Torna alla Triennale di Milano Schwanengesang di Romeo Castellucci, sui Lieder di Franz Schubert. Uno sguardo attento alla partitura musicale.
Volendo riflettere su gli oltre seicento Lieder composti da Franz Schubert come rappresentazioni delle immagini del Romanticismo, si troverebbe la chiave di volta di molte esperienze emotive tradotte in pittura, teatro, danza, opera. Da Ludwig van Beethoven e Franz Schubert ai post-Wagneriani, come Richard Strauss e Gustav Mahler, le poesie cantate per voce e pianoforte hanno spesso catturato i sentimenti, quasi sempre appoggiandosi alle tristezze della vita, agli amori perduti, ma anche ai ricordi d’infanzia intrecciati a innocenza, fragilità, delusioni e felicità svanite, oppure sulla salvezza nel sonno, raggiunta attraverso la musica.
Come forma musicale, il Lied vanta una caratteristica unica: si esprime in una canzone, ma anche in un ciclo. Le immagini create attraverso le parole poetiche sembrano dipingere eventi e impressioni diverse. In realtà, alludono a significati simili, a volte connessi tra loro da un singolo obiettivo. La bellezza di una canzone o di un intero ciclo di Lieder di Schubert consiste nel mettere al centro la voce di un solitario poeta, vittima del suo isolamento; spesso costui s’identifica nel musicista, e la musica è salvifica. A tale missione non si sottrae anche l’ultimo ciclo schubertiano, Schwanengesang, affrontato da Romeo Castellucci già nel 2015 (qui un commento di Simone Nebbia) e ora ripreso alla Triennale Teatro dell’Arte di Milano con alcune varianti rispetto al debutto.
Ma attenzione, il numero apposto dopo il titolo (in italiano Il Canto del cigno) è D744 e non il D957 abitualmente abbinato ai quattordici Lieder dello Schwanengesang composto da Schubert nell’anno della morte (1828) e pubblicato postumo. Lo Schwanengesang di Castellucci accoglie alcuni Lieder di quella raccolta ma in un meraviglioso pot-pourri ne aggiunge altri quattro di ben nota meraviglia romantica: Du bist die Ruh, una preghiera mistica, Schlafe, Schlafe, una ninna nanna, Nacht und Träume, il richiamo di sogni incantevoli, e soprattutto Schwanengesang, D744 – Wie klag’ ich’s aus, (“come posso lamentare la sensazione di morire?”), titolo e veliero di tutta la pièce.
Per Castellucci mettere in scena questo ciclo di Lieder ha significato esplorare in modo teatrale le emozioni espresse nelle poesie, senza immagini, figure, elementi scenici al di fuori del soprano, l’intensa Kerstin Avemo e dell’accurato pianista, Alain Franco. Sono i sentimenti dell’artista, avvolti nelle forze dell’evocata natura, a esprimere il suo mondo interiore.
Niente è reale, ovvero, niente importa al di fuori delle sue emozioni e sofferenze. L’essenza dell’artista-musicista rimane passivamente sofferente/indifferente a ciò che influenza, e minaccia, la sua esistenza. Così in uno spazio disadorno solo le note del pianoforte e la voce del soprano echeggiano il destino di un solitario viandante, lontano dal suo ambiente, immerso nel suo romitaggio. Forse è Schubert a indicare la strada ambigua del palcoscenico: «Se volevo cantare d’amore, tutto invariabilmente diventava tristezza. E se volevo solo cantare della tristezza, tutto si trasformava sempre in amore». La tessitura gestuale della cantante non solo è fatta di questa sostanza emotiva, ma è simbolo di palpabili dualismi e sembra voler sussurrare che il destino gioca perpetuamente con le nostre vite.
Ogni reazione a questi opposti è vissuta con un’eruzione di sentimenti. Ben conscia della sua solitudine, la figurina in abito azzurro fumo, esile e graziosa, piange amaramente, si dispera non per la propria sorte, ma per l’afflizione che non può evitare di percepire attorno a sé. I suoi gesti principali sono riservati alle braccia che indicano qualcosa, forse solo nell’immaginario, alle mani portate alla bocca, come quando non possiamo piangere e allora ridiamo. Piano piano distaccata dalla presenza del pianista che suona dalla sala, la cantante può solo cominciare a trovare una ragione d’esistere. Canta con grande intimità, come se i Lieder fossero memorie dolorose da trasmettere in una realtà attuale, ma ci riesce a malapena. La sua fragilità nasce da un’inconfutabile e triste verità: il fiato del suo respiro è legato mentre canta. Così s’inginocchia, si sdraia, offre la schiena al pubblico, si allontana e, per molti aspetti, sembra una fantasma, con i movimenti minimali di un attore del Teatro Nō.
Tutti i Lieder dello Schwanengesang parlano della distanza tra il poeta e la propria amata, e dell’assenza; elementi della natura sono chiamati a comunicare con lei. Torna in mente la Winterreise: anche qui, il viandante rimane isolato dal mondo; di più questo mondo gli viene negato. La protagonista di Castellucci infatti si sposta sempre più lontano dal pubblico, canta rivolta a un altro orizzonte.
Verso la fine, con la musica dello Schwanengesang D744, Wie klag’ ich’s aus, il destino arriva. È un vero e proprio canto del cigno. Il soprano grida, chiede come può comunicarci la premonizione della sua morte, per poi ammettere che solo in essa troverà redenzione. Il dualismo torna, e nella paura troviamo la nostra trasfigurazione.
Un poema di Claudia Castellucci appare, rispecchiando i sentimenti del Wie klag’ ich’s aus, ed è rivolto a un pubblico inopportunamente presente a tanto strazio. «Via, Assassini… questo stupido infinito questo famelico convegno in un pomeriggio deludente…». La cantante inginocchiata in fondo, sul palco, si rialza; comincia lentamente a trascinare il tappeto in plastica nera sul quale ha cantato/recitato, ultimo segno della volontà di concludere il suo viaggio. «Questo – ci dice Schubert in musica – è il significato del canto del cigno».
E come la terra, la vita, come un cigno, lo spettacolo, davanti ai nostri occhi, scivola via.
Marinella Guatterini
Triennale Teatro dell’Arte, Milano – febbraio 2019
SCHWANENGESANG D744
concezione e regia ROMEO CASTELLUCCI
musiche Franz Schubert
interferenze Scott Gibbons
collaborazione artistica Silvia Costa
drammaturgia Christian Longchamp
realizzazione dei costumi Laura Dondoli e Sofia Vannini
con Kerstin Avemo (soprano) e Alain Franco (pianista)
amministrazione Michela Medri, Elisa Bruno, Simona Barducci, Massimiliano Coli
produzione Socìetas
coproduzione Festival d’Avignon, La Monnaie/De Munt (Bruxelles)