nordico e modo di scivolare sulla neve della sua eroina. Pare che per scandire la propria reminiscenza cronachistica – unica, vera, “musica” della gara – D’Agostin si sia ispirato alla grande poetessa Amelia Rosselli, che era pure etnomusicologa; tuttavia la metrica scandita è libera: sale e scende con le emozioni del performer.
D’Agostin s’infiamma quando a Belmondo si spezza un bastoncino e poiché, di descrizione in descrizione, aumenta il ritmo dei suoi piegamenti, la dinamica delle braccia ad angolo, in una sorta di mimico sciare trasfigurato sur place, ha bisogno di soste. Si rannicchia in silenzio. L’eccitazione raddoppia nel gran finale: sulla ripidissima salita in cui l’atleta riesce a sorpassare per un soffio la più insidiosa delle rivali russe. Ce l’ha fatta! A dieci anni dal suo ultimo oro olimpico, Belmondo ha riconquistato la medaglia iridata.
Madido di sudore, D’Agostin, ormai, non ha più nulla d’aggiungere e si concede, laggiù in fondo scena, una sua immagine mentre la neve scende su di lui beata.
Beata memoria: First Love, volente o nolente, si allinea a quel dominante mainstream che oggi predilige pièce comprensibili a tutti, capaci di esprimere, anzi di comunicare una e una sola idea, magari circoscritta e confezionata con zelo come in questo caso, ma che si prefigura come una vera e propria “prigione” percettiva e intellettiva per lo spettatore. Chiunque assista a First Love non può attingere alla sua propria fantasia, ma deve seguire l’idée fixe, totalizzate, il diktat del coreografo: qui non vale di certo il pensiero – per noi ancora un assioma – di Mary Wigman: «Se posso comunicare qualcosa con le parole, che bisogno ho di esprimerlo nella danza?».
Certo non dubitiamo dell’amore disinteressato di D’Agostin per il proprio idolo bambino, né ci poniamo il problema della danza non danza et similia, bensì dell’esito di una pièce corrispondente alle cronache degli innumerevoli eventi sportivi dai quali siamo quotidianamente circondati e che però possiamo scegliere. Persino le sue finezze – metrica della scansione verbale, identificazione del performer con l’atleta (a un certo punto il nome della sciatrice diviene “Marco”), talento interpretativo – non sciolgono le utilitaristiche riserve autoreferenziali.
Agli antipodi, Joie de vivre di Simona Bertozzi, per un pubblico che preferisca “capire”, “collocare”, e restare ancorato al quotidiano, potrebbe sembrare un ostico grattacapo. Che cosa significa, si chiedevano gli osservatori del primo acquarello astratto di Kandinskij? Oggi anche l’arte visiva procede in una direzione di maggiore semplicità e tanto spesso comunica e non esprime. Tuttavia c’è ancora chi, in tutti gli ambiti artistici, caparbiamente ricerca e non sa proprio che cosa funzioni o meno presso il pubblico. La ricerca è fatta per porsi domande sul corpo, sulla sua reazione nello spazio e con la musica. La ricerca è quella bottiglia contenente un messaggio criptico, lanciata in mare aperto, che non si sa su quale riva approderà e chi la decifrerà e come, parafrasando Theodor Adorno.
Di Joie de vivre si sa che è dedicato al mondo della natura, a come la natura provi a emergere, a diventare rigogliosa, a esprimere la propria (e la nostra) felicità. All’inizio della pièce – palco nudo, un po’ di fumo e penombra – i quattro interpreti entrano in scena avvolti in multiformi e variopinti costumi e a terra appare già un groviglio di tubi verdi e neri poi rimosso. Un suono delicato è accompagnato da un canto spazza via tutti e tutto.
Al rientro i quattro danzatori, in chiari costumi snelli o pantaloncini, si incamminano su di una musica diventata tambureggiante: tutto è lento e quasi ipnotico ai quattro lati del palco, ma poi gesti ed energie salgono di tono. I movimenti si fanno isterici e compulsivi – mani che frullano, teste che si scuotono . C’è chi si rotola a terra o chi si protende all’infinito; si forma un meraviglioso gruppo, ma ben presto si scioglie sopra la musica, diventata assordante, per inventare capriole, momenti di coppia, assoli, in un lento accendersi di tensioni dove il richiamo alla terra fa sempre da calamita. Nelle loro dispersioni i corpi sono come radici rizomatiche, ora quiete, ora combattive.
L’entrata di due enigmatici personaggi in nero (che si scoprirà essere i cantanti) pone fine all’alternarsi di assoli di chi muove le braccia a elica, o si slancia chissà dove e anticipa la creazione di una serie di tableaux vivants di spalle, di un allineamento e di una serie di corse e rincorse in cui la musica sembra bruciare. Filamenti musicali, quasi urticanti, preludono all’assolo, splendido, di una danzatrice al centro, volta in tutte le direzioni, aperta e chiusa in se stessa. Infine, il ritorno dei due interpreti in nero con segnali stradali usati quando accadono incidenti, prelude all’utilizzo degli stessi come altoparlanti, o meglio trombe dalle quali lanciare un canto primitivo, che pare sgraziato e invece è difonico, ovvero così armonico da permettere all’esecutore di far risaltare gli armonici naturali della propria voce.
Ma chi saranno costoro? Ogni interpretazione è assolutamente aperta e possibile… Intanto, al termine dell’esibizione, i cantanti soffocano, con gli stessi tubi neri e verdi dell’inizio, quelli che vorremmo forse chiamare germogli umani danzanti. La musica di Francesco Giomi – qui davvero prodigiosa nella gamma esplorativa – si fa sottile, accoglie campanelli che forse aiutano i danzatori a emergere dalla matassa, a farsi avanti in proscenio all’unisono, gettando le braccia al cielo, e a trascinar via l’ingombrate groviglio. Che però tornerà fuori con la sua plastica odiosa tra fumi bianchi e un robusto gong e gong.
Difficile? Intanto ammirare la danza, non pensare, lasciarsi catturare dai cangianti suoni e dagli originali canti. E poi vale, per Joie de vivre, una delle antiche affermazioni di William Forsythe: «preferisco entrare a teatro senza sapere nulla, e uscirne sapendone ancora meno». Da soppesare, è ovvio, il verbo “sapere”, opposto a “emozionarsi”, “commuoversi”, “partecipare con i sensi”, non con la ragione.
Marinella Guatterini
DAMSLab / Teatro Arena del Sole (Vie Scena Contemporanea Festival), Bologna – marzo 2019
FIRST LOVE
un progetto di e con Marco D’Agostin
suono LSKA
consulenza scientifica Stefania Belmondo e Tommaso Custodero
consulenza drammaturgica Chiara Bersani
luci Alessio Guerra
direzione tecnica Paolo Tizianel
promozione Marco Villari
organizzazione Eleonora Cavallo, Damien Modolo
progetto grafico Isabella Ahmadzadeh
produzione VAN 2018
coproduzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Torinodanza festival e Espace Malraux – scène nationale de Chambéry et de la Savoie, nell’ambito del progetto “Corpo Links Cluster”, sostenuto dal Programma di Cooperazione PC INTERREG V A – Italia-Francia (ALCOTRA 2014-2020)
in collaborazione con Centro Olimpico del Fondo di Pragelato
progetto realizzato in residenza presso la Lavanderia a Vapore, Centro Regionale per la Danza con il supporto di ResiDance XL, inTeatro
foto Alice Brazzit
JOIE DE VIVRE
progetto Simona Bertozzi, Marcello Briguglio
ideazione e coreografia Simona Bertozzi
danza Wolf Govaerts, Manolo Perazzi, Sara Sguotti, Oihana Vesga
canto Giovanni Bortoluzzi, Ilaria Orefice
musica e regia del suono Francesco Giomi
dramaturg Enrico Pitozzi
set e luci Simone Fini
costumi Katia Kuo
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Fondazione Teatro Comunale di Modena, Associazione Culturale Nexus
con il contributo di MIBAC, Regione Emilia Romagna, Fondo Regionale per la Danza d’Autore
con il sostegno di Fondazione Nazionale della Danza – Aterballetto, Arboreto Teatro Dimora di Mondaino